Anna Maria Ferrari
Ha appena saputo che il suo amico e coetaneo Buzz Aldrin, astronauta del primo allunaggio, a 85 anni vive una nuova giovinezza: «Pensi, ha divorziato anche dalla terza moglie. Un matto: ma che vuol fare?». Sorride Tito Stagno, il telecronista della Rai che ha accompagnato pranzi e cene di generazioni di italiani, voce e volto della nostra infanzia, aria di famiglia e rivoli di vita e di adrenalina. Di lui, Massimo Gramellini ha scritto sulla Stampa: «Per una volta occupiamoci di qualcosa di bello: Tito Stagno. L’entusiasmo di un ragazzino. Mi correggo: l’entusiasmo che una volta era considerato dei ragazzini, mentre oggi attraversa le generazioni distinguendo i vivi dai morti dentro». Una vita in primo piano, decenni sulla giostra della storia, eppure Tito Stagno ha passato periodi di depressione, soffocato da quell’ansia che mette il cappio alla voglia di vivere. Lo racconterà a Parma, il 12 marzo alle 17, nella biblioteca monumentale di San Giovanni, invitato da Itaca, l’associazione che silenziosamente, a fatti e non parole, si prende cura delle persone che soffrono nell’anima. Parlerà di depressione, senza veli: «Sì, mi ha invitato Giorgio Orlandini, presidente di Itaca. Un amico. Mi ha invitato ed è ricominciata l’ansia. Bel regalo mi ha fatto».
Ha seguito due presidenti della Repubblica, Segni e Saragat, e due papi, Giovanni XXIII e Paolo VI. Ha condotto i tg della Rai e la Domenica sportiva. E’ sua la telecronaca del primo allunaggio. In una storia costellata di successi, cosa c’entra la depressione?
Più che depresso, sono ansioso. Un’ansia generalizzata, senza un motivo particolare. Per qualsiasi cosa, un appuntamento ad esempio: arrivo sempre con 5 minuti di anticipo. E aspetto. Ansia che talvolta può degenerare in depressione per ragioni di lavoro. Seguivo il presidente della Repubblica: si partiva con centinaia di metri di pellicola da sviluppare, una squadra di 30 o 40 e persone, montatori, elettricisti, operatori. Se il primo incontro del presidente era alle 10, noi iniziavamo alle 7. E si andava avanti fino alla tavolata d’onore e all’ultimo tg di mezzanotte. La nostra cena? Era un incontro sul lavoro del giorno dopo. Dormivi due ore. E lo stress era alle stelle.
La prima caduta nel male oscuro.
Nel ’67, Stati Uniti, Los Angeles: stavo in un meraviglioso albergo, lo Sheraton, dove hanno girato Pretty Woman, a Beverly Hills, il quartiere più elegante della città. Stavo facendo un’inchiesta sui nostri immigrati in California, sulla fuga di cervelli: l’eccellenza italiana. Avevo solo una settimana: per stringere i tempi, fissavo incontri anche alle due notte. Poi tornavo in albergo alle 3 del mattino con 50 scatole di pellicole girate, facevo il testo scritto da sincronizzare con le riprese. In quella settimana non ho mai sollevato le lenzuola per andare a letto. Dall’ansia sono passato alla depressione.
Lorenzo Jovanotti nel suo libro Quarantology, bilancio dei primi 40 anni, ha scritto che il primo ricordo televisivo rimane la telecronaca di Tito Stagno dello sbarco sulla luna, ma che purtroppo «i tre astronauti sono vecchi e Tito Stagno è morto». Lei è vivo e vegeto. Come l’ha presa?
E’ andata così. Jovanotti scrive il libro e va a presentarlo a Walter Veltroni, allora sindaco di Roma. Veltroni lo sfoglia: «Ma Tito Stagno è vivo». Il papà di Veltroni è stato il mio primo direttore, è morto giovanissimo di leucemia fulminante. Io ho tenuto in braccio Walter quando aveva un anno, insomma l’ho visto crescere. Allora Walter dà a Jovanotti il mio numero di casa. Lui chiama subito, risponde mia moglie: «Guardi, signora, non so come dirglielo». «Mi dica», già Edda pensava al peggio. «Ho scritto che suo marito è morto». «Guardi, è qui sotto che fa jogging». Stavo facendo il mio giro mattutino attorno all’isolato. «Allora richiamerò più tardi». E infatti più tardi mi chiama. «Sono Lorenzo». «Parla con Lazzaro, mi dica». Poi mi ha mandato subito una bottiglia di Dom Perignon. Siamo diventati amici.
Nato in Sardegna nel ’30, primo di otto fratelli. Infanzia e adolescenza con la valigia in mano per i trasferimenti di lavoro del padre. A sei anni arriva a Parma, poi il trasloco a Pola, all’inizio della guerra. Il rischio delle foibe, l’angoscia.
Mio padre lavorava in Confindustria. Dalla Sardegna arrivò a Parma nel ’36, rimanemmo fino al ’39. Sono andato a scuola all’Angelo Mazza, poi ho fatto l’esame della quarta saltando la quinta, per passare alla prima ginnasio. Pensi la severità di allora: vado bene in tutte le materie, però non so disegnare. Rimandato in disegno: ho passato l’estate con le matite in mano. All’esame ho fatto una caraffa che sembrava non so cosa, ma una maestra si è impietosita. A Parma siamo stati benissimo, abitavamo nella casa di Pietro Barilla, in via Emilia est, dov’era anche la fabbrica. Nel ’39 ce ne siamo andati a Pola, purtroppo abbiamo fatto tutta la guerra, compresi i bombardamenti, con il pericolo delle foibe. Mio padre venne catturato dai titini: per fortuna sono arrivati gli inglesi e l’hanno liberato.
Il primo film a 13 anni. Un segno del futuro?
Ero a Pola, mi hanno scelto perché ero carino, nuotavo e picchiavo molto bene. Nel provino mi hanno fatto fare la lotta con alcuni ragazzi. E’ andata. Il liceo l’ho poi finito in Sardegna, dopo un viaggio drammatico per arrivare sull’isola. Da solo, quindici giorni, attraversando l’Italia distrutta. Dopo la maturità classica, mi sono iscritto a Medicina e intanto lavoravo per Radio Cagliari, una grande scuola.
Dalla radio alla televisione: la scelta della vita?
No, il caso. A Radio Cagliari servivano voci maschili. Il direttore si ricordò di quel ragazzino che aveva presentato uno spettacolo di studenti al Teatro Massimo. Disse: «Ha una voce buona, nessun accento sardo». Dal ‘50, per tre anni, sono a Radio Cagliari. Poi, nel ’53, il primo concorso nazionale per entrare il Rai. Non mi interessava, mi stavo laureando in Medicina. I miei amici della Radio spedirono la domanda per me. Fui convocato a Roma, era maggio, ricordo quel giorno: c’era la fila di concorrenti dalla Rai di via Asiago fino al Lungotevere. Vinsi io, ma non definitivamente. Ci fu la finalissima a Milano. Tra i concorrenti, anche Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo.
Come li ricorda?
Furio Colombo oggi è emaciato: allora, grassissimo. E Umberto Eco, oggi ben piantato, era uno stuzzicadenti. Andò a Torino per laurearsi durante il corso: ovviamente tornò con 110 e lode.
Ha conosciuto Kennedy: il suo ricordo?
L’ho seguito quando venne in Italia. Prima a Roma, poi a Napoli. Era con il presidente Segni, l’aspettava l’aereo per gli Stati Uniti all’aeroporto di Capodochino. A Napoli salì su un’auto scoperta. Segni era già anziano, aveva mal di gola, al collo una sciarpa bianca. Kennedy era in giacca. Decine di migliaia di napoletani inseguivano l'auto: li chiamavo i maratoneti dell’applauso. A un certo punto la bloccarono: Kennedy si alzò in piedi, li guardava uno a uno. Alzava il braccio e li salutava. Un grande tribuno.
Il papa a cui è stato più vicino, Giovanni XXIII.
Lo incontrai la prima volta per un messaggio di Natale ad un gruppo di bambini. Avevo appena iniziato a occuparmi del Vaticano, allora non distinguevo un frate cappuccino da un cardinale. A un certo punto rimase solo con me e l’operatore. Aveva una gran voglia di chiacchierare, mi chiese come mi chiamavo, se ero sposato e avevo bambini. Gli dissi che mia moglie era incinta. Mi disse: «Se avrai una bambina, pensa di chiamarla Brigida come la santa che ha fatto molto per riportare i papi a Roma». Nacque una bambina e io la chiamai Brigida. Quando andai in Comune per denunciare la nascita, era già quasi l’una e gli uffici stavano per chiudere. Mi presentai allo sportello, c’era un’impiegata di mezza età, una romanaccia. «Allora, che urgenza c’è?». «Devo registrare mia figlia». «Il nome?». «Brigida». Mi guardò: «Ma che v’ha fatto de male questa creatura?». La seconda figlia l’ho chiamata Caterina, sempre per via di papa Giovanni. In piazza della Conciliazione c’è la statua di Santa Caterina. Come Santa Brigida, aveva fatto molto per riportare i papi a Roma.
Edda, la moglie parmigiana: l’amore della vita.
L’ho conosciuta in Sardegna nel ’56, avevo già fatto le Olimpiadi invernali a Cortina. Quell’estate stavo al mare nelle Marche, ospite di una famiglia che voleva farmi sposare sua figlia. Aveva 17 anni, era alta due metri. Mi teneva per mano, era innamorata: io mi vergognavo perfino a camminare al suo fianco. Finché, a un certo punto, m’inventai che dovevo tornare a Roma per lavoro. Scappai in Sardegna. Al mare, in spiaggia, mio fratello mi presentò queste due ragazze parmigiane, Edda e la sorellina più piccola: «Guarda che con queste qua non c’è niente fare», tagliò corto. Gli dissi: «Lascia giudicare a me».
Ha avuto ragione lei.
Poi incontrai il papà e la mamma, giovanissima e bellissima, americana, di 10 anni meno del marito. Lui era in Sardegna temporaneamente per lavoro: un agronomo, bravissimo. Finì la vacanza, tornai a Roma. Un anno dopo, il papà mi scrisse: «Guarda che a Parma c’è un’importante manifestazione di meccanica agricola, potresti farla seguire dalla Rai?». Andai dal mio capo, gli dissi della manifestazione. Alzò lo sguardo dalla scrivania: «Come si chiama?». Aveva capito tutto. Con Edda ho cominciato così: portando tutta la famiglia a ballare al Poggio Diana di Salso per la festa della mamma. Poi, la mattina della partenza per Roma, ero in stazione a aspettare il treno: «Se davvero le interesso, viene a salutarmi». Non feci in tempo a pensarlo, eccola arrivare in bici. L’aria confusa e intimidita. Le dissi: «Ti scriverò e tornerò presto a Parma». In effetti tornai prestissimo: con mia sorella Costanza, che era nata a Parma, ma non l’aveva mai vista. Prima di partire, il padre mi disse: «Allora, lei ha già 28 anni, quando pensa di prendere una bella romana?». Lo guardai: «Io voglio sua figlia». Era allibito: «Non ne parliamo neanche, è troppo giovane». Gli dissi: «Parla lei?». Aveva conosciuto sua moglie e se l’era sposata quando lei aveva 16 anni. Figlia di immigrati negli Stati Uniti, tornati in Italia per un breve periodo. Si innamorarono, ma lei doveva ripartire: in quei tempi, con la guerra alle porte, non tornavi più. Si sposarono. Come me e Edda: non aspettammo granché.
Come ha iniziato a occuparsi di viaggi spaziali?
Per caso. Ero al giornale radio a trovare un collega a Roma, sentii le telescriventi che squillavano come quando ci sono notizie importanti. Guardai: l’Unione Sovietica aveva lanciato nello spazio il primo satellite artificiale. Si chiamava Sputnik. Io non ne sapevo niente, nessuno sapeva niente dei satelliti artificiali. Ma il giorno prima, mentre ero dal medico o dal dottore, avevo letto un articoletto sul tema. Insomma, non ero a zero. Poi ci furono Gagarin, l’Apollo: io facevo tutto dallo studio di Roma. In diretta. A un certo punto si apriva l’immagine e tu dovevi capire al volo cosa fosse. Anche in queste trasmissioni in diretta va ricercata la causa della mia ansia.
E il famoso battibecco con Ruggero Orlando sull’allunaggio?
La telecronaca era stata facilissima, tutto liscio. Però ci sono stati 12 minuti importanti, la discesa sulla luna: dall’orbita lunare al mare della luna. 12 minuti e prima che finissero, due secondi prima, ti dicono che le immagini non ci sono più. E allora che fai? Ruggero Orlando, che è un commentatore, è stato zitto. Ma il telecronista deve comunque parlare. Intanto conoscevo bene le macchine e gli uomini, ero stato a Houston a vedere le prove simulate. Tu cominci e dici che gli uomini sono in piedi, davanti ai loro quadri di comando, spie luminose. Si muovono in uno spazio grande come la cabina di un ascensore. Neil sta scendendo verso il mare della tranquillità. Ogni tanto mi arrivava un messaggio sintetico tra Amstrong e il centro di controllo. Ho fatto mille cose più difficili, ma la gente mi ricorda per quello.
Racconterà questa storia al pubblico di Parma?
Racconterò le storie di persone e personaggi che ho conosciuto. E racconterò anche la mia ansia, attraverso di loro. Parma: ogni volta mi sorprende, penso che è una città accogliente. Coccola i suoi figli. Tito Stagno? «Il marito della nostra concittadina Edda». Ho molti amici, sento che mi vogliono bene. L’amore fa bene alla depressione. Quando arriverò a Parma, l’ansia scomparirà.
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