Quando il presidente del Consiglio ha annunciato per noi docenti delle superiori il passaggio alla didattica digitale, i sentimenti sono stati contrastanti. Da un lato il fatto di potersi considerare più protetti tra le proprie mura domestiche, tra un «Ragazzi, ci siete?» e un «Mi sentite bene o devo alzare il microfono?» urlato allo schermo del pc; dall’altro lato la constatazione, innegabile e impietosa allo stesso tempo, che l’informatica, anche la più sofisticata, non potrà mai sostituire il contatto umano, la ricerca degli sguardi, la visione di quei sorrisi ingenui di chi, alla vita, ha ancora tutto da chiedere. E allora la bilancia del pensiero ondeggia, sballottata tra la salvaguardia della propria salute e l’importanza di una funzione non solo professionale che, con le nuove modalità, è per forza un’altra cosa. Ci sarei andato volentieri e con entusiasmo a scuola: a dispetto del viaggio da pendolare tutti i giorni, da Parma a Reggio Emilia, dove da quest’anno insegno matematica all’istituto economico «Scaruffi-Levi-Tricolore». Dopo una vita trascorsa al «Bodoni», di cui serbo bellissimi ricordi e verso cui nutro sincera riconoscenza. Tutto procedeva nel migliore dei modi: al di là dei protocolli rigidi, delle mascherine che offuscano il cielo sereno dell’adolescenza, del metro di distanza che se diventa un centimetro in meno non va bene più. Con le precauzioni si andava avanti, tra la foschia delle sei e mezzo del mattino e il regionale che mi riportava a casa, sempre sul binario tre.
«C’è un’alunna che si è ammalata, forse dovremo fare tutti il tampone», il sussurro preoccupato riecheggiava di tanto in tanto tra gli insegnanti e tra i ragazzi, con le iniziali puntate che coprivano, come foglia di fico, lo sfortunato di turno. Le frecce rosse e verdi sul pavimento ad indicare i percorsi da seguire, le lettere dell’alfabeto dedicate agli ingressi da usare, il gel disinfettante disseminato ovunque come improvvisa panacea di tutti i mali: sapevamo tutti che era una scuola diversa, più ingabbiata e per questo più triste. Ma era scuola, appunto. L’ultimo giorno, con i ragazzi già bloccati a casa dalla paura del nemico invisibile, è stato davvero surreale: fare lezione dalle aule vuote è come passeggiare in un bosco appena devastato da un incendio. E’ meglio arrabbiarsi con Paolino che non vuole saperne, nel cambio d’ora, di rimanere al proprio posto, piuttosto che sfidare un silenzio irreale mentre si montano le attrezzature per fare lezione e ci si chiede se la funzione del docente non abbia tacitamente passato il testimone a quella del tecnico informatico. Prima di cominciare guardo quelle sedie vuote, immagino volti invece che spalliere, ma l’unica cosa che riesco a vedere è la mia giacca, che mi dà l’illusione di un’altra presenza. Si sentono le voci dei colleghi dalle aule accanto: le funzioni matematiche si mischiano con la grammatica, le frasi in lingua con i conti economici in una sorta di Babele del sapere. Ma, in comune, abbiamo tutti o quasi un’aria triste che proviamo a ingannare con un sorriso di circostanza. La lezione è finita, la prossima andrà in onda dalla scrivania di casa: prendo i libri, saluto lo staff di presidenza, un sorriso alla collaboratrice e via verso casa. C’è poca gente in giro e la stazione è semivuota. Quando tutto questo sarà un ricordo, dovremo cercare di farne tesoro per essere migliori. Soprattutto non considerarle più cose scontate. Ora è il momento di fare un passo indietro, di rendersi utili portando nelle case dei nostri ragazzi un pezzo di quella quotidianità che spesso faceva storcere il muso ma che ora, indiscutibilmente, manca. Non possiamo permetterci di essere stanchi o sfiduciati: le circostanze ci hanno fatto solo rallentare, portandoci ad aspettare tempi migliori, confinati in un isolamento comodo quanto si vuole ma vuoto. Proprio come quello zaino che, intristito sul divano, attende solo di riprendere a viaggiare.
Il prof Gaetano Pugliese
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