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Donne al lavoro nei campi e nei boschi - Foto

di Lorenzo Sartorio

01 Settembre 2025, 13:55

Potremmo definirle le «mondine» «dill sigòlli», «dill tomachi», «dill panòci» e «dill castagni». Un duro lavoro che iniziava a giugno e proseguiva fino a settembre ed ottobre. Si tratta delle raccoglitrici di cipolle, pomodori, pannocchie di granturco ed, infine, delle castagne che concludevano il ciclo delle grandi raccolte nei campi e nei boschi. Per quanto concerne il «sigoläri» e il «tomacäri» imperava una leggenda tra il boccaccesco e l’irriverente. Infatti, quando le donne erano chine per effettuare la raccolta e le loro ampie sottanone venivano impudicamente alzate dal vento ed i loro larghi cappelli di paglia venivano sollevati in aria dalla brezza che scendeva dalle colline, le contadine addossavano la colpa di questi misfatti al dispettoso folletto («al folètt») che si divertiva a fare il mulinello con la polvere (l’«arvój») mentre i monelli, tra le stoppie, osservavano divertiti questo «peccaminoso» spettacolo agreste.
Credenze antiche, usanze senza tempo, superstizioni ingenue e ataviche che la gente dei campi si trasmetteva di generazione in generazione per esorcizzare fatica e miseria. Disposte in file trasversali, tutto il giorno ricurve sul terreno, le contadine, raccoglievano le aulenti cipolle il cui profumo si diffondeva anche a distanza sancendo così «al témp dill sigòlli». La raccolta si tramutava in un vero e proprio rito che vedeva all’opera squadroni di donne le quali, pazientemente, riempivano cassette di legno poi trasportate, con un carro trainato dai buoi, nell’aia dove le cipolle venivano distese al sole affinché «asciugassero» bene. Il «tempo delle cipolle» iniziava a giugno con i campi tappezzati da piante che, al culmine del filiforme gambo, presentavano un fiore davvero singolare: una sorta di batuffolo bianco e profumatissimo.
Agosto sanciva il termine del «témp dill sigòlli» per far spazio a quello «dill tomachi» che durava fino a settembre per la raccolta dei pomodori tardivi. Le cipolle, un tempo, erano considerate una preziosa riserva per l’inverno in quanto, unitamente a patate, zucche e fagioli, venivano riposte nel solaio («granär») distese su tavoli di legno oppure intrecciate e appese ai travi. La «rezdóra» con cipolle, patate, fagioli, zucca e con le candide verze dell’orto, che venivano sferzate dai gelidi venti invernali e incipriate di neve e «galabrùzza», cucinava umilissime ma tanto gustose zuppe che, nel paiolo, venivano opportunamente nobilitate dal fuoco amico del camino. Le cipolle più diffuse nelle nostre campagne erano la «dorata parmigiana» e la «borettana» (una cipollina di taglia piccolissima e particolarmente gustosa che, nelle nostre campagne, ma specialmente nel Reggiano, veniva servita in agrodolce in compagnia dei lessi).
Le cipolle venivano conservate per l’inverno anche sotto aceto e, a questo punto, era il «rezdór» che assolveva a questo compito. Le cipolle crude, una volta tolta la pellicola e ben asciugate, venivano stipate in vasetti di vetro all’interno dei quali veniva versato aceto rosso di vino mentre un altro modo per conservare «il sigòlli» consisteva nel farle «abbracciare», sempre crude, dai graspi dell’uva macerati nei tini che, unitamente alle cipolle, conservavano nel vasetto il profumo del vino e di quelle buie cantine dal pavimento in terra battuta che olezzavano di mosto e di muffa. Le cipolle sotto aceto e quelle macerate nel mosto, («il sigòlli màchi»), opportunamente condite con un filo d’olio e sale, venivano tradizionalmente abbinate ai lessi, in modo particolare al «prét». Ma la cipolla nella tradizione popolare, oltre assolvere a compiti terapeutici (era ritenuta un ottimo diuretico, lassativo e depuratore del sangue), aveva anche poteri magici. Infatti il «rezdór», nella notte di San Paolo 26 giugno (solstizio d’estate) o della Vigilia di Natale (solstizio d’inverno) sfogliava una cipolla facendone dodici fettine.
Dopo avere distribuito una presina di sale su ogni fettina, le stesse venivano messe su un’assicella di legno poi posta sul davanzale. Al mattino seguente le fettine, ognuna battezzata con il nome di un mese dell’anno, venivano attentamente esaminate e la fettina che nella notte aveva prodotto più acqua sarebbe corrisposta al mese più piovoso. «Il tomàchi», dopo avere ricevuto tante cure, dopo essere state opportunamente irrigate con l’acqua che i contadini succhiavano da quei canali che in estate erano sempre più «magri», dopo avere ricevuto la benedizione del sole, solo in quel momento lì erano abili alla raccolta. Ed allora, nei campi, si riversava un vero e proprio esercito di raccoglitori. In prevalenza donne e ragazze, chine sulle basse piante mostrando ciò che la razza muliebre padana ha di più prosperoso, con il capo riparato da fazzolettoni o ampi cappellacci di paglia, unitamente a squattrinati studentelli alla ricerca di qualche spicciolo, invadevano i campi dal mattino di buon’ora fino al tramonto raccogliendo «l’oro rosso» che, come per magia, si sarebbe tramutato in aulente e gustosissima conserva grazie alla ben nota abilità delle nostre industrie conserviere. La tranquillità dei campi, allora, veniva violata dal canto dei raccoglitori, dallo schiamazzare dei ragazzi, dal cicalare delle donne, dallo stridulo arrancare sulla terra dei trattori che trainavano carretti sui quali venivano sistemate le cassette ricolme di pomodori maturi.
Un rito, una festa, una liturgia, ma anche tanto sudore, fatica, levatacce, mal di schiena specie per chi, non sapendo che la terra è bassa e lavorando prevalentemente alla scrivania, non si trovava a proprio agio. Un breve stacco a mezzogiorno per un panino e per bere quella bottiglia d’acqua fresca che tutta la mattina aveva galleggiato nel fosso. Una tregua che durava poco tempo, poi nuovamente con le schiene piegate per raccogliere quelle biglie rosse che il sole aveva reso incandescenti. Sul far della sera, quando il sole diventava un’enorme palla rossa di fuoco e cercava di nascondersi dietro i filari di gelsi per far posto alla brezza vespertina, i raccoglitori mettevano insieme le loro ossa rotte, dopo di che, chi a bordo di un trattore, chi in bici, facevano ritorno a casa per il meritato riposo. La mattina dopo, ancor prima che il sole sorgesse e gli «scuri» delle case contadine sbattessero le loro lignee ali contro i muri scrostati, bisognava ancora essere là, in mezzo ai campi, per raccattare pomodori e speranza, mentre i raccoglitori si raccontavano sommessamente l’eterna favola della vita.

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