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Un nuovo saggio

Pasolini, un'eredità lunga 50 anni

Pasolini, un'eredità lunga 50 anni

di Francesco Mannoni

29 Ottobre 2025, 03:01

A cinquant’anni dal barbaro assassinio, Pier Paolo Pasolini (Bologna 05/03/1922 – Ostia 02/11/1975), è sempre più indiscussa anima della cultura novecentesca, sempre più amato anche dalle nuove generazioni che trovano nelle sue opere una genialità che non si esauriva in nessun contesto. A Pasolini, Francesco Chianese, studioso specializzato in letteratura comparata e studi culturali, ha dedicato due saggi di straordinario interesse: il primo «Mio padre si sta facendo un individuo problematico» (Mimesis edizioni 2018) e il secondo, in uscita a fine novembre, investigativo si potrebbe definire, vista la profondità critica dei contenuti, intitolato «Pier Paolo Pasolini. La poesia dell’incontro» (Feltrinelli, 224 pagine, 15 euro).

Chianese, che cosa l’ha mossa sulle tracce di Pasolini: la sua arte, la sua vita anticonformista, il suo genio straordinario?
«All’inizio, negli anni universitari, di Pasolini mi ha attratto il fatto che si fosse cimentato in così tanti ambiti e contesti: ho trovato il suo desiderio inesauribile di esplorare quante più forme di espressione possibili, unico tra tutti gli autori che avevo incontrato. Quando ho cominciato a conoscerlo più a fondo, mi ha affascinato sempre di più la sua capacità di costruire un personaggio attraverso la propria opera, offrendosi sulla pagina e sullo schermo nella sua aperta contraddittorietà e nella profonda umanità della sua esperienza: nessun altro autore è riuscito a creare una persona letteraria così forte, da rendere praticamente impossibile separare l’uomo e quello che scrive. Su tutto mi è stato di grande ispirazione il suo coraggio, il modo in cui ha affrontato le questioni più spinose dell’Italia in cui ha vissuto in modo così aperto, senza filtri né ipocrisie».

Perché anche un secondo libro su Pasolini?
«Per descrivere l’autore in una cornice più ampia, di cui il precedente può essere considerato un approfondimento. Nel linguaggio cinematografico caro all’autore, potremmo definirlo un allargamento di campo. Il mio primo lavoro di respiro ampio su Pasolini lo ha interpretato alla luce degli studi che ho dedicato alla rappresentazione della paternità in trasformazione, che Pasolini ha profondamente interrogato durante la sua attività: era uno studio più specifico. Il libro nuovo fa parte di una collana molto pregevole di Feltrinelli, intitolata “Eredi” e diretta da Massimo Recalcati, che esplora l’eredità simbolica degli autori che propone: ho interrogato in modo più esteso le modalità con cui Pasolini si è relazionato con l’altro, di cui il padre è la prima espressione che incontriamo da infanti».

Per scoprire quali aspetti?
«Ho cercato di catturare la capacità dell’autore di oscillare tra io e altro, interrogando il prossimo per ritrovare sé stesso oppure per mettersi in dubbio, con un movimento costante e irrisolto: come amava scrivere lui stesso, tesi e antitesi non si incontrano in una sintesi, sono offerte nella problematicità di domande che raramente propongono una risposta univoca. Troppo spesso si cerca di ingabbiare un autore così sfuggente per darne un ritratto maneggevole, e in entrambi i miei testi ho voluto offrirlo senza addomesticarlo, nella sua complessità. Contemporaneamente, ho cercato di aggiornarne il messaggio, di identificare le risposte che aveva dato a questioni che sono oggi ancora aperte, sottolineandone la validità attraverso i decenni intercorsi».

La sua specialità di uomo e di artista consiste soprattutto nel fatto che non si è lasciato mai assimilare dal pensiero egemonico?
«Assolutamente sì, la sua grandezza è stata quella di non assimilarsi, un aspetto che lo condannava spesso a trovarsi dalla parte del torto, un destino che affrontava in modo consapevole. Pasolini conosceva bene il contesto culturale e sociale italiano, in particolare, che da sempre è caratterizzato da immobilismo e conservatorismo, ma non vi si rassegnava e cercava lo scontro, mosso, paradossalmente, da un amore incondizionato per le persone che aveva intorno, che riteneva meritassero una società migliore».

Pelosi ha dato varie versioni dell’assassinio di Pasolini: è condivisibile l’idea del complotto come vendetta politica a suo tempo ipotizzata da Oriana Fallaci? Ma il tanto discusso romanzo «Petrolio», presunta causa della sua morte come s’è tentato di far credere, sarebbe stato davvero una sorta di requiem per certi politici e certa finanza italiana se avesse potuto completarlo?
«Nonostante mi dedichi a Pasolini da ormai vent’anni, ho sempre preferito non pronunciarmi sul suo assassinio, se non per esprimere parole di rispetto e compassione per l’atroce violenza subita dall’uomo e di grande rammarico per l’inquantificabile perdita dell’autore. Sono un critico e interrogo i testi per ricostruirne il pensiero e il messaggio dell’autore. A questo proposito, secondo me “Petrolio” contiene nel suo segmento superstite il potenziale esplosivo dell’ordigno, per così dire, che sarebbe stato una volta completato: i politici e gli imprenditori chiamati in causa, nell’Italia degli anni Settanta, si sarebbero sentiti sotto accusa già di fronte alle pagine sopravvissute. Infatti, non credo sia casuale che il libro sia stato pubblicato solo a quasi vent’anni dal rinvenimento del manoscritto, quando ormai il contesto sociopolitico era diverso e gli equilibri erano regolati da altri agenti, con il passaggio a una nuova classe politica, che ha fatto parlare di una nuova Repubblica. Ma anche qui sento di allontanarmi dalle mie specializzazioni: sarei molto interessato a leggere un lavoro di uno studioso di storia politica che interrogasse il romanzo per capire in profondità che conoscenze possedesse Pasolini in merito ai legami tra i gruppi di potere da cui si sentiva oppresso e perseguitato. In realtà, credo che la verità su “Petrolio” e sul possibile collegamento con lo scellerato delitto si potrà sapere solo quando le ceneri del caso saranno spente, passando dalle pagine della cronaca a quelle della storia: ho paura che ci vorranno ben più di cinquant’anni».

A cinquant’anni dalla scomparsa, come si potrebbe definire oggi il ruolo svolto da Pasolini nell’ambito della cultura italiana?
«Era senza dubbio la coscienza critica del nostro paese e la sua voce più rappresentativa in quel periodo storico (ci perdoni Calvino, troppo perfetto per incarnare l’Italia in cui ha vissuto): ogni volta che parlava di sé, in qualche modo si presentava come un’eccezione che conferma il contesto di appartenenza o un segmento che ne rappresenta il tutto. Ha dimostrato di conoscere bene l’Italia e di non aver paura di metterne in luce i suoi aspetti dall’interno, presentandosi da italiano. Infatti, come è tipico degli italiani, non aveva paura di sbagliare, perché si sentiva al sicuro in un Paese che offre la convinzione che a tutti sia garantita la possibilità di sbagliare. Quello è stato forse il suo più grande errore».

Si profila all’orizzonte un equivalente di Pasolini?
«Un equivalente di Pasolini non credo possa esserci in futuro, perché la sua unicità è anche il prodotto dell’unicità di quell’epoca, che poneva le questioni e si interrogava in modalità oggi improponibili: la capacità di scandalizzare di Pasolini, in particolare, oggi sarebbe difficile da riproporre con la stessa intensità. Ci sono tuttavia autori e intellettuali che hanno accolto la sua sensibilità e il suo messaggio e li hanno riproposti in modalità aggiornate a contesti successivi, espressione di altri linguaggi, propri di generazioni diverse. Credo che la sua eredità si senta molto in letteratura, anche in personalità che appaiono lontane da quella dell’autore: penso per esempio a Walter Siti, a Emanuele Trevi, a Nicola Lagioia, a Mauro Covacich, ma anche a Isabella Santacroce o Viola di Grado. Sono autori che abbinano l’analisi di questioni contemporanee a una vocazione profondamente umana. Inoltre, riscontriamo la presenza di Pasolini in un certo tipo di giornalismo, anche da parte di giornalisti che se ne sono appropriati senza rendersi conto».

Francesco Mannoni

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