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Politica

La solitudine dei presidenti

Il «principe dei quirinalisti» racconta gli anni della grande crisi e dei «Capi senza stato»

palazzo del quirinale

di Stefano Pileri

16 Gennaio 2022, 14:10

È passato dalle picconate di Cossiga, che non perdeva occasione per parlare, al riserbo di Mattarella che, appena può, «usa una sola parola invece di due». Marzio Breda segue i presidenti della Repubblica per il Corriere della sera da ormai trentadue anni. Ne raccoglie le dichiarazioni. Ne studia le mosse. Ne interpreta le posizioni. E le spiega ai lettori. Ora il «principe dei quirinalisti» ha scritto «Capi senza stato» che non è solo un racconto degli ultimi cinque presidenti, delle loro storie e delle loro scelte. Ma è soprattutto una riflessione su come in questi trent’anni è cambiata l’azione del Quirinale. Perché gli ultimi cinque presidenti sono sì diversi fra loro, per carattere, formazione, esperienze personali, cultura e sensibilità. Ma tutti hanno allargato al massimo la «fisarmonica dei poteri» e hanno sfruttato fino in fondo gli spazi concessi dalla Costituzione. Talvolta anche troppo, secondo i contestatori di turno. Comunque la si pensi, mentre si avvicina l’elezione del nuovo capo dello Stato, il libro di Breda è una lettura indispensabile per capire davvero che cosa è accaduto e per intravedere cosa ci aspetta nei prossimi anni.

Partiamo dal titolo «Capi senza stato». Perché?
«È una sintesi di quello che è avvenuto in questi trent’anni: la solitudine dei presidenti che hanno avuto contro il parlamento, il governo di turno, o anche la magistratura. Ho lavorato su tre chiavi. Prima di tutto, è un libro da testimone, non solo di quello che avveniva pubblicamente, ma anche in privato visto che, per una fortunata congiunzione astrale, ho avuto rapporti personali e diretti con i presidenti. Li ho continuati a seguire e a vedere anche quando sono usciti dal Quirinale… Mi sono permesso il lusso di raccontare cose che non avevo mai scritto, perché facendolo prima mi sarebbe sembrato di tradire un rapporto fiduciario. È poi un libro di ricostruzione storica perché ovviamente devo spiegare il momento in cui avvengono certe scelte. Ad esempio non si capisce perché Scalfaro abbia fatto quello che ha fatto, se non si ha chiaro il quadro in cui ha operato, il più drammatico e difficile di tutti. E, infine, è un libro di analisi politico-giuridico costituzionale su come è cambiata l’azione dei presidenti».

Ecco, prima di Cossiga, i presidenti erano fuori dai giochi politici. Entravano in scena solo con le consultazioni per le crisi di governo e poco più. Poi i partiti vanno in crisi e cambia tutto…
«Infatti, il presidente era fuori dai giochi perché la politica era forte. Cossiga l’ho definito il “profeta della catastrofe” perché, con la sua straordinaria capacità di anticipazione politica, aveva avvertito i partiti con largo anticipo del crollo che stava per avvenire dopo la caduta del muro di Berlino. Lo aveva detto a modo suo, probabilmente male. E probabilmente ha esasperato la caduta del sistema».

Con Cossiga nasce la figura del quirinalista, il giornalista specializzato per seguire i presidenti?
«Sì, prima il Quirinale incideva assai poco. I presidenti non offrivano spunti di protagonismo politico. Con gli ultimi anni del settennato di Cossiga cambia tutto e anche i giornali hanno dovuto cambiare. Io sono stato uno dei primi, con altri che poi hanno lasciato il campo. Mi aspettavo sempre che i presidenti venuti dopo Cossiga rientrassero un po’ nei ranghi, cioè nella dimensione contenuta e riservata dei primi presidenti: viaggiare poco, parlare poco. In realtà non è mai successo: semmai hanno parlato più del predecessore».

Spesso si è sentito dire che sono arrivati al limite della prassi costituzionale o che l’hanno superata…
«Ci sono un paio di articoli della Costituzione che prevedono i poteri del presidente della Repubblica. Con Cossiga si iniziò a parlare di potere di esternazione. Ma in realtà tutti i presidenti che lo hanno seguito hanno compreso il valore del dialogo diretto con il popolo. E nessuno ha voluto rinunciarvi. Anche presidenti che non erano particolarmente loquaci. Penso, per esempio, a uno come Ciampi che era un po' balbuziente, abituato a parlare una volta all'anno e solo su testi scritti. Alla fine ci ha preso gusto pure lui. Si sono allargati anche con un ruolo di supplenza, di commissariamento della politica nelle fasi in cui la politica era debolissima e non offriva soluzioni. Il dovere di ufficio di un capo di stato dovrebbe essere garantire la stabilità. E per farlo hanno trovato soluzioni che erano un po' al limite della prassi costituzionale. Hanno inaugurato un metodo di lavoro del presidente della Repubblica che via via si è rafforzato e nessuno di loro ha saputo rinunciare a questo potere più penetrante, neppure Mattarella che sembrava il meno incline. Anche lui, quando si è trovato di fronte a situazioni complicate, ha fatto passi audaci».

Sono cinque presidenti molto diversi. Quale il più difficile da seguire? Con Scalfaro all’inizio ci furono un po’ di problemi...
«Più che con Scalfaro ci furono dei problemi con il suo portavoce che chiese l’avvicendamento di tutti i giornalisti che avevano seguito Cossiga. In realtà, dopo il rifiuto del Corriere, il rapporto divenne molto stretto sia con Scalfaro che con la figlia. Sono venuti anche pranzo a casa mia a Verona. Poi il rapporto è stato molto buono con Ciampi, che aveva molti punti in comune con mio padre. Con Napolitano ho avuto rapporti ottimi e anche molto fiduciari. Mi chiamava spesso specialmente durante il week end, causando anche qualche malumore nel suo staff che si sentiva scavalcato. Napolitano è totus politicus, impregnato di politica...»

E Mattarella?
«Il rapporto è buono ma non è altrettanto facile. Lui è meno espansivo. È di quei siciliani che parlano il meno possibile. Lo vidi fin dal primo viaggio ufficiale: quando si ricordava la tragedia del fratello ucciso dalla mafia, si limitava a poche parole mentre tanti politici ci avrebbero ricamato su per ore. È davvero molto riservato. Però in certe fasi critiche, in cui c'era da capire quello che stava avvenendo, mi ha messo nelle condizioni di farlo. Ad esempio il passaggio cruciale del 2018 quando non si riusciva a mettere in piedi il governo e poi bocciò Savona come ministro dell'Economia».

È possibile un suo bis, nonostante abbia fatto capire che non ne vuole sapere?
«Ha dei dubbi profondi sul piano costituzionale perché è vero che la Costituzione non vieta la rielezione. Ma è una scelta sconsigliabile, come diceva il presidente della Consulta, Livio Paladin. A lui poi si chiede in questa fase una cosa che sarebbe poco rispettosa. In poche parole: noi ti eleggiamo e tu stai lì un anno, un anno e mezzo, massimo due, a tener calda la poltrona a Draghi perché poi, con la fine della legislatura, si va a votare, Draghi lo portiamo al Quirinale e tu te ne vai. È inaccettabile: passerebbe l’idea di un mandato a termine ridotto. Ma c'è un altro aspetto fondamentale per un uomo come Mattarella. Voleva fosse chiaro che non sta brigando per farsi rieleggere. Però mi chiedo: se ci fosse uno stallo come nel 2013, dopo il primo mandato di Napolitano, potrebbe dire sensatamente di no?»

Succederà?
«Un presidente ovviamente non può essere confermato se non a larghissima maggioranza come Napolitano. E per ora non si vede quell’unanimità. Anzi, si sentono dei distinguo. Bisognerà vedere se si avvitano in tante votazioni, come evolve la pandemia, la situazione economica…»

E Draghi?
«Più le settimane passano, più diventa difficile anche per Draghi che pur sarebbe un carta ottima… Ma io sono convinto che i partiti vogliano rimettere le mani sul Quirinale, che vogliano rimettere qualcuno di loro».

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