×
×
☰ MENU

Borsellino e la giustizia che dobbiamo ai giovani

Borsellino e la giustizia che dobbiamo ai giovani

di Filiberto Molossi

20 Luglio 2017, 10:57

Ieri era il 19 luglio: e lo era anche 25 anni fa. Faceva caldo anche allora: il giorno in cui ammazzarono il giudice che non aveva paura di morire. Perché «chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Io non so, onestamente, se vi ricordate dove eravate quando la mafia uccise Paolo Borsellino. Io me lo ricordo: io ero sulla Luna. Ci sentimmo così, - quel giorno che la violenza e l'orrore in via D'Amelio si portarono via quell'uomo onesto insieme ai ragazzi della scorta - io e i miei amici: su un altro pianeta. Lontani anni luce da quel Paese folle che era così difficile da capire, decifrare, assolvere. Eravamo in vacanza in Grecia e la preoccupazione più grande in quell'estate del '92 era decidere se andare al mare o restare in piscina. Avevamo poco più di vent'anni e - dicevano i bene informati - tutta la vita davanti. Non era ancora l'epoca dei cellulari e tanto meno quella dei selfie: alle ragazze non chiedevi l'amicizia su Facebook, ma offrivi da bere in discoteca. Il primo sms della storia venne inviato solo un anno dopo: per sapere quello che succedeva nel mondo c'erano i giornali. Nel nostro caso quelli del giorno prima. Ma capitava che dato che non eri proprio un senza Dio ogni tanto mettessi mano al portafogli e chiamassi a casa per ricordare che sì, eri ancora vivo. Fu così che ci dissero che dopo Falcone era toccato a Borsellino pagare col sangue la propria determinazione, la propria ostinazione. Le notizie erano frammentarie, rimbalzavano ovunque, lasciando segni, schegge: una bomba, una strage. Lo sdegno e la paura, l'esercito pronto a partire, una guerra contro un nemico infame e invisibile. Io me lo ricordo così, quel giorno. Che a nessuno venne voglia di mettersi il costume né di rincorrere un pallone sulla spiaggia, portieri ovviamente volanti. Fu come se il tempo si fermasse e se quell'isola abbastanza lontano da tutto dove stavamo trascorrendo le vacanze diventasse improvvisamente una bolla d'aria sufficientemente grande a contenerci, un rifugio a porta stagna da cui nessuno aveva voglia di uscire più. Quel giorno, il giorno in cui colpirono un uomo dello Stato senza riuscire ad abbattere ciò che aveva fino allora (e avrebbe poi in seguito) rappresentato, ci chiudemmo tutti in una stanza: a guardarci negli occhi, a parlare, a ragionare. Vista da lì, quell'Italia ferita sembrava davvero un altro mondo. Una nazione da cui fuggire, senza speranza, incapace di reagire: condannata al pianto, allo strazio, alla tragedia. Su quell'isola, anche morale, che assomigliava a una zattera in mezzo alla tempesta avresti, in quel momento, potuto pensare di rimanerci per sempre. E invece tornammo: per restare. Dando un'altra chance ai nostri vent'anni e a quel Paese smarrito e sgomento quanto e più di noi. Adesso, 25 anni e un giorno dopo, mentre a Totò Riina, detenuto nel carcere di Parma, viene negata la sospensione della pena, sappiamo che molto è stato fatto ma molto, moltissimo, resta da fare: tra i soliti sgambetti alla verità, i depistaggi, agende sparite nel nulla, gravi anomalie nelle indagini. Le figlie di quel magistrato pieno di vita e di coraggio reclamano ancora giustizia: glielo dobbiamo. A loro, come a quei ragazzi di 25 anni fa. E a quelli che 25 anni li hanno adesso: e sanno che la battaglia per la legalità ha forse un inizio, ma di sicuro non una fine. fmolossi@gazzettadiparma.net

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI