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50 anni fa quella 'città' di Gaber

50 anni fa quella 'città' di Gaber

26 Ottobre 2019, 11:49

di Michele Ceparano

Un brano geniale non perde mai la sua attualità. Neppure cinquant'anni dopo. Se poi l'autore è Giorgio Gaber è facile che questo avvenga. Questa settimana “Il disco” non si occupa di un album ma di un singolo – poi, inserito in diverse raccolte - del Signor G. uscito nel 1969. Sarcastica, come nel suo stile, frenetica ma profonda “Com'è bella la città” è una canzone che ha fatto epoca e, a riprova della sua attualità, passa ancora alla radio.

Un brano che uscì come lato A di un singolo (il lato B era “Chissà dove te ne vai”) ma che, soprattutto, potrebbe essere stato scritto oggi.

Dopo quello che viene chiamato miracolo economico le città italiane si erano infatti popolate in maniera vertiginosa. Miriadi di persone si erano trasferite soprattutto nella grandi città industriali del nord alla ricerca di una vita migliore. La “terra promessa” era quella città, come canta il grande cantautore milanese scomparso nel 2003, “piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce”. Quell'“Eldorado”  nascondeva, però, e continua nascondere, tante insidie tra le  “reclames sempre più grandi coi magazzini le scale mobili, coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più”.

Poco prima di attaccare con il “cantato” Gaber, in uno dei suoi memorabili “parlati”, spiegava che la “città di Milano ha una struttura tipicamente concentrica, i nostri interventi tendono a razionalizzare dove possibile tutto ciò che riguarda la viabilità, i servizi, le strutture primarie, etc.” Un bla-bla in cui, cinquant'anni dopo, si può incappare ancora oggi quando ci si imbatte in qualche dissertazione di urbanistica o mobilità.

Immagini, dunque, che sembrano appena “scattate”. In “Com'è bella la città”, dove pare rimbombare perfino “Metropolis” di Fritz Lang, Gaber attraverso l'umorismo (e la sua consueta umanità) non fa sconti a un modello consumistico che tanto affascinava allora quanto oggi sta mostrando la corda. E il Signor G., sempre sensibile, curioso e attento, cinquant'anni fa metteva in guardia dai rischi della globalizzazione già dall'incipit, con un invito, degno del paese dei balocchi collodiano, “vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna, se tu vuoi farti una vita,  devi venire in città”.
 

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