Georgia Azzali
Trent'anni in primo e secondo grado. Poi, la «bocciatura» della Cassazione, lo scorso ottobre. Eppure, Alberto Muñoz aveva fin da subito sostanzialmente confessato l'omicidio di Michelle Campos, l'ex fidanzata massacrata a colpi di martello e poi nascosta sotto il letto. Ma perché non è stato valutato lo stato di salute mentale di Muñoz? E' questa la domanda centrale, rimasta senza risposta, che ha convinto i giudici della Suprema corte ad annullare la sentenza d'appello, disponendo un nuovo processo davanti a un'altra sezione della Corte di Bologna. «Deve ritenersi pacifico che la Corte territoriale, con l'impugnazione della difesa - scrivono i giudici della Cassazione nella sentenza depositata nei giorni scorsi - è stata comunque sollecitata a riprendere in considerazione il tema della perizia psichiatrica e dell'opportunità di disporre ex officio una perizia... In ogni caso, prescindendo da ogni valutazione nel merito, i giudici d'appello non hanno motivato in alcun modo su questo tema, pure introdotto, né si sono pronunziati sul contenuto della consulenza tecnica psichiatrico-forense ritualmente prodotta e richiamata dalla difesa dell'imputato: non vi è stata alcuna risposta sul punto».
Folle o sano di mente? Non spetta alla Cassazione esprimere giudizi in merito, ma è il difetto di motivazione da parte dei giudici d'appello ad entrare nel mirino della prima sezione penale della Suprema corte. I giudici bolognesi avrebbero dovuto spiegare la decisione di non riprendere in considerazione la possibilità di una perizia psichiatrica, così come avrebbero dovuto esprimersi sulla consulenza presentata dalla difesa. Un argomento «determinante» per la Cassazione, tanto da assorbire ogni altro rilievo mosso dalla difesa di Muñoz, che aveva anche chiesto la derubricazione dell'omicidio volontario in preterintenzionale e aveva tentato di smontare l'aggravante della premeditazione.
Così, il processo dovrà fare un passo indietro. Servirà un appello bis e - quasi certamente - una nuova Cassazione per chiudere il caso. E nel frattempo Muñoz resterà dietro le sbarre: c'è ancora tempo prima che scadano i termini della custodia cautelare.
Quel tempo che per la madre di Michelle si è fermato il 16 luglio 2013. «Così me l'hanno ammazzata due volte», aveva detto subito dopo la sentenza della Cassazione. Un urlo di dolore e rabbia che l'ha riportata a quel giorno d'estate, quando sua figlia - 20 anni - era stata ritrovata sotto il letto: la testa infilata in tre sacchetti di plastica e il corpo avvolto in tre coperte. Voleva nascondere l'orrore, Alberto Muñoz, 26 anni il prossimo luglio, dopo aver fracassato la testa di Michelle con un martello. Cancellare quella sequenza di brutalità durata non più di una ventina di minuti. Determinato e rapidissimo, perché il piano era programmato, secondo la procura. Omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà per i giudici di primo e secondo grado. E 30 anni di condanna, grazie allo sconto di un terzo previsto dal rito abbreviato. Ma con il nuovo appello lo scenario potrebbe cambiare.
Ragazzi che si prendevano e si lasciavano in continuazione nell'ultimo periodo, Alberto e Michelle. Perché lui, ecuadoregno, le teneva sempre il fiato sul collo. Fino a quel 16 luglio, quando entra in casa della ragazza con il martello che aveva preso nei giorni precedenti a casa del padre di Michelle, da cui ogni tanto passava. Le sferra un paio di cazzotti, poi la colpisce alla testa con il martello. Ma vuole essere certo della morte, così le copre il volto con tre buste di cellophane e poi la avvolge in quelle coltri. Fugge nel Milanese, ma nove ore dopo è già nelle mani dei poliziotti.
Una rabbia covata da settimane, quella di Alberto. Perché, seppure tra mille ripensamenti, Michelle, origini peruviane, aveva deciso di chiudere. Lui deve dimenticarla. Ma deve anche lasciare l'appartamento di via Rondizzoni, in cui era stato ospitato nell'ultimo periodo, perché la madre della ragazza lo vuole fuori di casa. Un «crescente rancore» che diventa il movente dell'omicidio, secondo i giudici.
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