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Tragedia a Solignano

Dauda, 24 anni, ingoiato dal Taro davanti agli amici. Il giovane era originario della Sierra Leone

Dauda, 24 anni, ingoiato dal Taro davanti agli amici. Il giovane era originario della Sierra Leone

di Michele Ceparano e Valentino Straser

14 Agosto 2025, 08:40

Solignano «Ho provato ad afferrarlo ma non sono riuscito a tirarlo fuori. Non ce l'ho fatta». Non si dà pace uno dei due amici di Dauda Barrie il ventiquattrenne originario della Sierra Leone ingoiato ieri pomeriggio dalle acque sotto il Camicione, come viene chiamato quel tratto di Taro tra Citerna e Selva Stazione, che scorre dove passa la Fondovalle e, più su, l'autostrada.

Un corso d'acqua maledetto, quello che si trova nel Comune di Solignano, dal momento che negli anni si è portato via numerose esistenze.

Dauda, arrivato da qualche anno a Parma dove viveva e lavorava come giardiniere, ieri non stava nella pelle.

«Era il suo primo giorno di ferie - raccontano ancora i due amici Mamadou e Boubakar, originari della Guinea e di qualche anno più vecchi dello sfortunato giovane, che ieri erano con lui in riva al Taro - ed era un po' che insisteva perché venissimo tutti insieme a passare il pomeriggio qui».

I tre sono così saliti sull'auto di uno di loro e si sono diretti verso quella spiaggia sul Taro in cui avevano programmato di passare quel bel pomeriggio di sole. Lasciata l'auto lungo la Fondovalle sono scesi per un sentiero ripido e scosceso. Poi, dopo aver camminato tra i sassi, finalmente la sabbia fino a raggiungere quella che è stata ribattezzata negli anni «la spiaggia dei parmigiani», un tempo regno di Renzo Tagliavini, detto «il Caimano del Taro» che salvò la vita a tante persone.

Là i tre amici africani hanno trovato altre persone, alcuni parmigiani che avevano avuto la loro stessa idea di passare un pomeriggio in Taro.

La cattiva sorte, però, è spesso in agguato pronta a rovinare la vita degli uomini. Dauda che non sapeva nuotare intorno alle 17 è entrato in acqua e si è diretto verso il centro del torrente. Forse voleva arrivare a una roccia che spunta dall'acqua. Ma proprio lì si nascondeva l'insidia: un fondone che ha inghiottito il ragazzo.

«A un certo punto l'abbiamo visto sparire» racconta l'amico.

Sia i due che gli altri che erano nei paraggi si sono lanciati in acqua. Proprio Mamadou racconta e non si dà pace: «Ho provato, insieme a un altro ragazzo, a tirarlo fuori, abbiamo usato anche un ramo, ma non ce l'abbiamo fatta».

Subito è scattato l'allarme e si è mossa la macchina dei soccorsi. Una corsa contro il tempo che però purtroppo si è rivelata inutile.

Sul posto sono infatti arrivati immediatamente i carabinieri della Compagnia di Borgotaro e quelli delle stazioni di Solignano e Calestano. Insieme a loro il 118, con l'Elipavullo atterrato nelle vicinanze, i vigili del fuoco, i sommozzatori da La Spezia e il soccorso alpino. Per il giovane, però, non c'era più nulla da fare e quando stato ripescato il suo cuore aveva già cessato di battere.

Il rumore dell'acqua, a quel punto, è stato sovrastato dal pianto di dolore dei due amici.

Spiega ancora Mamadou tra le lacrime: «Era la prima volta che venivo qui con lui. Adesso Dauda non c'è più, non ci posso credere. Poche ore fa eravamo tutti insieme. Io non so nuotare e infatti dall'acqua sono stato lontano».

Si prende la testa tra le mani: «Perché non è rimasto anche lui a riva?». Una domanda che rimarrà senza risposta.

A quel punto è iniziata il mesto viaggio di ritorno per portare la sacca con all'interno il corpo fino al sentiero in cui la salma è stata caricata sull'ambulanza della Croce verde che l'ha trasportata al Maggiore di Parma.

Ma da quella bara di zinco gli amici non volevano staccarsi. Specialmente Boubakar, proprio non ne voleva sapere di lasciare Douda. Tra i singhiozzi si è aggrappato alla bara. Poi i carabinieri e gli altri intervenuti, anche loro provati da questa tragedia, dopo avere confortato senza sosta i due ragazzi per tutti quei terribili momenti, lo hanno convinto a lasciarla.

Proprio Boubakar ha raccontato un altro «pezzo» della vita dell'amico. Musulmano osservante, era arrivato qui in Italia per «lavorare come giardiniere e cercare una vita migliore per sé e per la sua famiglia rimasta in Africa. Aveva una figlia e ora come faremo a dirle che suo padre non c'è più?».

Michele Ceparano

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I precedenti Sin dal Settecento sono stati molti gli annegati nell'ansa

Un'altra vittima del Camicione

Solignano «Ter Taròn-tut j’ani al nin vol vòn»: è il sinistro e triste detto popolare tramandato di generazione in generazione per fissare l’immagine di un fiume e di un suo tratto, il Camicione, che chiede ogni anno un tributo di vita umana. Il Camicione, un capriccio della natura, come l’ha definito Paolino Bergonzi, che in un’ansa del Taro aveva creato tre grandi stanze chiuse per tre lati da grandi muri di pietra nera, e con l’acqua profonda in tutti e tre i locali, caratterizzati sulla sponda sinistra da una lastra di roccia che si immerge nelle acque creando una sorta di vasca naturale.

Nell’immediato dopo guerra i bagnanti scendevano a frotte dal treno a Citerna e, dopo un chilometro a piedi, si sistemavano sulle rive sabbiose del Taro, di fronte alla secolare costruzione. Poi, dagli anni Sessanta – prosegue Bergonzi - i bagnanti arrivavano in auto o in vespa con un notevole arricchimento delle attrezzature per rendere più confortevole il soggiorno sulla riva del fiume dove operava, ormai fissa, anche una bancarella con pizza, frutta, gelati e bevande. Molti i casi di annegamento, ma moltissimi i casi di salvataggio di gente poco esperta nel nuoto da parte del «caimano del Taro», al secolo Renzo Tagliavini, bagnino fisso e volontario, diventato famoso per i suoi salvataggi.

La triste fama del luogo è documentata a partire dal ‘700 con le cronache di almeno quattro morti annegati tra il 1755 e il 1771. La memoria riporta al 10 luglio 1755, quando, in piena estate, forse ingannato dal velo apparentemente sottile dell’acqua, annega Giovanni Savani di Berceto, di 55 anni, mentre cerca di attraversare il Taro. Il pericolo del Camicione – ribadisce Bergonzi - non era tanto per le correnti ed i relativi mulinelli che nascevano all’interno delle tre «stanze», ma per il violento salto di temperatura dell’acqua che, dopo i due metri circa di profondità, era sorgiva, non portata dal fiume e non riscaldata dal sole. Nei secoli, la violenza delle piene invernali hanno semi distrutto il luogo «e vedere oggi il Camicione con i muri crollati, fa una certa tristezza: è come osservare un mitico monumento che la natura non ha rispettato», ribadisce Paolino Bergonzi.

Sul finire del ‘900, l’ultimo morto annegato nel Camicione però non era un bagnante, ma un carabiniere di Solignano. Più recentemente, nel 2022, fu sfiorato il dramma, quando, un uomo cadendo nel greto del fiume si procurò un grave trauma cranico. E, ieri, un nuovo e tragico epilogo.

Valentino Straser

© Riproduzione riservata

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