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LE MOTIVAZIONI DELL'ASSOLUZIONE

Cannabis light e il caso Marola: «Non c'è la prova che fosse droga»

Cannabis light e il caso Marola: «Non c'è la prova che fosse droga»

di Georgia Azzali

03 Settembre 2025, 03:01

Massiccio fu il sequestro, alla fine di luglio del 2019: quasi 700 chili di infiorescenze di canapa, oltre a litri di olio. Perché scaffali e magazzini, soprattutto ma non solo, delle società di Luca Marola, a partire dalla Easyjoint, erano stracolmi di prodotti per il commercio, anche online. Cannabis light, o per meglio dire canapa consentita, per il rivenditore: droga, ossia marijuana che nulla aveva a che vedere con quella ammessa dalla legge del 2016, secondo la Procura. Che alla fine del processo, lo scorso maggio, aveva chiesto 4 anni e 10 mesi di reclusione per Marola e 1 anno e 6 mesi per un altro commerciante parmigiano, Antonino Castellano. Tutti e due sono invece stati assolti dalla giudice Francesca Anghileri: il primo perché «i fatti non sussistono», il secondo perché «il fatto non costituisce reato».

Niente spaccio, dunque. Perché, per quanto riguarda Marola, non c'è prova che l'«erba» venduta fosse droga, da qui la formula assolutoria con il 530 secondo comma. E qui torniamo all'enorme quantità di prodotti sequestrati sei anni fa, ma soprattutto agli accertamenti che seguirono. «In definitiva - scrive la giudice nelle motivazioni della sentenza depositate nei giorni scorsi -, gli elementi di prova desumibili dalle consulenze tecniche effettuate su incarico della Procura, alla luce della metodologia seguita, dovuta alle dimensioni del sequestro e ai tempi ristretti, non sono idonei ad attingere allo standard probatorio richiesto. Invero, la valutazione dei consulenti del pubblico ministero non comprova in alcun modo l'offensività in concreto della detenzione del materiale vegetale contestata a Marola, proprio perché è stato eseguito un calcolo massivo, deducendo il numero di dosi da 5 milligrammi di principio attivo da un calcolo di massima, ossia proiettando sull'interezza dei reperti in sequestro il risultato delle analisi di alcuni campioni».

Oltre agli esiti degli esami, ritenuti dal giudice inattendibili, non tanto per le consulenze delle difese, quanto per i chiarimenti forniti anche dall'ufficiale del Ris Giada Furlan durante il processo, nella sentenza si mette in luce anche il quadro normativo incerto del luglio 2019, quando scattarono i sequestri. Quello stesso anno c'era stata infatti la pronuncia a Sezioni Unite della Cassazione, che aveva sancito come il riferimento al Thc, il principio attivo, la cui soglia era fissata allo 0,5 percento, fosse «quello presente nella coltivazione e non quello dei prodotti illecitamente commercializzati». Ma anche con la Cassazione del 2019, «l'incertezza interpretativa non pare essere venuta meno completamente», sottolinea la giudice. E, d'altra parte, il recente decreto sicurezza è intervenuto ancora sulla materia.

Ma a proposito di quadro normativo incerto, la giudice cita anche un'intercettazione in cui Marola, parlando al telefono dopo la sentenza del 2019, diceva che ciò che vendeva non aveva capacità drogante essendo «un sostituto imperfetto della marijuana». Insomma, nemmeno il dolo, secondo la giudice, è stato provato.

Infine, per quanto riguarda Castellano, le analisi, essendo la quantità sequestrata molto più limitata, hanno dimostrato il superamento della soglia dello 0,5% di Thc. Tuttavia, sempre in base al 530 secondo comma, «dall'istruttoria non è emerso alcun elemento che provi con certezza la rappresentazione e la volontà di detenere sostanza stupefacente», si sottolinea nelle motivazioni della sentenza.

Primo capitolo. O fine della storia. Tutto dipenderà dalla Procura, che valuterà se fare appello.

Georgia Azzali

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