Memoria del suono
La lunga confidenza con l’esperienza musicale ha sedimentato una realtà impalpabile, mobilissima, affidata alla memoria, in un intreccio che pur con la nebulosità insita nello scorrere del tempo decanta un’idea inscalfibile, quella del suono quale esito sensibile di una visione interpretativa, affidata a un tramite invisibile, imponderabile come l’aria e il tempo; non a un segno dunque, né alla parola ma a qualcosa di sfuggente che rinnova l’emozione originaria; come quella sequenza “fa-do-fa/do-sol-mi/re”, con cui inizia la «Fantasia in fa minore» di Chopin che riaffiora nella mia memoria con quel passo, quel fatalismo, quel timbro oscurato con cui Alfred Cortot aprì il suo recital chopiniano al Ridotto del Regio, stracolmo fino all’impossibile, la sera del 12 aprile 1949; i più di settant’anni trascorsi non hanno offuscato il ricordo che si ricompone ogni volta nella sua vividezza.
La memoria del suono, appunto, la più infallibile che io abbia provato, soprattutto quando trova conforto da altre suggestioni più tangibili come quelle conservate dagli incontri e dalle frequentazioni con gli interpreti, tante nel lungo tirocinio legato all’esercizio critico come a quello organizzativo di stagioni concertistiche da cui sono nate preziose amicizie: Joerg Demus, Radu Lupu, Lazar Berman, Carlo Zecchi, figura quest’ultima che spicca nella mia esperienza con particolare riconoscenza per il debito che gli devo. Un nome quello di Zecchi che probabilmente dice poco o nulla alle generazioni più recenti e ciò anche per la rarità delle testimonianze lasciateci da quello che è stato senza dubbio uno dei più grandi pianisti della prima metà del novecento. Sbalzato brillantemente alla ribalta agli inizi degli anni venti, Zecchi interruppe la carriera solistica nel 1938 a seguito di un incidente che non gli impedirà tuttavia di proseguire il cammino musicale negli incontri cameristici, memorabile quello con il grande violoncellista Enrico Mainardi, ma pure come direttore d’orchestra e come didatta fino al 1984 quando la morte lo colse a Salisburgo.
I rari reperti discografici, riuniti da una piccola casa romana, la Crisopoli Society, sono preziosi per consentirci di ricomporre un’immagine sorprendente di questo artista e di comprendere le ragioni della celebrità da lui raggiunta, in un’epoca che lo metteva a diretto confronto con pianisti del calibro di Rubinstein e di Horowitz. Ricordo con sorpresa come una sera a casa nostra Emil Gilels dopo il concerto tenuto a Parma affermò di aver ascoltato la più bella esecuzione di «Petroucka» da Zecchi a Mosca negli anni trenta. Detto da Gilels che del capolavoro stravinskijano era stato uno dei più geniali interpreti! Ciò che subito stupiva nelle esecuzioni di Zecchi - da Roma dove aveva studiato con Bajardi si recò a Berlino indirizzato a Busoni che però morì dopo i primi incontri così che si perfezionò con Schnabel - era la straordinaria nitidezza di un virtuosismo, sorretto da una linea musicale che aveva del tutto decantato le arbitrarie movenze del retaggio ottocentesco: il che dava una irresistibile lucentezza al suo Scarlatti, uno slancio impareggiabile al suo Liszt, una misura incantata al suo Chopin e al suo Debussy. In questo senso Zecchi si poneva come un pianista moderno, nel modo più intrinseco, interprete di quella «classicità» che, sulla scia dell’aspirazione busoniana, oggi possiamo considerare come il precedente necessario di quella nuova, straordinaria stagione che ha visto sorgere i Benedetti Michelangeli, il Trio di Trieste, il Quartetto Italiano. Non una classicità di maniera, dunque, ma una visione organica che mirava a svelare le più profonde ragioni musicali attraverso il dominio del suono e della forma. Una lezione quella di Zecchi che ha trasceso il fatto pianistico per prolungarsi attraverso la direzione d’orchestra. Tra i suoi allievi, ai corsi tenuti alla Chigiana, figurano i giovani Abbado, Mehta, Barenboim. «Ciò che colpisce maggiormente della sua personalità musicale - ha scritto Barenboim - è la sintesi della sensibilità latina con un rigore e comprensione piuttosto teutonici della musica».
Il volto di Zecchi pianista lo si poteva ritrovare in tutta la ricchezza dei suoi atteggiamenti nei numerosi corsi di perfezionamento che teneva nelle più svariate parti del mondo, a Salisburgo, a Cape Town, a Johannesburg, a Hilversum, a Rio de Janeiro, a Trieste, a Vienna. Tra questi quello tenuto a Parma nel 1965, presso il nostro Conservatorio, sponsor generoso l’Unione Industriali, fu tra i più lunghi, quasi un mese, per tanti aspetti memorabile. Attorno a Zecchi sedevano alcuni giovani il cui nome ha poi arricchito il concertismo internazionale, come Vladimir Krpan, Pierre Tramoni, Levente Kende, Franco Scala, poi infaticabile animatore della «Scuola di Imola». Un’occasione da cui Luisa ed io fummo profondamente rapiti. La cosa che subito colpiva era l’immediatezza con cui si stabiliva il rapporto con l’allievo, fin dall’assetto che prevedeva i due pianoforti appaiati. Da quello di sinistra Zecchi pilotava il discorso in parallelo, spesso sovrapponendosi all’esecuzione per rimarcare un suggerimento esemplare, punteggiare un ritmo, un accento, imprimere la giusta curvatura ad una melodia. Un metodo didattico molto empirico, assai efficace, dove appunto la diretta esemplificazione, a volte intenzionalmente sottolineata con enfasi laddove l’approccio dell’allievo si rivelava troppo timido, costituiva un modo di lavorare dal vivo su ogni brano. Pochi i discorsi introduttivi di carattere generale ma subito l’entrare nel corpo di ogni brano; a volte una semplice precisazione risultava determinante per la scelta della strada giusta: ricordo, ad esempio, la raccomandazione a proposito di quell’«Allegro affettuoso» da cui prende avvio il «Concerto» di Schumann, «non sentimentale», che appunto metteva a fuoco il senso più appropriato alla poetica schumanniana di quell’«affettuoso», aprendo tutta una visuale più ariosa entro cui far vivere l’opera; idea che anni dopo ha trovato significativo riscontro durante una nostra conversazione con Benedetti Michelangeli. E ancora il suggerimento prima che l’allievo si apprestasse a dar inizio alla «Quarta Ballata» di Chopin, «pensala come se fosse già iniziata», il che significava illuminare lungo una prospettiva emozionale tutto il complesso arco strutturale di questo capolavoro; e come non ricordare, poi, il lavoro analitico compiuto sulla tempestosa «coda», smontata e rimontata in ogni minimo dettaglio onde rendere ancor più incisivo quel rapinoso gesto conclusivo. Pochi, naturalmente, i suggerimenti di ordine tecnico, demandati per una soluzione più determinata al suo assistente, allora Fausto Zadra, mentre i rilievi riguardavano essenzialmente l’interpretazione; ogni brano veniva così ricomposto con particolare riguardo ai suoi punti nodali ma insieme agli aspetti organizzativi, cruciali nelle grandi composizioni di Beethoven, di Schubert o di Schumann, era il senso vitale dell’esecuzione a venir continuamente illuminato, con quella colorita segnaletica poliglotta di cui Zecchi, che parlava diverse lingue, si serviva di fronte ad un uditorio composto da giovani provenienti da ogni parte del mondo: «No bombastic!», «Mit Fantasie!», «Ohne pedal!», avvertimenti variamente graduati con quella sua voce velata, in sé persino semplicistici, se ad attivarli e a renderli illuminanti non fosse stata poi quella sua esemplificazione alla tastiera; dove spesso Zecchi prendeva l’avvio per allargare il campo e offrire altri suggerimenti, richiamando situazioni pianistiche affini oppure uscendo dallo stretto recinto strumentale per rimandi ad altre opere, sinfoniche e teatrali. In particolare quando oggetto del lavoro era una Sonata o un Concerto di Mozart - con lo stesso Zecchi che eseguiva la parte dell’orchestra - tale allargamento di visuale era consueto, proprio per far calare l’allievo entro quella impalpabile, avvincente circolarità che in questo autore teatralizza l’espressione strumentale e viceversa; tante, sempre sorprendenti allora le scorciatoie che si aprivano!
Un modo di discorrere naturale, insomma, che trovava soprattutto nel suo Mozart, cercando di liberarlo dal puro compiacimento tastieristico per farlo vivere nella sua intrinseca teatralità: «Andate ad ascoltare il “Così fan tutte” che si rappresentava in quei giorni al Festival invece di macerarvi sulla tastiera» era una dei tanti consigli che dava agli allievi. E lo stesso quando lavorava su una Sonata di Schubert, l’ampia «Sonata in si bemolle» ad esempio, e voleva far comprendere il senso specifico con cui questo autore rivive la forma - il rinvio alla «grande» «Sinfonia in do maggiore» - svelava prospettive inattese. L’importanza di quel respiro che era insito nel suo modo di far musica; un ricordo divertente, il commento durante l’ascolto dal giradischi di casa nostra di un Adagio distillato con puntigliosa dilatazione da Friedric Wührer, il vecchio pianista viennese tra i primi a «scoprire» il Schubert delle Sonate: «Caro amico, hai perso il treno…».
Era dunque lo Zecchi musicista a tenere le redini, il direttore adorato dagli strumentisti della Wiener Kammerorchester per il senso di vita con cui animava quel loro Mozart riscattandolo da quel che di troppo grazioso, non di rado stucchevole, con cui in quegli anni si era soliti eseguirlo.
La nostra conoscenza con Zecchi, mia e di Luisa, mia moglie, pianista a sua volta, avvenne appunto a Parma, in occasione di quel corso la cui attrazione potemmo prolungare, grazie al diretto invito del maestro a frequentare nei tre anni successivi i corsi che teneva al Mozarteum di Salisburgo. Una frequentazione che si ricaricava di suggestioni sottili nei vari ritorni di Zecchi a Parma, favoriti dalla fraterna amicizia con Luigi Magnani, un’amicizia che risaliva agli anni dell’adolescenza dei due, in un in fervido scambio di esperienze; Zecchi, ricordava Magnani, che mentre macinava sulla tastiera scale e arpeggi per l’obbligante tirocinio quotidiano teneva sul leggio l’«Odissea»! Per non dire delle riunioni amicali che un indimenticabile allievo, Ettore Peretti animava nel suo favoloso attico di via San Nicolò davanti allo scenario incredibile del Duomo e del Battistero; senza dimenticare le esibizioni al Regio con Enrico Mainardi, un sodalizio col grande violoncellista che lasciava ben intendere, ricordando solo la tensione delle due Sonate di Brahms, come la forza del pianista avesse mantenuto una pregnanza inconfondibile.
La stessa che nutriva il discorso del direttore d’orchestra, perseguito con quella determinazione che possiamo riconoscere nella intatta eloquenza di certe sue registrazioni, come la «Sinfonia fantastica» di Berlioz o la «Grande» di Schubert. Un percorso quello del direttore che ci riporta nel ricordo ancora a Parma dove più volte invitato dall’Orchestra Toscanini ha plasmato con la nostra compagine un Mozart indimenticabile per freschezza e leggerezza di spirito. Immagini che rivivono, intatte, grazie alla memoria del suono.
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