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Nei luoghi della rivolta

1922: le barricate del Naviglio. Quando anche i ferrovieri si unirono alla resistenza popolare

1922: le barricate del Naviglio

di Chicco Corini

13 Luglio 2022, 08:05

Siamo all’inizio di borgo del Naviglio e alziamo gli occhi a destra. Incastonata nel palazzo all’angolo con borgo degli Studi c’è questa lapide esposta al pubblico dal gennaio 1955: «Noi del Naviglio ricordiamo nel decimo anniversario della Resistenza, gli antifascisti, i partigiani, i patrioti che per la libertà diedero la vita. 1921-1923: Gazzola Gino / Massera Antonio / Mora Carlo / Mussini Giuseppe / Puzzarini Alberto / Strina Italo». Di fianco l’elenco di tredici partigiani morti tra il 1943 e il 1945.

Centotrenta passi verso viale Mentana e ci fermiamo nella piazzetta «L’Avèrta» per leggere un altro frammento di storia sul muro che delimita l’antico corso del Canale del Naviglio: «Antonio Cieri. Anarchico e ardito del popolo. Vasto 1898 – Huesca 1937. In questo borgo fu eroico combattente sulle barricate antifasciste dell’agosto 1922. Federazione anarchica italiana 20-10-2006».

La nostra passeggiata nei «Fatti di Parma» inizia proprio da qui, da borgo del Naviglio. E ci inoltriamo nel ventre di questa particolarissima Parma, proletaria e rivoluzionaria, con Marco Minardi, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza, autore del libro «Le trincee del popolo. Borgo del Naviglio, rione Trinità, Parma 1922» (Ediesse). Il saggio venne pubblicato in occasione del novantesimo anniversario delle Barricate con la prefazione di Susanna Camusso e la presentazione di Patrizia Maestri che allora guidava la Cgil di Parma.

Affrontiamo subito un dubbio storico: la scintilla dei barricadieri parmigiani iniziò a divampare nel mitico Oltretorrente o nel rione Trinità? Insomma, la brace della ribellione antifascista ardeva più «dedlà o dedzà da l’acua»?

«L’anima ribelle e la propensione alla rivolta affonda nella storia degli abitanti dei rioni popolari almeno fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Una irrequietezza sociale che serpeggiava nei borghi sia sulla riva sinistra dell’Oltretorrente sia all’ombra della Cattedrale. Nel rione Trinità la gente era in stato di allerta fin dal 1921, armata, pronta a sparare se necessario per difendersi se i fascisti avessero tentato di entrare nei loro borghi. Pronti anche a fronteggiare le forze dell’ordine se necessario, quando spalleggiavano gli squadristi, come accadde nella primavera del 1921. Analizzando la situazione in quei primi anni Venti, impossibile non partire da quel groviglio di borghi al confine nord della città storica, borgo del Naviglio, via XX Settembre, borgo Gazzola e più in là le vie dei rioni San Sepolcro e San Benedetto, borgo Degli Stallatici (oggi via Dalmazia), borgo Torto (oggi via Corso Corsi) fino ad arrivare a borgo Valorio che si affacciava su strada Vittorio Emanuele (oggi strada della Repubblica). Questa rete di borghi fu difesa fino all’ultimo dalla popolazione trascinata dagli Arditi del Popolo contro chi minacciava le loro case, la loro libertà, la loro vita: migliaia di squadristi, armati e decisi a ripulire quella che per loro era solo una “teppaglia comunista”. A sopportare l’urto furono questi borghi, “quelli del Naviglio”, non semplice appendice dell’Oltretorrente ma vero e proprio avamposto della resistenza popolare che riuscì a bloccare l’avanzata delle camicie nere che nel frattempo dilagavano in larga parte dell’Italia. Dall’altra parte della Parma uomini, donne e ragazzi attesero le sorti del Naviglio, appostati dietro le loro barricate, alle finestre, sui tetti delle case non senza apprensione e preoccupazione ma con tutto il coraggio che era necessario in quel momento. Luogo cruciale l’Oltretorrente, era lì che avevano sede le due principali camere del lavoro, sindacalista rivoluzionaria e confederale, era lì che si trovava il quartier generale degli Arditi del Popolo al comando del deputato socialista Guido Picelli. Tendenze politiche differenti, spesso in lotta tra loro, ma trovarono la forza di unirsi in quei giorni drammatici di fronte al nemico minaccioso».

Possiamo quindi intervenire sulla memorabile scritta che venne vergata sul Lungoparma («Balbo t'è pasè l'Atlantic mo miga la Pärma») e trasformarla così: «Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Pärma e gnànca al Navìlli». Infatti, è nei borghi del Naviglio che gli Arditi del Popolo arruolarono i primi uomini che avrebbero guidato la difesa armata contro la «tempesta reazionaria». Non è un caso che la prima sede del «Battaglione» comandato da Guido Picelli sembra fosse proprio nel rione Trinità. Fu lì che il corteo degli Arditi del Popolo partì per raggiungere la sede della Camera del lavoro confederale in Oltretorrente dove si svolse il convegno fondativo.

In sintesi, come se lo si dovesse spiegare a giovani parmigiani o a turisti, cosa provocò le barricate di cento anni fa a Parma?

«Dopo mesi di tentativo da parte delle squadre fasciste di impadronirsi delle organizzazioni operaie, con le buone o con le cattive, e dopo le numerose “spedizioni” fallite per conquistare la città, le organizzazioni dei lavoratori, fino a quel momento divise e in contrasto tra loro, trovarono la forza di allearsi contro il comune pericolo: la mobilitazione fascista. L’adesione e il successo dello sciopero nazionale legalitario contro la violenza squadrista proclamato dall’Alleanza del lavoro per l’inizio di agosto 1922, che trascinò con sé larga parte della città, ne fu la riprova. La reazione fascista fu immediata. Occorreva dare una lezione ai parmigiani e cancellare la resistenza antifascista. Giunsero in città a migliaia, attorno ai settemila secondo la Prefettura, ma non avevano fatti i conti con il popolo dei borghi nell’Oltretorrente e nella zona Saffi-Naviglio. Sostenuti da una fiera solidarietà di classe, rassicurati dalla milizia armata (Arditi del Popolo) composta in larga parte da abitanti degli stessi rioni e dall’intelligenza militare del suo comandante, Guido Picelli, trovarono la forza e il coraggio di resistere e costrinsero gli assalitori a desistere e ritornare nei propri luoghi di origine, convinti dal temuto ras del fascismo emiliano, Italo Balbo».

Nella tua ricostruzione storica c’è un’altra particolarità che caratterizza proprio l’appartenenza al rione Trinità. Scrivi: «Ai mestieri tradizionali, calzolai, falegnami, musicisti e suonatori, muratori, maniscalchi, fabbri, cucitrici, sarte, braccianti e carrettieri, si affiancarono operai, meccanici, ferrovieri e facchini. La grande maggioranza di questi ultimi era impiegata allo scalo merci e alla stazione ferroviaria per passeggeri». E i ferrovieri hanno avuto un ruolo fondamentale nell’agosto 1922.

«La presenza di ferrovieri in questi rioni popolari era infatti assai più numerosa di quanto emerge dal campione utilizzato. Molti di loro giunti da fuori città trovarono alloggi a buon mercato nelle case ubicate nei borghi a ridosso del complesso ferroviario. Molti iscritti al Sindacato ferrovieri italiani si ritrovarono a condividere con i “sovversivi” del Naviglio le case, le osterie e la lotta nei giorni decisivi di quell’agosto 1922. Guido Picelli affidò il comando militare del Naviglio ad Antonio Cieri, 30 anni, nato a Vasto, disegnatore tecnico delle ferrovie, anarchico, residente in borgo del Correggio presso la pensione gestita dalla famiglia Beatrizzotti, e a Primo Parisini, 22 anni, bolognese, fuochista, residente in strada San Francesco (oggi via Bixio), che la polizia riteneva “pericoloso sovversivo e attivo propagandista”, entrambi del sindacato ferrovieri. Cieri e Parisini furono poi licenziati dalle Ferrovie. Parisini emigrò negli Stati Uniti, Cieri, come Picelli, morì combattendo contro Franco durante la guerra civile spagnola».

Per dare volti, identità e soprattutto «stranòmm» ai ribelli del Naviglio, ti sei avvalso del patrimonio storico costruito da Paolo Tomasi in anni e anni di ricerche. Tomasi (1928-2005), già staffetta partigiana, responsabile dell’ufficio stampa della Provincia di Parma, ha collaborato per tanto tempo con la «Gazzetta di Parma» con diversi articoli di storia locale che ancora oggi sono fonte indispensabile.

«Proprio così, la salvaguardia della memoria delle barricate, in particolare quella che si riferisce alla zona del rione Trinità, deve molto a Paolo Tomasi. Non solo la memoria, Paolo raccolse in anni di indagini e articoli sulla “Gazzetta di Parma” una quantità di informazioni e documenti importantissimi; larga parte di essi si trovano nel Fondo Tomasi conservato presso l’Istituto “Ferruccio Parri” a Milano. Fu con lui che stilammo i nomi che compaiono sul monumento alle barricate in piazzale Rondani, un elenco aperto che ebbe come base la documentazione conservata nell’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea e quella sua privata conservata in buste distribuite in ogni dove nella sua abitazione. Nomi, stranomi, fatti, luoghi, legami famigliari e tratti caratteristici di molti personaggi che vissero le barricate e la dittatura, oltre che la lotta di liberazione. Le sue erano indagini giornalistiche proiettate nel passato, quasi fosse stato catapultato indietro nel tempo e ne raccontasse cronaca, risvolti e conseguenze, una corrispondenza direttamente dal passato».

Ecco il nome di battaglia di alcuni Arditi del Naviglio «schedati» da Tomasi: Gostén, Lisandòr, al Matt, Fojetà, Magòn, al Falchètt, Sbarlus, Baslètt, Belo, Rarì.

C’era anche «Ciosè», un ragazzo dei borghi che faceva la staffetta tra il Naviglio e l’Oltretorrente. E «Puzarén al toscanén dal Navìlli», ucciso nel 1923, braccato dagli squadristi come lo sono stati tanti Arditi del Popolo dopo l’agosto 1922.

Secondo Tomasi gli Arditi del Popolo «militarmente» registrati erano 54 nella zona di borgo del Naviglio e 23 nei rioni San Benedetto e San Sepolcro. Invece, rimane di difficile definizione la reale consistenza dell’intero «Battaglione». Molta documentazione d’archivio è finita sotto le macerie dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Sulla base delle carte della polizia e degli atti del Tribunale sono stati identificati 325 Arditi.

E sempre dal Fondo Tomasi leggiamo: «Nel Naviglio, in mancanza di armi, che scarseggiavano, tutto ciò che poteva offendere veniva utilizzato, sassi, “copp”, mattoni, traversine ferroviarie, chiodi, oggetti contundenti, cordoli e lastroni in pietra dei marciapiedi, vasi di coccio per gerani e recipienti di lamiera per la coltivazione casalinga delle “bonjèrbi” e del “ozmarén”; i pugni degli uomini, le unghie delle donne sempre tutte schierate, dalle giovanissime alle vecchie ormai incapaci di far il bucato a causa dell’artrite; la voce umana, financo, in quanto atta, specie quella femminile, a sgomentare i fascisti e intimorirli, a mettere scompiglio e sbigottimento».

A elencare, invece, cosa mangiavano gli Arditi del Popolo in battaglia, fu proprio Italo Balbo che aveva istituito il quartiere generale dei fascisti nell’Hotel Croce Bianca in piazzale della Steccata: «Mentre i difensori sono di guardia alle trincee, le donne, mobilitate anch’esse, preparavano il rancio. Le popolane portano alle cucine antifasciste pane, vino, frutta, lardo, patate. Il rancio viene distribuito due volte al giorno. L’ora del rancio è fissata con uno squillo di tromba».

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