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L'evento

Buffon, cadere e rialzarsi: bagno di folla per il portiere ex Parma e campione del mondo

Buffon, cadere e rialzarsi

di Sandro Piovani

23 Novembre 2024, 13:48

«Buffon: cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi»: è il titolo dell'autobiografia (Mondadori editore) del portiere ex Parma e Juve e campione del Mondo. Volume uscito il 19 novembre scorso, in onore del suo esordio in serie A (19 novembre 1995, Parma-Milan 0-0). E ieri c'è stata la presentazione ad Albinea, all'interno della manifestazione «Tu sì che vali», dove i giovani talenti sportivi del comune reggiano vengono premiati un campione dello sport, in questo caso appunto Gigi Buffon.
Che è stato intervistato da Andrea Del Monte che, saltando da una pagina all'altra del libro, ha affrontato molti temi della carriera dell'ex crociato. Tralasciando (sarà stata la location?) il debutto in serie A e le tante Coppe italiane ed europee vinte dal grande Gigi. Che sul Parma è stato interrogato solo per quanto concerne la parte finale della carriera, ovvero la scelta di giocare in serie B per cercare di riportare i crociati in A. «Alla fine le decisioni sono un modo per definire se stessi - ha spiegato Gigi Buffon parlando di questa scelta -. Bisogna ridare qualcosa a chi ti ha permesso di fare un certo tipo di strada e diventare qualcuno».
Il portierone ex Parma racconta così quella decisione: «Ricordo che avevo l'opportunità di andare al Porto o all'Olympiakos o fare il secondo al Barcellona, tutte squadre che avrebbero giocato anche la Champions. Il Parma era appena andato in B. Il presidente Krause mi volle conoscere proprio durante Juve-Parma, la stagione si stava chiudendo e il Parma era vicino alla B. E mi chiese di tornare a Parma. Lo guardai esterreffato ma gli dissi di no. Ho già dato in B, pensai. Però mi mise il tarlo in testa. E ho cominciato a pensarci. Ero molto indeciso. In estate, incontrando il mio procuratore (Silvano Martina ndr), gli dissi che volevo tornare a Parma. Nel tragitto all'altezza di Parma la radio passò un pezzo di Jovanotti, «Bella», che io ascoltavo quando andavo ad allenarmi. Il procuratore mi disse che ero un uomo incredibile».
Poi il titolo di questa autobiografia. Dove cadere e rialzarsi viene ripetuto due volte. «Cadere e rialzarsi è la metafora migliore, quella che mi rappresenta meglio: si può usare nella vita di tutti i giorni e nello sport. E la ripetizione dà una sensazione di movimento».
Un campione che ha debuttato non ancora diciottenne e ha chiuso la sua carriera ben oltre i quarant'anni. Tra rinunce e sacrifici. Anche se l'idea comune del campione è quella di una persona estremamente fortunata.
«Un cliché di una persona che non deve chiedere mai, che è fortunato, che sta bene ma non è sempre così - ammette Buffon -. Devi rinunciare a qualcosa di grande e te ne accorgi solo alla fine della carriera».
Ed anche i campioni soffrono di depressione: Buffon ha affrontato anche questo tema, parlando della sua esperienza personale. «Sono stato colpito da questa patologia negli anni in cui il telefonino iniziava ad avere telecamera e video. E allora smisi di uscire, chiuso in casa e chiuso in me stesso».
In questa chiacchierata Buffon non poteva non parlare della sua famiglia «polisportiva». «Ogni persona è a se stante e si comporta in maniera diversa. La mia famiglia è stata una polisportiva: dai genitori (nazionali di atletica) alle mie sorelle (campionesse di pallavolo». L'intuizione di mio padre è arrivata nel vedermi giocare in porta. E mi convinsi, a 12 anni, con i Mondiali in Italia e io tifavo il Camerun, oltre all'Italia. C'era N'Kono che era istrionico, un grande. E da lì inizia a fare il portiere».
Un portiere, va detto, sempre in evoluzione. Come lo è una qualsiasi persona. Così è un campione come lui. «Tanti tipi di portiere, a seconda dei tanti anni di professione. Son partito sfrontato ed eccessivo a 17 anni, ma è stata la mia fortuna perché mi ha aiutato ad impormi in quel periodo. Poi nel tempo la grande rivoluzione che ho avuto è stato quando sono stato nominato capitano dell'Italia e della Juventus: il mio unico pensiero erano i miei compagni, l'allenatore, la squadra e i tifosi. Ero passato in quarta o quinta fila e mi ha fatto migliorare come persona e come sportivo».
Ed ora la responsabilità di guidare la Nazionale nel ruolo di capo delegazione. «Rappresentare la Federazione quando manca il presidente: significa prendere certe decisioni, è una bella responsabilità. E inoltre sono diventato direttore sportivo e con questa nuova mansione ho la capacità e la possibilità di relazionarmi con tutti gli azzurri, dall'Under 15 alla Nazionale maggiore. E capita di confrontarsi con l'allenatore».
Giusto chiedersi se l'allenatore possa essere la prossima professione di Buffon allora. «Non studio da tecnico ma ho studiato i miei allenatori, grandi davvero. Allenatori con caratteristiche diverse: a seconda del momento storico che sta vivendo una squadra, esiste l'allenatore più adatto. Un Allegri e un Conte possono fare male in una squadra e Ancelotti o Capello fare bene o viceversa. Non si tratta tanto di sergenti o psicologi, si tratta di momenti storici».
E a proposito di momenti storici, ecco che Buffon, da campione del Mondo in carica, decise di scendere in serie B con la Juventus. «Era per dimostrare che si può giocare per tanti motivi: obbiettivi personali, i soldi, la fama o la gloria. Oppure giocare per dimostrare che puoi rinunciare a qualcosa per far sentire i tifosi e la gente orgogliosi di me. E questo mi ha aiutato ad essere così longevo».
Nel libro si parla di molto altro, c'è molto Parma, c'è molto Gigi «Superman» Buffon. E c'è tutta la storia di una carriera unica, raccontata senza remore, nei pochi momenti bui e nelle tante gioie. Applausi.

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