L'ultima volta che l'ho visto camminava già a fatica, indossava una larga tunica da guru, ostentando la barba bianca: quella dei saggi. Sentiva, già malato, la morte alle calcagna, ma, laicamente, non dava troppo peso nemmeno a lei: «Cosa c'è dopo? Nulla, fortunatamente». Ha seppellito con una risata – a costo di finire crocifisso in sala mensa – generazioni di mega direttori galattici, duca conti e Dott. Ing. Lup. Mann. E ora che è toccato a lui, all'ex impiegato dell'Italsider, perdente di (straordinario) successo, andarsene, piangono tutti, ma tutti davvero: padroni e travet, grand'ufficiali, contesse Viendalmare e servili colletti bianchi costretti a passare le loro grigie giornate in ginocchio sui ceci. Perché sì, lui, l'aveva già capito da un pezzo: «Siamo tutti dei Fantozzi in questo momento di merda». Era un genio, che piaccia o no, Paolo Villaggio: il goffo ma a suo modo rivoluzionario santo patrono dell'italiano medio, la maschera tragicomica di un'Italia piccolissima in cui era impossibile, tra una partita tra scapoli e ammogliati e un caffè a tremila gradi Fahreneheit, non riconoscersi. Disilluso e cinico, ma fino alla fine (nonostante una certa amarezza che sembrava non renderlo mai davvero pago del tantissimo che aveva fatto) irresistibile, si definiva cordialmente «un essere spregevole». Era invece un osservatore attento e implacabile della realtà (che, forse perché troppo ingombrante o semplicemente anziano, negli ultimi tempi lo aveva messo da parte), autoironico profeta di un Paese che raccontava e fustigava attraverso i suoi indimenticabili personaggi. Consapevole, ad esempio, che il mitico ragionier Fantozzi fosse più attuale adesso che negli anni '70: «Solo che ora – spiegava – i Fantozzi sono più tristi e più poveri, parlano solo di calcio e di donne. E gli tocca sognare il posto fisso: che invece uccide la libertà». Lui, pecora nera di una famiglia genovese perbene assai, il contratto a tempo indeterminato l'aveva stracciato per fare il cabaret: sullo stesso palco strimpellava canzoni l'amico di sempre, un certo De André. A scoprirlo – raccontava immergendo tutto nel mito – fu «un uomo piccolo, di una bruttezza esagerata». Si chiamava Maurizio Costanzo. Lo portò a Roma e da lì alla tv il passo fu breve. Ma in quella Rai un po' inamidata e monocolore, Villaggio rappresentò davvero un crac: come quando, con il cilindro in testa del professor Kranz, vile e aggressivo, insultava in diretta gli spettatori in studio, spaventando anche quelli a casa. Pura comicità di rottura, paradossale sgambetto alle regole del già visto. Come poi anche il successivo, e assai più dimesso, Fracchia alle prese con un indimenticabile puff. Mattatore bulimico (ha interpretato più di 80 film, non tutti formidabili) capace di sintesi clamorose (il giudizio «tranchant» su un capolavoro vero come «La corazzata Potemkin» ha tracciato un solco non più colmabile non solo tra cinephile e uomo della strada, ma soprattutto, in senso più lato, tra ideologo e gente comune), attore per l'ultimo Fellini (ma pure per Olmi) con tanto di Leone d'oro alla carriera (soffriva, sbagliando, che il pubblico lo ricordasse soprattutto per Fantozzi), scrittore dalle vendite da fare impallidire pure Camilleri, Villaggio è stato anche, sul ciglio dell'ennesimo congiuntivo errato (da «vadi» a «venghi» fino a «mi dichi»: molto prima che a sbagliarli, non per finta, fossero i politici alla Di Maio...), un innovatore linguistico, inventore di ironici modi di dire («come è umano lei», «92 minuti di applausi») entrati nell'uso comune, come anche di aggettivi (agghiacciante, mostruoso, e così via) ultra enfatici. E, più di tutto, un raffinato sociologo: che capì prima di altri le dinamiche e le ipocrisie vigliacche di un Paese che nulla meglio di una risata avrebbe potuto raccontare.
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