l'anniversario
Buon “compleanno”, chef Massimo Spigaroli.
«Grazie. Mezzo secolo in cucina è un bel pezzo di strada. E poi, ci sono altri due anniversari, nel 2025: i 15 anni dell’Antica Corte Pallavicina e i 65 del Cavallino Bianco».
I suoi “ragazzi” le hanno preparato una bella festa.
«Sì, sono al lavoro da settimane. Avrebbe dovuto essere una sorpresa, ma era impossibile che riuscissero a tenere il segreto. Domani (stasera, ndr) ci saranno tantissimi amici e compagni di strada che verranno a festeggiare con me. Una serata a inviti che mi aspetto davvero speciale».
Anche tanti ospiti illustri.
«Sì, a cominciare da Alain Ducasse, che viene apposta nella Bassa. È un grande onore. Ma la cosa che più mi commuove è sapere che verranno tutti i ragazzi – che sono tanti – che negli anni ho mandato in giro per l’Europa per migliorarsi, dopo aver imparato il mestiere da me».
Cinquant’anni in cucina sono tanti. E non parliamo di tutto quello che ha fatto lei, anche lontano dai fornelli. Partiamo dagli inizi.
«Be’, gli inizi sono ben più di mezzo secolo fa. Calcoliamo i cinquant’anni tondi dal mio secondo posto al concorso ”Cuoco d’oro internazionale”: avevo 17 anni, un grande risultato. E avevo già avuto un grande successo, un anno prima, presentando il mio “Fegato in reticella alla Spigaroli” al Circolo della stampa di Milano, davanti a mostri sacri dell’enogastronomia come Alberini, Veronelli, Bonassisi, Carnacina, Mistretta».
Chissà che emozione.
«Sì, tutti grandi personaggi che incutevano soggezione solo a vederli. Il conduttore della serata, nel presentarmi, ha detto proprio “chissà che emozione, questo ragazzino che presenta il piatto del ristorante dei suoi genitori”. E io gli ho strappato di mano il microfono e mi sono presentato da solo».
E l’emozione? Sparita?
«Ho imparato presto a superare la timidezza e l’emozione. Se uno sa quello che fa non deve avere paura di niente e di nessuno».
Lei è figlio e nipote d’arte.
«Proprio così. Mio papà Marcello, mia mamma Enrica e mia zia paterna Emilia mi hanno insegnato tutto. Sono cresciuto nella cucina del Cavallino Bianco, imparando i tre mestieri di famiglia».
E cioè?
«Agricoltori, norcini e ristoratori».
Le prime cose che ha imparato?
«Non saprei dire, perché è stato tutto molto naturale: mi trasmettevano gli insegnamenti come fosse un gioco. Negli anni dell’asilo, al pomeriggio giocavo a disporre tortelli e anolini sul tagliere, inventandomi dei giochi. Facevo le battaglie con la pasta».
Le battaglie?
«Sì. Le tagliatelle erano le montagne, la farina con le uova dentro il vulcano, i tortelli d’erbetta i carri armati, gli anolini i fanti. Mi divertivo un sacco. E intanto imparavo».
Altri ricordi?
«Tantissimi. Quando avevo sei anni i miei mi hanno regalato dodici pulcini. Ero felice, allevandoli e osservandoli. E imparavo. Sempre avuto una grande passione per l’agricoltura, per la terra, per l’orto, per gli animali. È qualcosa che sentivo dentro. Avevo il mio orticello vicino a quello, ben più grande, dei miei genitori. Quando si macellava il maiale, io giocavo a fare il norcino e facevo il mio piccolo salame. E imparavo».
Quanto è stata importante sua madre?
(Si commuove, si asciuga qualche lacrima). «Le devo tutto. Una donna molto intelligente, così come mio padre, Gente per bene, saggia, decisa, determinata. Mi hanno trasmesso l’onestà, prima di tutto. Mia mamma è stata la prima in assoluto a inventare il marketing del territorio. Non a caso, quando è mancata, la “Gazzetta” ha fatto il titolo “È morta la regina della Bassa”. Lo era davvero».
Era una Micconi, non a caso. Anche il fratello Luciano, leggendario segretario di redazione del «Corriere della Sera», è stato un mago nella promozione della “sua” Bassa (oltre che della “sua” Berceto, che ha amato per tutta la vita).
«Ho capito che era stato un uomo molto potente quando è morto. Per me è sempre stato lo zio prodigo di consigli: non mi ha mai regalato nulla, anzi era sempre molto critico. Ma mi ha insegnato tanto, lo porto nel cuore».
A quel punto, la scelta della scuola è stata scontata: l’Alberghiero di Salso.
«Certo. Mi diplomo a pieni voti. E sono convinto di cominciare “ufficialmente” a lavorare al Cavallino Bianco. E invece no».
Come mai?
«Mia madre mi convince a andare in giro, a imparare. Me lo ricordo come fosse oggi: “Fai come vuoi, ma se mi dai retta ti muovi, vai a vedere cosa si fa nelle cucine all’estero, allarghi la mente. Fai quello che io e tuo papà non siamo riusciti a fare”».
Grande lungimiranza.
«Sì. Giro l’Europa, con grande curiosità. E più sto lontano da casa e più capisco quanto è importante il mio territorio e quante cose da scoprire ci sono. Il primo posto che mi colpisce è da George Blanc. Anni Novanta, lui ha già tre stelle. Noto subito questa sua grande voglia di fare, tocco con mano l’orgoglio francese, ma anche l’orgoglio di essere cuoco, il credere nella qualità dei prodotti e nel desiderio di valorizzare i fornitori più bravi, piccoli coltivatori e allevatori e artigiani che girano intorno al locale. Un sistema che, nel tempo, ho cercato di portare a Polesine».
Quale la lezione più importante di George Blanc?
«Mi ha sempre detto ”se compri le stesse cose degli altri, non potrai mai fare la tua cucina, farai sempre quella di tutti gli altri”. Insegnamento intramontabile. Ne ho fatto tesoro, prima valorizzando tutti i fornitori migliori, poi facendo crescere la mia azienda agricola. Oggi quasi il 90 per cento della materia prima che lavoriamo è prodotta da noi: dalle verdure alla carne, dalle uova alle farine, oltre ovviamente ai salumi».
Un suo vecchio amico è Alain Ducasse.
«L’ho conosciuto anni fa a Identità golose, abbiamo parlato a lungo, è rimasto colpito dai miei racconti e ha voluto venire a vedere tutto. “Sei unico al mondo”, mi ha detto, e mi sono commosso. Poi ha mangiato all’Antica Corte. “Non hai ancora una stella Michelin? La prenderai di sicuro: perché ci sono tutte le cose a posto e tu hai la testa giusta”. Poco dopo, nel 2011, sette mesi dopo che avevamo aperto l’Antica Corte, è arrivata la stella, che ho ancora».
Una bella soddisfazione.
«Impagabile, la più bella della mia vita. Il primo pensiero è andato a mia mamma, che purtroppo non c’era più. Mio fratello Luciano, che è sempre pessimista e sembra si diverta a “remare contro”, ha subito commentato “voglio vedere quando te la toglieranno”. Sono passati 14 anni e ce l’ho ancora».
Alla faccia di Luciano.
«Dico che l’ho sempre avuto contro. Specialmente quando mi hanno chiesto di fare il sindaco: mio fratello ha fatto di tutto perché non vincessi. In realtà, quando mi lamento, lo faccio con il sorriso. Siamo complementari. Lui ha preferito il liceo, mentre io frequentavo l’Alberghiero. Ha sempre girato alla larga dalla cucina. Però come organizzatore è imbattibile. Che sia una cena per pochi intimi o un banchetto per duemila persone, io posso concentrarmi sui piatti da servire, perché so che là fuori c’è lui, e sto tranquillo».
E poi c’è Benedetta, la nuova generazione.
«Mia nipote è bravissima. Ci dà una grande mano, ci aiuta a proiettarci nel futuro».
Torniamo al passato. La lezione più importante che ha avuto da un grande cuoco.
«Una massima di mia mamma: non copiare mai gli altri, perché, per bene che ti vada, sarai secondo, e invece devi sempre batterti per essere il primo. E quindi, se ti copiano non lamentarti: tu sei stato il primo. Una lezione immortale».
Il primo critico che ha scritto di lei?
«Edoardo Raspelli. Gli sono molto riconoscente per questo. Mi ha dedicato un pezzo sul “Corriere dei piccoli” quando ero un ragazzino. Titolo: “Non ha l’età il cuoco baby che fa tremare i grandi chef”. Raccontava che Gino Veronelli mi avrebbe voluto portare in tivù, nel programma “A tavola alle 7” che conduceva con Ave Ninchi: ma ero minorenne e non era stato possibile. Poi Raspelli è tornato, in veste di critico. Sempre stato temutissimo da tutti i cuochi, perché rifilava stroncature a destra e a manca. Della mia cucina ha scritto cose bellissime, è stata un’enorme soddisfazione».
Altri critici che ha “conquistato”?
«Uno dei primi è stato il grande storico della cucina Massimo Alberini: ha intuito subito la mia grande passione per la storia della cucina e per le tradizioni e mi ha chiamato come docente di cucina parmigiana alla Scuola del Gritti di Venezia. È stato il mio primo padre adottivo».
Da Veronelli cosa ha imparato?
«Due cose soprattutto: credere nelle proprie battaglie e non scendere mai a compromessi».
Un suo “tifoso” è il re Carlo.
«Mi ha fatto molto piacere che mi abbia fatto avere un invito dall’ambasciata, quando è venuto a Ravenna lo scorso aprile. Ci teneva a rivedermi, ne sono molto fiero, anche in ricordo di quell’incontro memorabile nella sua tenuta in Galles, quando era ancora principe».
La volta in cui lei ha avuto il coraggio di dirgli un «no».
«Proprio così, quando mi ha chiesto di produrre culatelli con i suoi maiali gallesi. Gli ho detto che sarebbe stato proprio impossibile, senza la nostra aria, senza la nebbia. E allora ha cominciato a fare arrivare a Polesine mezzene di maiali allevati e macellati nella sua tenuta perché ne ricavassi salumi».
Com’è andato l’incontro?
«Qualcuno – non si è mai saputo chi – aveva donato un mio culatello a Carlo, che era rimasto colpito dalla bontà e aveva chiesto informazioni a Carlin Petrini. Di lì a poco ho ricevuto una telefonata dal Consolato britannico: mi chiedevano la disponibilità ad andare in Inghilterra per incontrare “una persona molto importante”. Quando ho scoperto che era Carlo, ho pianto per l’emozione».
Prima dell’incontro con Carlo, una sorta di “interrogatorio” da parte di esperti e norcini locali.
«Sì, sorpresi dal vedermi lavorare le carni e ancora di più dalla mia risposta, quando mi hanno chiesto dove avessi imparato quella tecnica: semplice, in casa mia lo facciamo da generazioni. E il mio bisnonno preparava i salumi per Giuseppe Verdi».
Poi, finalmente, il ricevimento da Carlo.
«Incontro molto cordiale, durato molto più dei cinque minuti previsti, tra due persone che amano l’ambiente e lo vogliono proteggere. Chiacchierata indimenticabile».
Anche un piccolo incidente di percorso, al momento in cui è stato servito il tè.
«Ero stato istruito sull’etichetta e sulle regole da rispettare: mai toccarlo, parlare solo se interrogato e, al momento del tè, aspettare che iniziasse a berlo lui e berlo subito dopo. Il problema è che Carlo ha chiesto di averlo con il latte, che lo ha raffreddato. Io no: ho bevuto tutto d’un fiato e mi sono ustionato. Ma sono rimasto impassibile, nessuno si è accorto di nulla».
Un altro incontro da raccontare è quello con Tony Blair.
«Sì, trent’anni fa, o più. È venuto in visita privata in Italia e Prodi, allora presidente del Consiglio, lo ha portato al ristorante Diana di Bologna, dove gli hanno servito prosciutto, mortadella, Parmigiano Reggiano, aceto balsamico, lasagne. “Assaggerei volentieri il culatello”, ha detto Blair. Ma non c’era… Io l’ho scoperto il giorno dopo, leggendo l’articolo di Raspelli, e mi sono subito messo in pista. Devo assolutamente farglielo assaggiare, mi sono detto».
E cosa ha fatto?
«Ho cercato di capire dove fosse andato, dopo la visita a Bologna. Ho chiamato il Consolato britannico: niente, nessuno poteva darmi informazioni perché si trattava di una visita privata. Trovo un indizio grazie a un amico in prefettura: è a San Gimignano. Telefono al centralino del Comune e insisto: ottengo il nome del resort dove alloggia. Chiamo, ma ovviamente non me lo passano, anzi l’operatore mi chiede seccato come ho saputo del loro ospite».
E lei?
«Gli dico che ho saputo che Mr Blair ha espresso il desiderio di assaggiare il culatello e che gliene voglio consegnare uno dei miei. Lo imploro di fargli avere il mio messaggio. Quando richiamo, mi dice “il primo ministro sarà lieto di incontrarla e di ricevere il suo dono”. Salto in macchina con il culatello, la Fortana e il Parmigiano Reggiano. E incontro Tony Blair. Merito della mia testa dura. E della popolarità dei prodotti della nostra terra».
A proposito: se il culatello oggi è così famoso, un bel pezzo di merito è suo. Sarà questione di Dna: lei è diventato un maestro di marketing.
«Ricordo bene quando ho bussato alla porta del sindaco di Zibello Gaetano Mistura: ero poco più che un ragazzo, ma mi era chiaro che dovessimo tutti impegnarci per valorizzare i tesori che ci ritrovavamo, il culatello in primis. Il sindaco era poco interessato, ma l’ho convinto a convocare una riunione tra contadini, norcini, ristoratori. Era convinto che non sarebbe venuto nessuno. E invece si sono presentati in quaranta».
E poi?
«Si è appreso che ognuno faceva il culatello a modo suo ed era orgoglioso e geloso della propria “ricetta”. Li ho convinti, nella riunione successiva, a fondare l’Associazione per la tutela del culatello di Zibello. Mi sono candidato come presidente, gli anziani dicevano “ma sì, eleggiamo lui, è giovane, così corre un po’”, dando per scontato che poi qualcuno più esperto avrebbe preso il mio posto. Sono stato presidente per trent’anni, dell’Associazione prima e del Consorzio poi».
Si è fatta tanta strada, da allora.
«In quegli anni si producevano 200 culatelli, adesso oltre 70mila. Poco dopo la nascita dell’Associazione, Davide Paolini, il “gastronauta”, ci ha dedicato una pagina intera sul “Sole-24 Ore”, con il titolo “Dalla parte del culatello”. Ha spianato la strada per tutti i successi che sono seguiti. Non è stata una vittoria di Massimo Spigaroli, ma del culatello, del territorio. E io sono felice per questo».
Qual è la ricetta di cui è più orgoglioso?
«I ravioletti di gallina cotti in vescica, con fonduta di parmigiano e bottarga di culatello. È una lunga storia: un piatto che ho iniziato a fare vent’anni fa, ma dopo averci pensato trent’anni».
Com’è nato?
«In Francia mi aveva ispirato il pollo cotto in vescica. In Cina, tanti anni dopo, ho imparato la cottura a vapore. Le ispirazioni principali sono quelle. Ma io sono emiliano, della Bassa, la nostra tradizione è la pasta ripiena. E allora ho pensato a un ripieno fatto con la gallina stufata, da mettere in un raviolo. E ho cotto il raviolo a vapore, dentro una vescica, con una crema fatta di tosone e parmigiano di almeno dodici anni e un po’ di erbette».
Risultato centrato?
«È un piatto che resterà nella storia della nostra cucina, sempre presente nel menù. Per me è la sintesi di come fare andare d’accordo tradizione e innovazione. Ma sempre rispettando i sapori della nostra terra».
Con tutti i lavori che fa, cosa le è saltato in mente di fare anche il sindaco?
«Me lo chiedo spesso anch’io. Era un momento complicato per Polesine Zibello. Mi hanno chiamato in cento, per convincermi, mentre mio fratello assoldava un esercito di persone che mi sconsigliavano di accettare. Mi sono sempre battuto per il mio territorio, ho pensato che, nel momento del bisogno, non potevo voltargli le spalle. Ci ho pensato fino all’ultimo, mi sono presentato per candidarmi mezz’ora prima della scadenza dei termini. E sa cosa speravo, in cuor mio?».
Cosa?
«Di perdere. Ero già soddisfatto di aver dato la mia disponibilità, avevo la coscienza a posto».
E invece ha stravinto.
«Sì, e mi sto dedicando con grande impegno, facendo lo slalom tra i mille impegni. Ho impostato un lavoro che darà i suoi frutti fra anni: l’obiettivo è dare un futuro al territorio, farlo diventare sempre più importante.
Cosa dirà ai suoi “ragazzi”, durante la festa?
«Grazie. Li ringrazierò perché mi hanno dato tanto e io sono felice che abbiano spiccato il volo: chi è andato da George Blanc, chi da Ducas, chi da Robuchon. Ovunque vadano, sono i miei ambasciatori, portano in giro la nostra cultura».
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