A metà della Valle del Dragone c’è un dirupo d’ofiolite rossa, roccia lavica, con su una chiesetta, quel che si può dire il nostro punto pittoresco, dove andare a fumare, o a baciarsi, o a contemplare il suicidio avendo l’indole. Giù nella piana fra lo strapiombo e il fiume, un poggio dove anticamente stava un castello raso al suolo, e di fronte altri costoni rossi, con delle miniere abbandonate. Quando la valle intera è sotto il sole a mezzogiorno e il fiume che scintilla da lontano sembra fermo, il Calvario è come una testa scura che guarda di profilo verso Est.
Camminare verso il vuoto, il suono morbido che fa la roccia sbriciolata e coperta di muschio sotto i pedi, è favoloso. Sul Calvario hai portato ogni morosa, ogni amico forestiero a cui tenessi, e come te deve aver fatto ogni ragazzo della valle, tanto che c’è da stupirsi per tutte le volte in cui l’hai trovato deserto.
Certi amici con cui ci sei stato sono morti, altri ormai non li vedi più.
Ma da sotto, il Calvario è un altro mondo: il disegno netto che leggevi si sfaglia in denti e fessure; hai una visione spezzata, con certe colate di roccia che ti scendono addosso a bordo strada, e altre che si innalzano a pinnacolo, circondate dalla vegetazione, con un’impressione di stampe coloniali. È ancora più bello mi sa, dal di sotto: com’è africano, com’è lavico.
C’è una stradina che gli passa a fianco, parallela al fiume, con poche case e nascoste. Non vedi nessun’altro, come se la valle fosse tua; t’immagini l’estate, e il medioevo. Però è maggio, e c’è un vento bestia, che pulisce tutto e il sole picchia, ti cuocerà la faccia. Vai con tuo fratello sul sentiero fra i cerri rugosi, molto alti, che sfregano al vento e si grattano come vecchie ossute.
Sul Calvario vive una pecora da sola; ci sta da sette otto anni, di norma sul lato che guarda a Sudest, il più impervio; secondo mio fratello dorme in una grotta. In realtà è un montone, ma la chiamiamo tutti al femminile. Dev’essersi persa durante una transumanza: il gregge ha tirato diritto e lei è rimasta qui. Bruca fra i denti di roccia. Che in sette, otto anni, sola a questo mondo e indipendente, sia riuscita a sfuggire sempre ai lupi, è una cosa ammirevole.
Appartenendo soltanto a se stessa, non viene mai tosata. Ha l’anello all’orecchio perché un contadino l’aveva catturata: siccome certe volte lei scendeva a bere fin sopra le case, lui l’ha presa e messa nella stalla. Ma il suo vicino ha cominciato a dirgli: – Dài, lasciala andare, ormai è avviata così – e l’ha convinto a liberarla. Lei è tornata sul Calvario.
Tompi dal pranzo e dal vino, io e mio fratello teniamo il sentiero giù basso, sul fiume, e passiamo in una piana d’erba lunga e pini silvestri malandati.
Non siamo ubriachi. Appena intontiti: la soglia piacevole, che dà quel distacco un po’ contemplativo, per cui se tua moglie ti fa una domanda rispondi preciso e sicuro, ti sembra. Ma i pini da noi hanno sempre quell'aria un po' incongrua, sospetta, e resistono in file come soldati in un terreno conquistato solo nominalmente, straniero e provvisorio.
Quest'anno è nevicato, a marzo ha fatto freddo e non ci si era più abituati, si è arrivati a maggio con la foglia sbagliata; così la luce è ancora cruda, perché gli alberi la lasciano passare come se fosse inverno, ma le giornate si sono già allungate, e c'è più caldo, e il vento insistente ci fa innervosire, sentire strani e più soli.
Con questo stordimento addosso risaliamo, togliendoci dall’ombra, e andiamo a vedere la pecora.
Siccome non viene mai tosata, la lana lunghissima le scende dai fianchi e tocca terra, e siccome l’ofiolite è roccia rossa, gli scrosci di pioggia le spruzzano addosso la polvere, e tingono la pecora.
All’imbocco della salita c’è un ponticello di legno nuovo nuovo, messo lì quando han rifatto il sentiero. I nidi delle processionarie ondeggiano sulle cime dei pini, come zucchero filato argenteo e pericoloso. Dal ponticello guardiamo le rocce più in alto. Mio fratello si mette a fischiare. A turno diciamo – Ecco... – ma siamo controsole, a collo storto, il vento muove gli arbusti, fa baluginare chissà cosa, lassù, tutte illusioni, tanto che poi quando la pecora si mostra non ne siamo subito sicuri, perché lei sta immobile a brucare.
È come un cespuglione di lana, non si distingue il dietro dal davanti. Ma la testa è nera, ogni tanto la muove – e dal movimento sul bianco di quel punto scuro, come la pupilla di un occhio, ti rendi conto che quella massa chiara è un animale. Chissà quanto è piccola e magra, la pecora vera, dentro quel vestito.
Mio fratello dice: – È curiosa, vedi? Viene perché abbiam chiamato –, e io dico: – Ma va là!
Allora passiamo il ponticello, per andare a guardarla da vicino. Sbuchiamo dal boschetto in un’aperta, sotto la roccia dove prima lei brucava. Altri venti metri e siamo lì, ma non la vediamo più, la roccia è sgombra, la pecora è sparita, e mio fratello dice: – Era curiosa fino a un certo punto.
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