Quando, quasi un mese fa, in occasione dei Premi Sport Civiltà al Teatro Regio, è stato chiamato a ricevere il suo, a Giorgio Castelli è stato tributato l'applauso più lungo e scrosciante della giornata. E sì che al suo fianco c'erano fior di personaggi, da Beppe Bergomi a Federico Buffa. Ma la platea del Regio, quel giorno ha saputo dare valore ad un ritorno.
Già, perché dopo aver smesso di giocare nel 1983, archiviando una carriera stellare, Castelli si era ritirato nell'ombra. Aveva preferito la privacy di una vita familiare nella sua villa sulle prime colline rinunciando ad ogni possibilità di restare nel mondo nello sport. Anche se la sua esperienza sarebbe stata utile in mille modi... Un po' come J.D. Salinger, l'autore del «Giovane Holden» o Bobby Fischer, lo scacchista americano campione del mondo nel '72, invece di viaggiare di conserva sulla scia della fama ha preferito svoltare su una via meno trafficata. Rafforzando così l'alone mitico che si era costruito sul campo negli anni '70 e '80.
Stavolta però ha accettato di raccontarsi un po'. A partire proprio dagli inizi, da quando «avevo 7 anni e giocavo già a baseball (in realtà eccelleva in tanti sport ndr) insieme ad alcuni amici fummo chiamati a disputare un torneo in una base Nato del Vicentino. Il ritrovo era davanti al bar dei genitori di un mio compagno, sul Lungo Parma. Dovevamo partire alle 7, mi presentai due ore prima perché non riuscivo a dormire dalla smania. Finì che mi appisolai davanti alla serranda fino all'ora di partire...»
Una passione che prese poi forma sul campo. Si capì subito che in lui c'era un talento straordinario e così «quando avevo 18 anni partiii assieme a Giulio Montanini per uno stage in Florida. Io da giocatore lui da tecnico. Gli osservatori dei Cincinnati Reds mi videro, mi misero alla prova e mi offrirono lì per lì un contratto. Ma per una serie di motivi, dal militare, alla scuola per geometri che dovevo completare, alla regola appena introdotta dalla Fibs che chi andava nei professionisti non poteva più giocare in Italia né in Nazionale, ho preferito rinunciare».
E conquistare con Parma una interminabile serie di trofei, primo fra tutti l'indimenticabile scudetto del '76, quello mostrato ai tifosi nell'iconica immagine riprodotta qui a fianco.
«Fu la vittoria più bella, quella Germal era straordinaria, con tanta voglia di vincere qualcosa e quel triangolino tricolore di stoffa che avevo in pugno me lo aveva appena consegnato Eddy Orrizzi, il catcher di Rimini, staccandolo dalla sua divisa come cavalleresco omaggio ai nuovi campioni».
Quello del ricevitore è un ruolo particolare.
«Assolutamente sì, e faticoso. Sostanzialmente è il manager in campo. Oltre a dirigere il lanciatore tiene a posto anche tutti i compagni, in base ai dati in battuta dell'avversario. Ci vuole molta personalità. L'indimenticato Mangini mi aveva fatto una caricatura nei panni di von Karajan...».
Peccato si sia staccato dal baseball, a differenza di tanti compagni della Big Green Machine.
«Avevo bisogno di disintossicarmi, e voglia di fare altro. Prima una lunga vacanza a Cuba, poi trovarmi un lavoro, mettere su famiglia, viaggiare. Cose che ho fatto. Adesso mi mantengo in forma con un po' di palestra, e rivedo regolarmente qualche vecchio compagno come Sal Varriale. Mangiamo in trattoria e rivanghiamo i vecchi tempi».
Formidabili quegli anni con i suoi fuoricampo
L'amore di Parma per il baseball è nato grazie a Giorgio Castelli. Negli anni pionieristici andavamo a vederlo perché quello sport così diverso dal calcio suscitava curiosità; poi, dalla Bernazzoli in avanti, perchè potevamo ammirare in battuta un ragazzone con il fisico da guerriero, spot perfetto per il ruolo da ricevitore, che ci regalava valide vincenti e fuoricampo così stratosferici da farci scattare in piedi prima ancora di vedere la pallina superare il muretto.
Formidabili quegli anni dei primi scudetti e dei primi trionfi nella Coppa dei campioni vissuti nel mito di un'icona del nostro baseball che non è mai tramontata nell'immaginario popolare. Dopo di lui sono venuti a Parma anche giocatori da Major League; ma nessuno ha saputo riempire l'Europeo come ha fatto lui. Era un pifferaio di Hamelin che trasformava le sue battute in note capaci di attirarci ammaliati all'Europeo.
Il baseball era Castelli, pur senza nulla togliere agli altri campioni prima della Germal e poi della Parmalat. Gioco di squadra, sì: si vince e si perde in venti. Tuttavia, forse qualche grande trionfo non sarebbe arrivato senza di lui.
Ci ha fatto innamorare del baseball anche quando ha battuto record rimasti ancora oggi nella memoria: il centesimo fuoricampo, realizzato a Grosseto nel 1976, e la millesima valida, ottenuta all'Europeo nel 1982 contro il Nettuno. Molti altri giocatori hanno superato questi traguardi, ma nessuno ha saputo entusiasmarci come lui.
Lo avevano capito anche gli americani, che nel 1967 gli offrirono un contratto nei pro. Rinunciò, ma sarebbe arrivato in Major League, primo italiano. Lo scriviamo convinti di non scrivere un'eresia.
di Andrea Ponticelli
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