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Una città «congelata» dal virus

Una  città «congelata» dal virus

di Claudio Rinaldi

13 Settembre 2020, 09:37

La città deserta. Il clima spettrale. La solitudine. La paura. Bambini, madri, padri, nonni reclusi in casa. Il silenzio. Le sirene delle ambulanze: un suono incessante, drammaticamente inquietante. Le pagine delle necrologie che straripavano di annunci, sempre di più. Ognuno si ritaglia con i ricordi più vividi un periodo che nessuno di noi aveva mai vissuto, che nessuno di noi dimenticherà mai: e non solo perché tutti noi abbiamo perso un familiare, o un amico, un collega, un vicino di casa.
È stato un incubo lungo settimane, mesi.
Per noi della «Gazzetta» è stato un periodo di super lavoro, per offrire un’informazione tempestiva e autorevole, come e più di sempre. La soddisfazione più grande è stata l’apprezzamento dei lettori, che hanno trovato nei giornali (e nei siti intecrnet, nelle televisioni), appunto, più autorevoli un rifugio sicuro per difendersi dall’attacco di bufale che si propagavano alla velocità della luce. Del resto, la storia insegna: negli Stati Uniti, da quando è esplosa l’era delle fake news, in contemporanea alla discesa in campo di Donald Trump, i giornali più seri e affidabili («New York Times», «Wall Street Journal», «Washington Post», per citare i più noti) hanno registrato un’impennata di vendite. Allo stesso modo, i lettori di casa nostra hanno apprezzato lo sforzo di fare informazione nel modo più serio possibile, rifuggendo dalle chiacchiere da bar propagate post dopo post, dalle previsioni dei virologi più o meno improvvisati che imperversavano ovunque.
Ci siamo sentiti in prima linea, noi giornalisti e fotografi. Per carità, non eroi: gli eroi sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, i volontari che hanno combattuto il Covid giorno dopo giorno, facendo turni massacranti e mettendo seriamente a rischio la propria vita e quella dei familiari. Ma anche chi ha raccontato la città di quelle lunghissime settimane, di quei mesi, è stato in prima linea. Giornalisti e fotografi hanno battuto la città in lungo e in largo, con il preciso scopo di raccontare ai lettori, che erano forzatamente chiusi in casa, cosa accadeva, che sensazioni si provavano in mezzo al deserto di strade e quartieri quasi irriconoscibili. Un racconto che andava di pari passo con le informazioni ufficiali che arrivavano dagli ospedali, con i bollettini quotidiani che incutevano terrore.
Federico Avanzini ha messo insieme un vero e proprio diario, selezionando 145 immagini tra le migliaia scattate in 90 giorni di lavoro: dal centro alla periferia, a caccia di inquadrature originali, di situazioni, di volti, di mascherine. Di questa «Parma sospesa», ora diventata un libro che siamo molto contenti di mandare in edicola con la «Gazzetta». Non servono titoli o didascalie: le fotografie parlano. Fanno rivivere ricordi e riaprono, per certo, tante ferite. Sono un ritratto di quella Parma che – non serve dire – non vorremmo rivivere mai più. Ma che raccontano anche i primi giorni del ritorno alla normalità. Giorni indimenticabili, che ci hanno fatto apprezzare, ancora di più, la nostra Parma.

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