SALUTE
RISPONDE Carlo Pruneti Docente di psicologia clinica e psicopatologia generale all'Ateneo di Parma
Viaggiare come terapia, non solo per svago o per riposare. Sono sempre di più gli psicoterapeuti che consigliano ai loro pazienti un viaggio. Per fermare una routine diventata stressante, per guardare le cose (e i propri problemi) sotto una nuova prospettiva, per aprirsi ad esperienze ed amicizie. Perché, come già lo scrittore americano John Steinbeck sosteneva, «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone».
La consuetudine è tale che è nata anche la figura del «travel therapist», che affianca lo psicoterapeuta nel suggerire mete e organizzare gli itinerari più adatti. Ne parliamo con Carlo Pruneti, docente di psicologia clinica e psicopatologia generale dell'Università di Parma, responsabile del Laboratorio di psicologia clinica, psicofisiologia clinica e neuropsicologia clinica del Dipartimento di medicina e chirurgia.
Quando un viaggio acquista un valore terapeutico?
Tutte le volte che è pensato, adeguatamente programmato e gioendo nella prospettiva di farlo, semmai in compagnia e, se è inserito all'interno di un percorso psicoterapeutico, con suggerimenti che vanno al di la del buonsenso. È infatti importante che lo psicoterapeuta valuti l'aspetto clinico del paziente e dia i giusti consigli. Se un paziente è in un momento di forte stress, non ha senso intraprendere un viaggio lungo e faticoso. Il viaggio in questi casi può essere addirittura pericoloso o fatale e non è infrequente, ad esempio, l'infarto proprio durante un periodo di vacanza immediatamente dopo un periodo di stress cronico.
Quindi la vacanza «terapeutica» va scelta con attenzione?
Va ponderata e studiata. La preparazione di un viaggio è meravigliosa e può essere anche quella una fase terapeutica. Darsi del tempo, sognare, progettare. Il terapeuta che ha inquadrato lo stile di vita e la personalità del paziente e che, semmai con strumenti di tipo psicofisiologico, ne ha misurato lo stress, può ad esempio sconsigliare un viaggio in un certo momento e caldeggiarlo invece in un altro.
Qual è la meta ideale di un viaggio che aiuti la psiche?
Non esiste, è diversa per ciascuno. L'importante è lo spirito con il quale si affronta il viaggio: non con l'intento di “fuggire” dai problemi, che poi si ripresenteranno più pressanti al ritorno, perché ovunque si vada, alla fine si ritroverà se stessi. Ma con l'intento di cercare un cambiamento positivo, una trasformazione in senso evolutivo del sé. In generale sconsiglio viaggi frettolosi, di pochi giorni, verso mete lontane per quanto ricche di fascino, o destinazioni modaiole. Ho avuto una paziente, con un impiego modesto, che risparmiava tutto l'anno per permettersi una settimana in una località di moda a spiare i vip: ne gioiva nella preparazione ma ne tornava insoddisfatta e frustrata.
Quindi la gita fuori porta può essere utile quanto la vacanza esotica?
La scelta della destinazione è in funzione di chi fa il viaggio e dipende dalle sue condizioni fisiche e psicologiche. Ho invitato ad esempio una paziente che non riusciva a superare la perdita del consorte, e recalcitrante ad intraprendere viaggi, ad andare a recuperare la barca del marito ormeggiata da anni in un porto lontano. Fare quel passo è stato importante per superare un impasse doloroso.
Con quale spirito andrebbe affrontato un viaggio terapeutico?
Non con l'ansia di arrivare alla meta, magari per documentarla e sbandierarla sui social, ma con la voglia di godersi il viaggio, viversi le esperienze e il tragitto. Il famosissimo libro di Robert Pirsig «Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta» insegna proprio questo: «L'unico Zen che trovi in cima alle montagne è lo Zen che porti lassù» e lo Zen, in questi casi, lo fa la qualità di un viaggio.
C'è anche l'altra faccia della medaglia: la sindrome di Wanderlust, ossia l'ossessione di viaggiare continuamente.
È una sindrome che in qualche nodo ricorda il «sensation seeker», oggi purtroppo assai diffusa, che potrebbe essere riassunta nel non essere soddisfatto se non in giro per il mondo. La «sensation seeking», nell'accezione di Zuckerman (1994), è «un tratto di personalità definito dalla ricerca di comportamenti sempre nuovi, semmai a rischio, sensazioni ed esperienze varie ed intense, e dalla disponibilità a correr rischi fisici, sociali, legali e finanziari per il piacere di tali situazioni». Queste persone spesso ritengono perdite di tempo fermarsi per godere di un paesaggio o di un momento di rilassamento. È necessario che qualcuno le aiuti a rivolgersi ad uno psicoterapeuta. L’approccio più efficace è quello della psicoterapia cognitivo comportamentale e in particolare alcune tecniche come la desensibilizzazione sistematica, lo stress inoculation training, il biofeedback. Lo psicologo esperto in travel therapy potrà fare ben poco per loro.
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