TUTTA PARMA
Le famiglie erano numerose e, quei poveri genitori, oltre ad avere i loro vecchi a carico, si trovavano ad avere anche una gerla di figli. Erano scarsissime le risorse economiche che un tempo poteva offrire la nostra montagna, e la «rezdóra», per mettere a tavola e sfamare tutte quelle bocche, ogni giorno, doveva fare i salti mortali ed inventarsi qualcosa ma, poveretta, non era ancora attrezzata a fare i miracoli tipo «moltiplicazione dei pani e dei pesci» della quale ne aveva sentito parlare solo dal prete in chiesa.
Quindi, molto a malincuore, la famiglia contadina montanara doveva fare delle scelte e, se un paio di figli maschi li dirottava in seminario affinché potessero mangiare e poi diventare sacerdoti all’età giusta, per la ragazze, le strade da seguire erano quella delle «mondariso» (le famose «mondine») oppure quella di fare la domestica in città «in-t-la ca' d’un cuälch sjòr» raccomandata, magari, dal parroco o da qualche parente che conosceva quella famiglia benestante.
Gli altri figli maschi più grandi, o partivano per il lavoro in miniera all’estero, oppure davano una mano al padre nel lavoro dei campi mentre le femmine aiutavano la madre nei lavori di casa. L’aspirante domestica, una volta presa la decisione ed avere individuato la casa di una famiglia cittadina seria e facoltosa, metteva insieme i suoi pochi indumenti e partiva alla volta della città dove non era mai stata.
Appena «miss su al scosäl» la giovane, un po’ impacciata, un po’ goffa nei movimenti e un po' tanto ruspante, veniva opportunamente addestrata dalla padrona di casa o dalla domestica anziana che le insegnavano l’abc dei lavori e del comportamento che doveva essere in sintonia con il blasone della casa in cui era approdata. Dopo di che, una volta che le era stata assegnata la sua stanza e, dopo avere indossato l'uniforme di rito (una sorta di vestaglia di raso nero lucido, un grembiule bianco ornato da un artistico pizzo e la nivea crestina inamidata in testa), iniziava il suo tour nella nuova casa che si schiudeva ai suoi occhi con una serie di novità e di sorprese che non aveva mai visto ad iniziare dai servizi igienici con tanto di vasca da bagno e rubinetterie di lusso.
Dopo un periodo di apprendimento, siccome la fanciulla nel proprio dna aveva un innato senso di responsabilità e la manualità delle «rezdóre» vere che le avevano tramandato le sue vecchie le quali, prima di insegnarle il «padrenostro» le avevano insegnato a «fär la fojäda», ben presto imparava l’arte delle pulizie domestiche e tutti quei segreti muliebri indispensabili per soddisfare i padroni di casa. Se nei primi periodi di servizio la fanciulla era un pochino impacciata, mano a mano trascorreva il tempo, diveniva sempre più un autentico e insostituibile punto di riferimento. I bambini si affezionavano tantissimo a quella «tata» che li coccolava, raccontava loro le «fole di stalla» che aveva appreso nel suo paese durante le lunghe veglie invernali, insegnava a quei marmocchi cantilene e tiritere che in estate i bimbi di montagna cantavano nelle corti dedicandole alle stelle, alla luna e alle lucciole. Svelava a quegli aristocratici marmocchi i segreti della natura che, in montagna, parla al cuore della gente col canto del «cucù», il profumo dei fiori, il linguaggio del vento e dei torrenti. Riusciva a dare un tocco di genuinità ai cibi grazie agli antichi saperi delle sue ave ma, soprattutto, era in grado di indovinare i gusti dei più piccini con piatti semplici, umili, frutto di una cucina povera ma ricca di sapori come i «pòmm da téra fritt in t'al dolégh con ‘na poléssa d’àj» che quei ragazzini, una volta adulti, non avrebbero mai dimenticato. Si faceva apprezzare per la serietà e la laboriosità al punto di diventare, dopo alcuni anni, una componente della famiglia della quale sapeva vita, morte, miracoli, segreti, gioie e miserie.
Ricorda una signora anziana residente proprio nel cuore antico di Parma che la sua «tata» «l’éra 'na montanarètta äd ’na frasjón äd Palanzàn. L’éra mägra cme n' aciuga mo forta cme ‘l trón», ma soprattutto «la gh’äva un cór grand cme 'na ca' ansi de più e l’as' ciamäva Dionisia». Anche l’ex ragazzotta di montagna, dopo un po’ di tempo, si abituava al ritmo di vita cittadino e la sua terra non era che un lontano ricordo anche se l’amore e l’affetto per i suoi cari e le amiche cime dei monti erano sempre forti. Raramente saliva al paesello, anche perché le ferie, allora, non erano neppure nell’anticamera del cervello di chi le doveva concedere e di chi ne doveva usufruire.
Quindi, era una dipendente in servizio permanente effettivo al punto che, se non si creava una famiglia, rimaneva fino agli ultimi giorni della sua vita in quella casa che, ormai, sentiva sua e ai cui residenti era affezionata più di una parente tanto da vedere scorrere dinanzi ai suoi occhi nascite, funerali, matrimoni, partenze, arrivi, gioie, dolori, lacrime e sorrisi. In estate, la giovane domestica seguiva i signori al mare, in montagna o in collina dove trascorrevano le vacanze nella loro dimora estiva. Interessante ma, soprattutto molto rara, a questo punto, una foto d’epoca che ritrae due signore in piazzale della Stazione, appena scese dal treno, seguite dalla loro giovane domestica che porta i bagagli. Negli anni Cinquanta l’emigrazione delle ragazze montanare alla volta della città per andare a servizio, sebbene diminuita, rimase pur sempre significativa. Però, rispetto agli anni precedenti, i tempi erano cambiati e, con loro, erano cambiati anche i rapporti di lavoro quindi, alla «domestica fissa» veniva concessa mezza giornata di permesso, solitamente al giovedì o alla domenica pomeriggio. E non era raro che, ad aspettare la giovane, poco distante dal portone del palazzo dove lavorava, ci fosse un giovanotto in borghese o in uniforme, come, ad esempio, uno dei tanti «celerén», appartenente al reparto «Celere» della Polizia, di stanza in Pilotta.
Indimenticabili e quasi commoventi le raccomandazioni di un’anziana nobildonna che risiedeva in una villetta dalle parti della Cittadella la quale aveva una domestica di nome Linda (una bella ragazza originaria del primo contado) alla quale si rivolgeva con fare materno tutte le volte che la Linda varcava la soglia di casa per la mezza giornata di permesso: «giudizio, Linda, giudizio!». E, con quelle due parole, aveva già detto tutto, frutto della sua esperienza e della sua nobiltà e signorilità d’animo.
Le care vecchie domestiche d’un tempo: persone meravigliose, fedeli compagne di una vita. Intere famiglie in quelle ragazzotte di montagna o di campagna un po’ impacciate e timide, in molti casi, scoprirono un sicuro presidio di fedeltà, attaccamento e tanto affetto che, solo un cuore umile, è in grado di sprigionare.
Lorenzo Sartorio
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