Intervista
Roberto Boninsegna
La prima domanda la fa lui: «Come sta il mio amico vescovo? È un grande, don Enrico, e un grande interista». Poi, davanti a un bicchiere di vino rosso, parla a ruota libera, riaprendo vecchi e antichi cassetti della memoria. Compirà ottant’anni lunedì, Roberto Boninsegna detto Bonimba, una delle grandi glorie del calcio italiano. Fuoriclasse in campo e fuori. In campo, per quanto e come segnava. Fuori, per via di un’umanità e di una genuinità che oggi non si trovano più nel mondo del calcio, e non parliamo solo di gente della sua stoffa: un campione che ha lasciato un segno indelebile, tra la metà degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, uno dei più grandi centravanti della storia del calcio italiano.
Testimone della chiacchierata (e complice dell’intervistatore) è un amico di antica data di entrambi, Adalberto Scemma, che prima di diventare un ottimo giornalista da ragazzino ha fatto il centravanti nel Sant’Egidio, la mitica squadra degli «Invincibili» (due anni, dal 1956 al ’58, senza una sconfitta, se non una con la monetina). A quella stagione, indimenticabile, ha dedicato un bellissimo libro, Gli Invincibili di Bonimba. Tutto è nato da lì: l’amicizia, prima ancora della carriera folgorante, dal Cagliari all’Inter, dalla Juve alla Nazionale. Ancora oggi, in un bar del centro di Mantova, gli Invincibili sono sempre insieme. E ci saranno anche lunedì, per brindare a questo magnifico ottantenne.
«Bei ricordi. Tutto è cominciato lì. Più ancora che le due stagioni senza subire una sconfitta, se non con la monetina, ricordo l’amicizia con i ragazzi di quella squadra, ricordo come ci divertivamo all’oratorio».
«Ed è un gran peccato: penso che non sia un caso che oggi ci sono tanti ragazzi sbandati. Ai miei tempi la parrocchia era il punto di ritrovo per tutti: al mattino ognuno andava nella propria scuola, al pomeriggio tutti all’oratorio. Tutti, proprio tutti. Se qualcuno un giorno non si presentava, andavamo a penderlo a casa: “C’è qualcosa che non va?”».
«Al parco del Te non c’erano campi: portavamo noi pali e traverse, e ogni sera li riportavamo a casa, perché una volta che li abbiamo lasciati nel parco ce li hanno fregati. Le partite ufficiali erano all’Anconetta, un campo spelacchiato, che oggi è diventato un parco giochi per bambini».
«C’era qualcuno più dotato di me. Io ero il più piccolo di tutti. Mia madre aveva preso la tubercolosi, mentre era incinta. Stava per morire, poi l’hanno mandata al Forlanini di Roma e ne è venuta fuori. Mi sono sviluppato in ritardo anche per quello».
«Siamo stati fortunati ad avere lui: era un ragazzo un po’ più grande di noi, è stato un grande allenatore. Dentro e fuori dal campo: ci teneva uniti, ogni tanto ci portava a mangiare una pizza in compagnia. Il clima di quell’oratorio, l’amicizia, le partite, le tante ore passate insieme: tutto indimenticabile».
«Certo, se uno “saltava”, gli toccava l’interrogatorio del prete: “Perché non sei venuto?”. “Mah, guardi, veramente…”. “Domenica non giochi, così impari”. Funzionava così. Però poi capitava anche che ci vendicassimo: come quella volta che un nostro amico ha scoperto dove il don teneva il vino per la messa. Gliel’abbiamo fatto sparire. È finita che ci ha confessato tutti, ma il colpevole non è saltato fuori».
«No, era un comunista convinto, ma era contento che andassi all’oratorio per giocare. Un giorno, però, ho tremato: in quegli anni qualche prete diceva che i comunisti mangiavano i bambini. Una sera, torno a casa e lo chiedo a mio padre: “Anche tu mangi i bambini?”. “Ah, ti hanno detto questo? Dimmi chi è stato”. Non gliel’ho detto, sapevo bene che avrebbe potuto finire male».
«Neanche a farlo apposta, pochi giorni dopo suonano al citofono mentre siamo a cena. Rispondo io: era il parroco, venuto per benedire la casa. “Chi è?”, mi chiede mi padre. “Un signore, non so chi sia”, mento io: avevo una gran paura di quello che avrebbe potuto accadere. “Be’, fallo entrare”. Apro la porta e mi nascondo sotto un tavolo. “Ah, ecco – gli fa, con aria di sfida –. È lei che dice a mio figlio che i comunisti mangiano i bambini?”. “No, sarà stato un mio superiore”. “Faccia pure la benedizione, ma poi se ne vada”. Però gli ha fatto benedire la casa».
«Faceva l’operaio alla cartiera Burgo, lavorava dalla mattina alla sera per mantenere la famiglia. Faceva il saldatore, in quegli anni non c’erano le maschere, respirava gas tutto il giorno, teneva un fazzoletto davanti alla bocca: alla sera, quando tornava casa, il fazzoletto era verde. Gli davano mezzo litro di latte al giorno, stop. Era alto, grosso, robusto: è morto di tumore a sessant’anni, poveretto. Comunista e sindacalista: era molto stimato tra i lavoratori, aveva un grande seguito. A me ha dato soprattutto lezioni di dignità, insegnandomi a difendere sempre, fino in fondo, le mie idee».
«Tifosa sfegatata del Mantova, non saltava una partita. Una domenica, quando aspettava me, sarà stata all’ottavo mese, si presenta con il pancione enorme e la maschera non vuole farla entrare: “Vorrà mica farlo qui?”. Non so come, riesce a entrare. Due domeniche dopo, la pancia ancora più grossa. E la maschera ancora più determinata: “Lei non entra”. “Ma come? Sono con la mia amica, che è una levatrice”. Ecco dov’è nata la mia passione per il calcio. È come se avessi cominciato a giocare quella domenica lì, al Martelli».
«Ho pensato a uno scherzo. Mi avvicina alla fine di una partita e mi chiede dove abito. Cosa vuole, ’sto fenomeno?, mi chiedo. “Vorrei farti fare un provino a Milano”. “Abito nelle case popolari di viale Risorgimento, se vuole parlare con mio padre venga una domenica, perché negli altri giorni lavora sempre”. È venuto davvero, non era uno scherzo. Si chiamava Eligio Vecchi, aveva giocato con Meazza».
«Non mi sembrava vero. Sempre tifato per l’Inter, io: c’è una foto storica degli “Invincibili” dove si vede che, sotto la maglietta, ho quella nerazzurra».
«Un mito. I suoi insegnamenti sono stati molto preziosi. Soprattutto su come calciare i rigori».
«Mai prendere la rincorsa dritta: o da una parte o dall’altra, a seconda che si calci di sinistro o di destro. Poi, quando arrivi sulla palla, puoi mirare da una parte o dall’altra».
«Ne ho segnato 19 di fila, senza sbagliare mai. Sarebbero 20, ma l’ultimo me l’ha fregato Michelotti».
«Eh sì, il famoso Roma-Inter del ’72, 2-1 per noi, doppietta mia. Poi l’invasione di campo: ci hanno dato la vittoria a tavolino: e a me hanno cancellato i due gol e mi sono fermato a 19 rigori, il successivo me lo sono fatto parare da Superchi, a Firenze».
«Perché ha fischiato il rigore a due minuti dalla fine. Rigore contestatissimo, ma c’era, ne sono certo. Segno, e tutti vediamo che tanti tifosi sono praticamente in campo. “Alberto, fischia la fine – gli dico – questi entrano”. “Ma no, sono quattro imbecilli”. Dopo pochi secondi ci sono centinaia di ultrà invasati in campo, riusciamo a tornare negli spogliatoi a calci e pugni. Gliel’ho ricordato tante volte, ci abbiamo riso sopra. Ma allora mi ero arrabbiato di brutto».
«Eh già, anche perché allora era più difficile segnare: il portiere si poteva muovere e anche venire avanti, non come adesso che deve stare sulla linea di porta».
«Sì, il Mago non mi “vedeva”. Erano gli anni della Grande Inter, una squadra straordinaria. Ho solo sfiorato l’esordio in A, una volta».
«La volta che Di Giacomo si è rotto un braccio. Herrera mi convoca per la trasferta a Bergamo e mi mette in camera con Suarez. Non le dico la soggezione: ero intimorito, gli davo del lei, respiravo piano per non disturbarlo. Io in camera con un Pallone d’oro: non mi sembrava vero».
«Rientra in camera alle dieci e mezza di sera, io mi ero già messo a letto. Apre una valigetta e comincia a estrarre una bottiglia di vino rosso, un salame, il pane, un coltello. Avevo una gran fame, perché Herrera teneva tutti a stecchetto, imponeva una dieta rigidissima. “Hai fame?”. “No, no”, mento per pudore. “Non fare il furbo, non mi dire che non ti va una fetta di salame”. Mi sono fatto convincere in fretta. E si è rotto il ghiaccio. Che grande personaggio, Luisito».
«No, l’Inter ha chiesto all’arbitro il permesso di fare giocare Di Giacomo anche se aveva un piccolo gesso. Abbiamo perso 1-0: e io ho perso l’occasione di debuttare in A. In novembre mi hanno mandato a Prato, in B».
«Al di là del dispiacere di lasciare l’Inter, avevo vent’anni, non era male giocare in B. “Vai lì, ti fai le ossa”, mi ha detto Allodi. E invece un osso me lo sono rotto».
«Prima partita, a Padova. Un difensore fa una brutta entrata, mi butta contro la rete, mi spacco il quinto metatarso. Due mesi di gesso, uno di recupero».
«Eh già. Ho giocato poco, segnato un solo gol, siamo retrocessi. Per me è finita, ho pensato».
«Mi spediscono a Potenza, sempre in B. Non avevo il coraggio di dirlo a mia madre, che si era raccomandata tante volte, “di’ a Allodi che ti mandi vicino a casa”. Quando le dico di Potenza, esplode: “Vado io a parlare con quel cretino”. Riesco a dissuaderla: “Per carità, se lo fai mi stronchi la carriera”».
«Bene in campo – 32 presenze e 9 gol – molto meno fuori. A un certo punto smettono di pagarmi lo stipendio. Prendevo centomila lire al mese, mio padre ne guadagnava sessantamila. Telefono a casa per chiedere aiuto, perché non sapevo come tirare avanti, avevo solo le poche lire che mi davano come militare. Mio padre non poteva certo mandarmi dei soldi, bastavano appena per la famiglia. “Torna a Mantova, vieni a lavorare nella cartiera”. Neanche morto. Chiamo Allodi: “Sono dell’Inter, mi paghi lei”. “Non è possibile, fatti dare delle cambiali”. Ho accumulato sei cambiali da centomila, mai incassato un centesimo».
«Con i primi soldi che ho guadagnato ho comprato un motorino per mio padre, perché potesse essere più comodo nel tragitto casa-lavoro e riuscisse a mangiare un piatto caldo nella pausa. Poi ho preso una merceria per mia madre. Mai pensato alle auto di lusso. Quando ero a Cagliari giravo in Seicento».
«Debutto in A, gioco ala sinistra, perché c’è Combin centravanti. Stagione non male, segno 5 gol, rovinata dalla retrocessione. Finisce che l’Inter mi riprende ma mi cede al Cagliari a titolo definitivo. “Hanno bisogno di un attaccante”, mi spiega Allodi. E adesso, chi lo dice all’Elsa?, mi dico io. Erano i tempi in cui si diceva, a mo’ di minaccia, “ti sbatto in Sardegna”. E invece sono stati tre anni splendidi».
«Riva non lo conoscevo proprio, appena arrivato mi dicono che nessuno vuole dormire con lui. Vado io, ho pensato: con il mio carattere non avevo paura di nessuno, figurarsi se mi metteva soggezione andare in camera con lui. Diventiamo subito amici, due fratelli. Il problema è che non sapeva guidare, i primi mesi non avevo l’auto, andavo sempre con lui. Un pericolo costante, andava in giro con una Giulia Quadrifoglio truccata, faceva un casino impressionante. Ma Riva era Riva: e poteva permettersi di fare qualsiasi cosa».
«Un grande campione. Scopigno mi trasforma in centravanti. Giochiamo con due punte: io sul centro-destra, Riva sul centro-sinistra. Il primo anno arriviamo noni, il secondo sesti, il terzo secondi».
«Ero orgoglioso che il grande Brera mi avesse dato un soprannome: io Bonimba, Riva Rombo di Tuono. Era un onore. Anche se, sulle prime, c’ero rimasto male: perché Bonimba è la sintesi di Boninsegna e Bagonghi, il nano del circo. Diceva che avevo la testa grossa e correvo con il culo basso. Un giorno lo incrocio in uno stadio e lo guardo dall’alto in basso, perché era una spanna più basso di me: ma guarda un po’, penso tra me e me, questo barilotto che dice che gli ricordo Bagonghi. Il giorno dopo scrive sul “Giorno”, più o meno: “È inutile che Boninsegna mi guardi dall’alto in basso, per me resterà sempre Bonimba da Bagonghi, il nano. Però un nano gigante”».
«Grande allenatore, di sicuro il più intelligente tra tutti quelli che ho avuto. E quanti bei ricordi, anche fuori dal campo».
«Per colpa di Riva mi ero messo a fumare anch’io: dopo tanto fumo passivo, una Muratti Ambassador dietro l’altra, ho cominciato anch’io. Una volta, in ritiro a Asiago, la prima sera ci diamo appuntamento in una camera io, Riva, Albertosi, Cera, Niccolai. Giochiamo a carte e fumiamo come ciminiere. Verso mezzanotte si sente bussare. “Siete così coglioni che il fumo esce da sotto la porta”, dice Scopigno».
«No. Entra in camera, c’è una nebbia incredibile, tira fuori il suo pacchetto: “Disturbo se fumo?” Tutti a ridere. “Cinque minuti, poi a letto tutti”. Sono cose che non dimentichi. Come quella volta in cui mi ha beccato dopo una fuga per andare a una festa».
«Sì, una domenica sera, dopo la partita, sono scappato. Era il periodo di Carnevale, avevo promesso a Ilde, allora mia fidanzata – adesso siamo a 55 anni di matrimonio – di portarla a Venezia. Sfrutto i due giorni di libertà, prendo un aereo e vado. Torno il giorno del raduno, senza aver chiuso occhio neanche un minuto: prendo un volo a Venezia alle 6 del mattino e alle 8 sono a Cagliari. Arrivo al campo di allenamento in smoking. Chi trovo all’ingresso? Scopigno. “Da dove vieni?”. “Mister, ero a una festa. Sa, era Carnevale, ero con la mia fidanzata”. “Che coglione che sei, almeno togliti i coriandoli dai capelli. Su, vatti a cambiare che andiamo in campo».
«Finita la terza stagione a Cagliari, Scopigno mi dice: “Ho bisogno di parlarti. Qui come sai ci sono pochi soldi, uno dei due deve andare via. Riva non vuole muoversi”. “Alt – lo fermo –. Ho capito. Ma io vado solo all’Inter, sennò non mi muovo”.
«Proprio così. Sono andato in nerazzurro in cambio di Domenghini, Gori, Poli e 250 milioni».
«Anni meravigliosi. Forse neanche Meazza ha avuto una media così alta».
«Un sogno. Mazzola saltava l'uomo e ti metteva in porta. Suarez era la mente. Corso pennellava. Anche se la Grande Inter stava già passando, quando sono arrivato io, nel ’69: erano già andati via Guarneri e Picchi, poi è stato ceduto Suarez, poi Corso, poi Burgnich. Faceva tutto Mazzola, nel bene e nel male».
«Un buon preparatore. Per il resto, lasciamo stare».
«Il più bel gol della mia carriera. Corso lancia Facchetti sulla fascia sinistra, Giacinto crossa. Io, al centro dell’area, mi trovo in una posizione scomoda, decido di provare una rovesciata: viene fuori un gol capolavoro. Indimenticabile».
«Ho vinto la classifica due volte, un titolo me l’ha rubato Chinaglia. Ma non era colpa sua».
«Del direttore della “Gazzetta dello Sport”, Gualtiero Zanetti. Stagione 1973-’74, quello del primo titolo della Lazio. 24 gol io 24 Chinaglia: però io avevo giocato una partita in meno, quindi avrei vinto io, per il miglior rapporto gol/presenze. Ma il 24° gol me l’ha cancellato Carlo Sassi, il re della moviola della “Domenica Sportiva”. Un gol su punizione, con la palla nell’angolino: Sassi aveva sostenuto che un giocatore della barriera aveva sfiorato la palla, ma non era vero. Impossibile: perché la palla aveva un effetto “a rientrare”, se fosse stata toccata sarebbe uscita».
«Era stato lui a architettare quella fregatura, me l’ha confessato tempo dopo Sassi. Zanetti aveva da poco aperto la redazione romana: ha chiamato Sassi e gli ha detto “noi dobbiamo vendere la ‘rosea’ a Roma, la Lazio ha vinto lo scudetto e Chinaglia deve vincere la classifica dei cannonieri”. È andata così, mi brucia ancora. E mi son perso anche la copertina dell’Almanacco del calcio Panini: era già pronta, con la mia foto, l’hanno sostituita con quella di Chinaglia».
«È il mio grande rammarico, aver giocato poco in maglia azzurra. Non so perché, ma Valcareggi non mi vedeva proprio. La prima delusione, nel ’68: ero titolare nel Cagliari, ma non mi ha convocato per gli Europei».
«Mai capito. Ha trovato la scusa della maxi squalifica, ma non reggeva, perché l’ho scontata ben prima degli Europei».
Undici giornate di stop: un altro suo record.
«Siamo primi in classifica, giochiamo a Varese, è il 31 dicembre 1967. Il portiere esce, io lo dribblo e alzo la palla: arriva un difensore che con il pugno devia in calcio d’angolo. Il guardalinee, che ha visto benissimo, indica la bandierina. Non ci ho visto più: in quattro o cinque saltiamo addosso all’arbitro, Bernardis di Trieste, e gliene diciamo di tutti i colori. Io sono il primo: e pago per tutti. Undici giornate, ridotte poi a nove».
«Ma non avrei dovuto esserci. Valcareggi mi convoca per due amichevoli organizzate per ambientarci intorno al Capodanno del ’69. Mazzola trova una scusa e rifiuta di partire, chiamano me. Non gioco neanche un minuto. Decido di affrontare il cittì: “Possibile che mi porti in Messico e non mi faccia mai entrare? Sono titolare nell’Inter, io”. “Cose che capitano”, e se ne va».
«Vengo escluso e ripescato in extremis, perché Anastasi si infortuna. Mi telefonano alle 3 di notte: “Devi partire per il Messico. Vai al Consolato a Milano”. Metto giù il telefono e mi addormento di nuovo. Pensavo di essermi sognato quella telefonata, giuro. “Ha chiamato qualcuno?”, chiedo poi a mia moglie. “Ma non lo so, lasciami dormire”. Alle 6 squilla di nuovo il telefono. È il segretario della Figc: “Boninsegna, dov’è finito?”. Capisco che non era un sogno, mi precipito al Consolato. E trovo Pierino Prati. Neanche lui era stato convocato. “Che cacchio fai qui?”. “No, che cacchio fai tu?”. “Devo andare in Messico”. “Anch’io”. Ma c’era solo un infortunato, Anastasi. Così, partiamo in 23, sapendo che uno avrebbe dovuto tornare indietro».
«Facciamo tutti il toto escluso. Per l’attacco il cittì aveva previsto Riva, Gori, Anastasi e Mazzola. Senza Anastasi e con me e Prati ce n’è uno di troppo. Risolve il caso Mazzola: mai stato una punta, lui: al massimo un trequartista. Ma avrebbe accettato di fare anche il portiere, pur di andare in Messico. “Consideratemi centrocampista”, taglia corto. E viene rispedito in Italia Lodetti».
«Sì, le prime tre gare mi servono per entrare in forma. Con il Messico gioco benissimo. In semifinale con la Germania segno il gol dell’1-0 e poi l’assist per Rivera per il leggendario gol del 4-3, nel secondo supplementare. Brera mi dà otto e mezzo in pagella».
«Certo. Come pure essere stato giudicato secondo nella classifica per ruoli. Secondo dietro Gerd Muller, che ha segnato 10 gol. Sono anche uno dei tre soli calciatori italiani che ai Mondiali ha segnato in semifinale e in finale, con Colaussi e Paolo Rossi».
«Certo, se si lascia un Pallone d’oro in panchina fino a sei minuti dalla fine… Anche Pelé ha detto che non credeva ai suoi occhi. Rivera è uno serio, è entrato senza fiatare. Al suo posto, io mi sarei rifiutato. Il Brasile giocava con Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino insieme. Perché mai noi non avremmo potuto schierare Mazzola, Rivera, il sottoscritto, De Sisti e Riva? Comunque, io ho segnato il gol dell’1-1 e a venti minuti dalla fine, nonostante i 120 minuti tiratissimi con la Germania in semifinale, stavamo ancora pareggiando. E se quel tiro di Domingo non fosse finito sulla schiena di un brasiliano…».
«Contro Haiti Chinaglia viene sostituito e manda platealmente a quel paese Valcareggi. Nello spogliatoio ne succedono di tutti i colori, Chinaglia viene cacciato, torna alle 3 di notte, ubriaco. Nella partita successiva, è di nuovo titolare. E sa perché? Il figlio del Presidente Leone, laziale, è arrivato in ritiro con Maestrelli su un aereo privato… Io gioco solo uno spezzone dell’ultima partita, entro quando perdiamo 2-0 con la Polonia. Mah».
«Ero in vacanza a Forte dei Marmi con Ilde, a tavola in un ristorante. Mi chiamano al telefono, è il presidente Fraizzoli. “Ciao Bobo, come stai?”. “Bene, e lei? Ha bisogno?”. “La società ha deciso di darti alla Juventus”. “Non mi risulta che sopra di lei ci sia qualcuno. È lei il presidente”. “Eh, sai com’è”, balbetta. E io, a muso duro: “Alla Juve ci andrà lei”. “Ma c’è il vincolo. O vai alla Juve o smetti di giocare”. “Allora smetto”».
«Ovvio, ho dovuto accettare. E mi è andata bene: in tre anni, due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia».
«C’era lo zampino di Mazzola, esattamente come quando mi hanno preso dal Cagliari. Avevamo chiacchierato in una trasferta della Nazionale: “Verresti all’Inter?”. “A nuoto, lo sai: sono sempre stato interista”. Poco tempo dopo ero in nerazzurro».
«Penso si sia legato al dito una volta che mi sono permesso di dire che all’Inter mancava il regista. Andato via Suarez, lo voleva fare lui: ma non era in grado. Impossibile, uno come lui che amava dribblare, portare palla. Gli ho detto che, secondo me, lui è stato uno dei tre più grandi trequartisti di sempre, con Cruijff e Overath – ne sono assolutamente convinto –, ma che non sarebbe mai stato un regista. E mi ha fatto fuori. A ripensarci, devo ringraziarlo due volte: per i miei anni splendidi all’Inter e per quello che ho vinto alla Juve».
«Come no. Una volta, salto una partita a Bergamo per una colica renale, finisce 0-0. Il lunedì suona il telefono alle 7. “Sono l’Avvocato. Come sta?”. “Così così”. “La Juve ha fatto 0-0”. “Lo so”. “La Juve ha bisogno di lei, domenica deve essere in campo”. “Faro l’impossibile, promesso”. La domenica dopo gioco, segno e vinciamo».
«A fine allenamento, ho sempre fatto una mezz’ora di supplemento per allenare tiri al volo e colpi di testa: è fondamentale, per un attaccante. Mettevo un compagno a sinistra e uno a destra, un cross dietro l’altro. Un giorno, c’è Giovanni che mi guarda: e quando, ormai stanco, arrivo male su una palla e tiro alto, mi dice “Bobo, sai perché hai sbagliato?”. A me iniziano a girare le scatole. “Non ti sei piegato bene, devi alzare di più la gamba”. “Giovanni, di cosa parli? – sbotto io –. Quanti gol hai segnato, in carriera?”. I giornalisti che erano in campo per seguire l’allenamento, tutti a ridere».
«Lui abbozza, ma quando vado a ritirare lo stipendio trovo una multa per “offese all’allenatore”. Due-trecentomila lire, o giù di lì. Ma con la busta c’è anche un regalino per mia moglie, preso con i soldi che mi hanno trattenuto».
«Ne ho preso tante e ne ho dato. (Indica la caviglia destra, grande come un melone, impressionante). Dovrei fare una protesi, ma non ci penso nemmeno. Essendo mancino, il piede destro era quello d’appoggio e quello che prendeva le botte».
«Tanti. Con Morini ci siamo picchiati tante volte, Galdiolo era pesante, Spanio usava le mani. Ma anche tanti sconosciuti. Se l’allenatore li incaricava di marcarmi, diventavano più cattivi. Rocco, nello spogliatoio, diceva “chi marca la bestia?”. La bestia ero io, modestamente».
«Rosato. Grandissimo marcatore, forse il migliore in assoluto. Ogni volta che faceva fallo ti chiedeva scusa. E io mi arrabbiavo: “Chiedi meno scusa e gioca più la palla”.
«Riva il più grande, Bettega il più intelligente. Anche con Bobo Gori mi sono trovato bene. Con Bettega, l’intesa era perfetta: lui era più cattivo di me, molto bravo di testa, mi creava spazi, tornava più di me. Ci completavamo l’un l’altro. Ancora oggi, se chiedi a un tifoso della Juve qual è la miglior coppia d’attacco, ti dice Boninsegna-Bettega, anche se poi hanno visto giocare anche gente come Paolo Rossi».
Fine
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