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INTERVISTA

Vittorio Gallese: «Serve una educazione digitale seria»

Vittorio Gallese: «Serve una educazione digitale seria»

di Giovanna Pavesi

02 Agosto 2025, 03:01

Giovanna Pavesi

Lo hanno dedicato ai giovani, agli educatori e agli insegnanti nell'era digitale, ma anche alle famiglie, perché sono soprattutto loro i protagonisti del dibattito in corso sul digitale e la annessa tecnofobia, cioè la paura della tecnologia, che è pervasiva quanto, dall'altra parte, la sua ingiustificata glorificazione.

Si intitola Oltre la tecnofobia il libro di Vittorio Gallese (neuroscienziato e professore ordinario di Psicobiologia all'università di Parma), Stefano Moriggi (docente associato di Cittadinanza digitale e di Società e contesti educativi digitali all'università di Modena e Reggio Emilia) e Pier Cesare Rivoltella (professore ordinario di Didattica e tecnologie dell'educazione all'università di Bologna) ed è stato pubblicato, a maggio, da Raffaello Cortina Editore.

«Abbiamo dedicato il volume, oltre che ai giovani, alle principali istituzioni educative nella nostra società, che vengono, a vario titolo, chiamate in causa quando si parla del digitale e, in particolare, dei dispositivi che vengono identificati come la causa principale dei mali che attanagliano la nostra società», ha spiegato Gallese, tra gli scopritori dei «neuroni specchio», che rimarca la necessità di rivolgere l'attenzione ai giovani (mettendosi in ascolto), perché, in generale, il dibattito, «in gran parte è occupato da affermazioni che non hanno solide basi scientifiche».

Professor Gallese, ci può dare una definizione di tecnofobia?

«È una forma di paura dalla quale, poi, scaturisce un atteggiamento proibizionista nei confronti della tecnologia, in particolare di quella dominante, che oggi è il digitale. Nel libro, quando parliamo di digitale, per comodità e brevità, ci riferiamo sia alla mediazione digitale tra umani, cioè quando comunichiamo o entriamo in contatto con il mondo attraverso, appunto, la mediazione degli schermi (telefonini, tablet, computer), sia all'intelligenza artificiale. È tecnofobico chi attacca la tecnologia, ne ha paura ed eventualmente cerca di proibirla o di limitarne l'uso, contrapponendola a un'ipotetica naturalità e autenticità dell'essere umano, che essa, in qualche modo, perturberebbe o, addirittura, negherebbe. Ma la tecnologia è parte intrinseca della nostra natura, noi siamo naturalmente tecnologici, dall'invenzione del fuoco a Chat Gpt. C'è una continua evoluzione di dispositivi tecnologici ed è grazie a essi che noi siamo diventati ciò che siamo, cioè esseri umani. Questo non significa che tutte le tecnologie non siano problematiche: il fuoco, con cui possiamo riscaldarci o cuocere gli alimenti, possiamo usarlo, allo stesso modo, per bruciare il villaggio dei nemici e lo stesso vale per i telefonini e per l'intelligenza artificiale, che sono degli strumenti che potenziano enormemente le nostre competenze e le nostre capacità ma, al tempo stesso, possono introdurre delle distorsioni nei nostri stili di vita e nel modo con cui funzionano le nostre società. Non è un caso che noi eleggiamo la metafora del farmaco».

Ce la spiega?

«È quella che meglio di qualsiasi altra descrive l'impatto di ogni tecnologia sull'essere umano: non è che se prendi poco farmaco ti cura e se ne prendi troppo ti ammazza; è intrinseco a esso avere questa doppia natura. Noi (gli autori, ndr) non guardiamo il mondo attraverso lenti rosa e la nostra non è un'esaltazione acritica della tecnologia. Il nostro è un tentativo di sgomberare il campo dalle sciocchezze, dalle falsità, dalle comode autoassolutorie soluzioni da cui veniamo bombardati quotidianamente, per cercare di capire in che cosa consiste questa tecnologia, come funziona e che effetto ha sulla nostra vita».

Come si supera la tecnofobia?

«Cercando di acquisire delle affermazioni attendibili sulla tecnologia, non facendosi abbindolare dai profeti apocalittici di sciagura, che dicono alle persone ciò che amano sentirsi dire e cioè che non è colpa loro, della società o del modello che gli individui perseguono, non è colpa dell'accelerazione del ritmo forsennato a cui viaggia il nostro tempo, ma è colpa del telefonino e che se lo toglierai a tuo figlio lui sarà una persona felice e tu un bravo genitore. Il tema è complesso, richiede un approfondimento e come tutte le complessità serve un approccio critico. Per superare la tecnofobia, l'invito è quello di cercare delle informazioni attendibili, che non è facile in un'era di infocrazia dove è difficile distinguerle dalle altre. C'è poi un altro tema: nell'epoca dell'intelligenza artificiale, la risposta della scuola può essere proibizionista o c'è bisogno di un'educazione digitale seria? La nostra soluzione, ovviamente, è la seconda e nell'ultima parte del volume cerchiamo di spiegare come si può affrontare questo problema da un punto di vista pedagogico».

Quando si parla di digitale e di social network è inevitabile soffermarsi sul concetto della sovraesposizione del sé, che riguarda tutti.

«I social fungono da cassa di risonanza o amplificazione di una tendenza profonda nella nostra società, che viene da lontano. Quando i filosofi francesi, negli anni '80 del secolo scorso, parlavano di simulacri, parlavano di società dello spettacolo e del problema di dare una definizione puntuale di che cosa è reale e che cosa non lo è: anticipavano una cosa che, poi, l'avvento del digitale ha amplificato, potenziando questa deriva narcisistica. Ne parliamo anche nel libro e non è riducibile a un puro e semplice effetto del fatto che abbiamo il telefonino con cui possiamo scattarci migliaia di foto al giorno. Nel primo capitolo parliamo di estetizzazione del mondo. Dal mio punto di vista, l'estetica è la chiave di volta per capire in che mondo viviamo e come funziona il digitale, in un mondo, cioè, in cui tutto deve obbedire a criteri estetici, dalla scienza fino all'immagine pubblica di sé. Il telefonino non è che un dispositivo che ci consente di adeguarci a questo spirito del tempo, per cui devi essere migliore, ti devi autopromuovere, devi essere più bello, più performante, più magro. Tutti questi comandamenti estetico-cosmetici sono a monte del dispositivo, con cui ci rendiamo visibili all'interno del nostro gruppo di relazioni sociali. Uno dei temi del volume, infatti, è non confondere le correlazioni con i rapporti di causa effetto. L'uso dei social è uno dei sintomi di una società che si è data questo modello, fondamentalmente preso a prestito dal mondo dell'intrattenimento».

Avete concluso il libro con il Manifesto dell'Oltretecnofobo, che avete scritto grazie alla vostra interazione con Chat Gpt. Le chiedo: questa collaborazione è risultata soddisfacente? È stata una decisione comune?

«Sì, è stata una decisione comune: volevamo terminare con una specie di messaggio nella bottiglia, con quello che può essere un decalogo. Abbiamo, quindi, fornito il libro in input a Chat GPT e gli abbiamo chiesto di enucleare 10 punti brevi ma efficaci che trasmettessero al lettore perché conviene non essere tecnofobici e quale dovrebbe essere un rapporto maturo con le tecnologie digitali. Attraverso vari passaggi e aggiustamenti siamo arrivati alla formulazione finale, che è quella stampata. Ciò che intendo dire è: se io ho delle idee mediocri, banali e irrilevanti, anche con l'aiuto di Chat GPT non potrò trasformarle nella teoria della relatività. L'intelligenza artificiale è uno strumento straordinario, con cui già stiamo facendo nuove scoperte, che può aiutare a formulare meglio le nostre domande, più che a ricevere delle risposte predigerite a domande banali. Uno dei compiti delle agenzie educative, come la scuola o l'università, più che trasmettere risposte preconfezionate, dovrebbero stimolare le domande ed educare a come si cerca una risposta a una domanda, cos'è una domanda rilevante e quale la è meno».

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