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Italia-Germania 4-3: la memoria di "Picchio" De Sisti, eroe dell’Azteca

Italia-Germania 4-3: la memoria di "Picchio" De Sisti, eroe dell’Azteca

di GINO CERVI

18 Giugno 2020, 09:01

 

Prima e dopo quel 17 giugno 1970, e la partita dell’Azteca, tutti parlavano di Mazzola, di Rivera e delle ambasce o delle pressioni a cui era sottoposto il povero Valcareggi, messo in mezzo alle polemiche tra chi dei due dovesse giocare, dando per scontato che la presenza di entrambi non sarebbe stata sostenibile dalla squadra per una questione di equilibri tattici e atletici. Per fortuna lo zio Uccio a centrocampo aveva una certezza: Giancarlo De Sisti.

Se ci fossero stati allora i football match analyst quegli assistenti che, dotati di raffinatissimi strumenti di indagine digitale, oggi possono valutare la performance tecnica, atletica e tattica dei ventidue in campo, sono sicuro che dai loro big data sarebbe spiccato a tutto tondo il nome di Picchio. Giancarlo De Sisti lo chiamavano Picchio – che in romanesco vuol dire “trottola” – fin dai primi calci nei ragazzi della Roma, quando ancora non aveva sedici anni. Il soprannome – a indicare un moto perpetuo e ben temperato – gli rimase attaccato quando esordì in giallorosso nello stesso centrocampo in cui giostrava, a ritmo ridotto ma ancora con illuminante maestria, il grande Pepe Schiaffino. Di cui Picchio non ebbe mai la genialità “dell’uomo che è venuto da lontano” ma dal quale, evidentemente, imparò alla perfezione il modo con cui si pianta in mezzo al campo il vessillo e lo si presidia da buon condottiero.

«A quella partita ci siamo arrivati preparati – racconta De Sisti – . Ne sapevamo l’importanza e la difficoltà. Eravamo partiti piano nel girone di qualificazione, ma avevamo finalmente trovato il passo con il Messico. Battere i padroni di casa in quelle condizioni, ambientali e di altitudine, non era stata un’impresa da poco. Ma quella vittoria ci diede fiducia. Ci sarebbe toccata la Germania che era fortissima, vicecampione del Mondo. E poi bisogna ammettere che contro i tedeschi per noi era sempre una partita speciale…».

Anche De Sisti, come gli altri suoi compagni, se gli si domanda se affrontare i tedeschi a venticinque anni dalla fine della guerra avesse un significato particolare, magari anche un fondo di rivalsa, di antagonismo storico-politico, risponde che no, che era “soltanto” una partita di calcio. Ma, da persona acuta e riflessiva quale è – caratteristica che lo distingueva anche come calciatore prima e poi come allenatore – Picchio ammette che il fatto che tutti i calciatori di quella selezione fossero “figli della guerra e del dopoguerra” abbia giocato un fattore determinante nel raggiungimento del risultato.

«Io sono nato a Roma, al Quadraro, quartiere popolare, il 13 marzo del 1943. Non posso dire di ricordarmi nulla di quegli anni, dei bombardamenti, delle fughe nei rifugi anti-aerei. Ma sono esperienze che mi porto dentro dai racconti famigliari, che anche se non li ho vissuti direttamente mi appartengono nel profondo. Porto ad esempio dentro di me una storia particolare. Quella di mio padre Romolo. Il 17 aprile del 1944, a meno di un mese dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, Herbert Kappler, capo delle SS, decise di stroncare la resistenza nei quartieri popolari ordinare un gigantesco rastrellamento al Quadraro. Vennero arrestate circa 2000 persone, soprattutto capifamiglia e uomini adulti, destinati ai campi di concentramento in Germania. Tra di loro c’era anche mio padre. Aveva la sola colpa di lavorare come operaio alla Stefer, l’azienda filo tranviaria romana. I nazisti ritenevano che nel quartiere si annidassero partigiani, sabotatori e renitenti alla leva e trovarono come altre volte un modo, crudele e sbrigativo, per sbarazzarsene. Centinaia e centinaia di uomini vennero caricati sui treni, dapprima diretti a Terni, poi a Firenze. Fu lì, poco dopo la partenza dalla stazione di Campo di Marte, che durante un rallentamento del convoglio nei pressi di una curva, mio padre e alcuni altri compagni riuscirono a gettarsi dal vagone e fuggire dal treno che li stava portanto al campo di Fossoli, centro di smistamento di tutti i prigionieri prima della deportazione in Germania. Tornò a casa a piedi, dopo qualche settimana di indicibili angosce da parte di mia madre che era rimasta sola con me, che avevo poco più di un anno e con mia sorella di poco più grande. È una storia che non mi ha mai abbandonato, anche perché l’ho vista poi per anni incarnata in mio padre, avventurosamente sopravvissuto a un destino che, altrimenti, sarebbe stato ben diverso».

Picchio De Sisti non dimentica. Non dimentica neppure cosa sia significato per quelli della sua generazione venir fuori dagli anni della guerra e ricostruire dal nulla, o quasi, la propria vita personale e, sommata a tutte quelle della sua generazione, la vita di un intero Paese. Lo sa dire con parole semplici, ma che vanno dritte al cuore della questione: «Sono stati anni duri. Conoscevamo il valore del pezzo di pane e quanta fatica era costato poterselo permettere. Forse era proprio questo il segreto: il nostro carattere di giovani uomini e atleti si era formato negli anni duri della giovinezza».

De Sisti si sofferma in modo particolare nel sottolineare come quel gruppo, così anagraficamente coeso, era anche, a dispetto delle tante polemiche che infuriavano intorno, sostanzialmente solidale. «Un giorno, durante il ritiro al Club America, mi fece un’intervista il grande Gianni Brera. Mi domandò senza troppi giri di parole se fossi per Rivera o per Mazzola. Gli risposi sinceramente, ricorrendo al mio romanesco per essere ancor più convincente: “Dottor Brera, io so’ per la pagnotta!”. Non aveva senso creare fazioni. Io ero una specie di “cane sciolto”, perché non appartenevo a nessun “blocco” di squadra [De Sisti era, con Ugo Ferrante, un giocatore della Fiorentina con cui l’anno prima aveva vinto il campionato] ma sono sicuro che neppure Facchetti e Burgnich, gente schietta e pura come acqua di sorgente, che invece erano dell’Inter e quindi, teoricamente, più vicini alla “causa” di Mazzola si sarebbero prestati a rompere la solidarietà che esisteva nel gruppo».

Ammette che il compito di Valcareggi non era facile. «Lasciar fuori Rivera, che all’epoca era Pallone d’oro, poteva sembrare un’eresia. Ma il mister sono certo che faceva scelte solo per il bene della squadra, in totale onestà. Io gli sarò sempre riconoscente per quello che ha fatto per me…».

In effetti De Sisti si conquistò la fiducia del CT fin dagli Europei del 1968, quando Valcareggi, nella ripetizione della finale con la Jugoslavia, come equilibratore del centrocampo, lo preferì al napoletano Antonio Juliano. Da allora Picchio fu per quattro anni titolare inamovibile del centrocampo azzurro. A una ottima visione di gioco, soprattutto sullo scambio breve, De Sisti sapeva associare un dinamismo e uno spirito di sacrificio che altri, forse tecnicamente più dotati colleghi, non potevano garantire. Si torna dunque sempre lì, al carattere di chi formatosi in anni di restrizioni e sudate conquiste. Nella notte dell’Azteca De Sisti sarà tra quelli che non molleranno mai, anche quando la stanchezza e il caldo lo portarono ad arrotolare i calzettoni alle caviglie e a strascinare la corsa che si era fatta d’improvviso pesante.

«Il momento più difficile di quella partita fu il momento del 2-1 per loro. Ci eravamo illusi fino al gol di Schnellinger. Poi, in 4 minuti, si fece tutto nero. Dopo il pasticcio in area tra Poletti e Albertosi che consentì a quel falco di Muller di segnare il gol del loro vantaggio pensai che tutto era finito. Ma quella partita ebbe un destino imprevedibile per chiunque. Al nostro errore, seguì il loro e Burgnich, uno che in area avversaria – come del resto anche Schnellinger – si avventurava raramente, rimise le cose in parità. Non ce la facevamo davvero più, soprattutto nel secondo tempo supplementare. Io andavo avanti per inerzia e qualche mi capitò di entrare a contrasto sull’avversario completamente fuori tempo, che non era propriamente il mio stile. Per fortuna non ci siamo fatti male, e non abbiamo fatto male a nessuno».

De Sisti non nasconde ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, fierezza ed emozione nel ricordare quei momenti: «È stata un’esperienza di gruppo. Averla vissuta insieme, con quell’esito altalenante, con quel saliscendi di emozioni, ancora adesso mi mette i brividi addosso. E capire ancora oggi che quei momenti sono diventati – e qui la voce s’incrina per una commozione che entra un po’ a tradimento nel cuore di Picchio – importanti, e indimenticabili non solo per noi, mi rende davvero orgoglioso di quello che abbiamo fatto quella notte».

Nello sfinimento fisico ed emotivo del fine partita, racconta De Sisti, gli azzurri non si resero conto subito della portata dell’impresa. «Poi, poco per volta, negli spogliatoi, passata l’euforia e la stanchezza cominciammo a realizzare, soprattutto quando vennero a dirci che in Italia una nazione intera stava impazzendo per noi. Poi, purtroppo, non riuscimmo a ripeterci in finale contro il Brasile, che oggettivamente era forse troppo forte. Ma noi pagammo lo scotto di quella battaglia ai supplementari e dopo il loro 2-1, quella volta, di sciogliemmo come neve al sole. Mi sono sempre chiesto, però, come abbiano potuto gli stessi tifosi, esaltati dopo la notte delle vittoria sui tedeschi, accoglierci al nostro ritorno come dei reietti, a lanci di pomodori, per non essere riusciti a ripetere l’impresa in finale», ribadisce sconsolato in chiusura Picchio. Che però è troppo intelligente per non conoscere la relatività degli umori collettivi e l’aleatorietà di un gioco che negli anni, e sempre più allontanandosi da quella generazione cresciuta nella memoria del “valore del pezzo di pane”, è diventato sempre meno gioco e sempre più show business.

Ma Picchio ci sa ancora sorridere sopra: «Anni fa mi chiamarono a un piccolo convegno a Isernia in onore di Roberto Rivelino, il campione brasiliano protagonista della finale di Mexico ’70, la cui famiglia era originaria di un paese della provincia molisana. Al momento di parlare della finale col Brasile, ci fu un attimo di imbarazzo. Lo superai con una battuta che però rivelava un fondo di verità: “Ho passato la vita a raccontare la semifinale con la Germania che confesso di non ricordare quasi nulla della finale col Brasile”. Tutti si misero a ridere…».

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