Storie Inedite
Una sera del maggio 1992 suonò il telefono. La calda voce di Federico, venata da un filo di tristezza, mi chiese: “Hai saputo?” Restai in silenzio, sorpreso. “È morta Marlene”.
Lo disse come se avesse avuto un lutto a casa. Aveva appena appreso la notizia dal telegiornale. Adorava la Dietrich.
Chiese di incontrarci il giorno successivo in Piazza Garibaldi, al caffè all’aperto. Erano alcune settimane che non lo vedevo, aveva sofferto per una brutta bronchite e aveva preferito isolarsi per un po'. All’epoca Federico aveva compiuto da poco ottantatré anni, ma solo da una decina era entrato nella mia vita. Ci accomunava, nonostante la differenza d’età, la passione per il cinema, per la letteratura, per l’arte. A differenza del sottoscritto, era anche grande esperto di musica. Nella vita aveva fatto ben altro: per oltre quarant’anni si era occupato dell’azienda di famiglia, ma le passioni che aveva coltivato erano rimaste intatte.
La piazza principale di Parma era piena di gente. Trovai posto al solito tavolino del bar Orologio, nostro luogo di ritrovo abituale; dopo pochi minuti vidi arrivare Federico con un rotolo di giornali sottobraccio. Tutti i quotidiani avevano dato gran risalto alla notizia. Una stretta di mano e riprendemmo a parlare come se ci fossimo visti il giorno prima. Federico, guardandomi intensamente, disse: “Oggi ti voglio far conoscere una storia che non ho mai raccontato a nessuno. Neanche ai miei familiari, nemmeno ai fedelissimi amici degli anni dei “caffè”. È una storia che potrà sembrarti incredibile, ma è vera. Assolutamente vera”.
Lo guardai incuriosito, restando in attesa. Aveva inforcato un paio di occhiali scuri, quasi a celare un pudore che non gli riconoscevo.
Esitò qualche secondo e mi consegnò alcune pagine dattiloscritte. “Sono ricordi che ho messo su carta da oltre trent’anni. È il racconto del mio incontro con Marlene Dietrich. Vorrei che lo leggessi ora”. Incuriosito cominciai a leggere.
Era una domenica di inizio ottobre, nel ‘37. Mancava poco a mezzogiorno, vagavo senza meta lungo strada Garibaldi, affollata dai reduci dalla messa domenicale o dagli aperitivi nei caffè. In genere, la domenica restavo fuori da mattina a sera: vedevo qualche amico al bar, leggevo i giornali, pranzavo al ristorante e poi mi tuffavo in un cinema per l’intero pomeriggio. Rientravo solo all’ora di cena.
Giunto a barriera Garibaldi, in prossimità della stazione dei tram extraurbani di Viale Fratti, notai una Mercedes amaranto e nera con una strana targa. Era un nuovo modello che attirava l’attenzione dei passanti. Mi avvicinai per osservarla meglio, proprio mentre scendeva una donna elegantissima. Occhiali scuri, indossava un tailleur pantalone e un piccolo collo di pelliccia bianco. Era bellissima. Osservai meglio il viso, la pettinatura, il portamento elegante.
Mi ricordava... Abbassò gli occhiali e non ebbi più dubbi: Marlene Dietrich! Mi avvicinai, quasi senza pudore. Iniziò a scrutarmi. All’epoca ero un giovane ventottenne, alto, scuro di capelli e con vivaci occhi verdi. Insomma, un bell'uomo. Sfoderai un sorriso d’ammirazione e riuscii solo a proferire un “Buongiorno”.
A sua volta sorrise e spiegò, in un italiano abbastanza comprensibile, che voleva prendere il tram per Busseto. Sapevo dai rotocalchi che la Dietrich parlava anche il francese e pertanto le risposi nella lingua che cinque anni di liceo mi avevano fortunatamente fornito.
Il primo tram a vapore diretto a Busseto sarebbe partito poco dopo mezzogiorno. Le suggerii di salire su quello. Era felicissima, quel viaggio inaspettato la elettrizzava. L’autista della Mercedes, che nel frattempo ci aveva raggiunto, ci avrebbe seguito in automobile. Entusiasta come una ragazzina acquistò il biglietto, tornò verso di me, sorrise e mi chiese di accompagnarla. In poco meno di mezzora ero passato da una situazione di assoluta normalità a qualcosa di incredibile. Stavo iniziando un viaggio che mai avrei immaginato, con la compagna più inaspettata: la splendida attrice che avevo “frequentato” per anni solo sugli schermi di un cinema era lì, in carne ed ossa, a pochi centimetri di distanza. Il suo profumo si spandeva nell'aria contrastando con la puzza di carbone e l'afrore dei passeggeri che salivano in carrozza. Stavo vivendo un sogno.
Il locomotore, che trainava due grossi vagoni, lentamente si mosse, attraversò la periferia e alla velocità di quindici chilometri all’ora arrivò alla campagna: filari di olmi, salici e querce, in una giornata autunnale di tiepido sole.
La vendemmia, tardiva quell’anno, era in corso. Carri attaccati ai buoi, uomini e donne in attesa di cestoni e casse di legno colme d’uva. Seduta sul panchetto di fronte, osservava rapita dal finestrino e si girava verso di me per condividere quello che la emozionava. “Meraviglioso, meraviglioso”.
I contadini interrompevano il lavoro e il macchinista salutava la gente nei campi con un doppio fischio; in risposta, grida e mani che salutavano festose, cappelli e fazzoletti che sventolavano. Marlene rideva divertita. Sosteneva come la velocità dell’epoca moderna avesse distrutto la gioia di viaggiare lenti, osservando il mondo circostante. Le sorrisi, come potevo non essere d’accordo.
Ogni dieci minuti la sosta in una piccola stazione: Eia, Viarolo, Ronco Campo Canneto. Ad ogni ripartenza il locomotore sotto sforzo emetteva ancora più fumo, inondando vagoni e passeggeri. Da San Secondo, paese più grande ove la sosta durò maggiormente, arrivammo a Fontanelle: il paese di Pietrino, uno dei leader del gruppo del caffè.
Alla piccola stazione di Mano ecco una diramazione: sul binario sinistro si proseguiva per Zibello e Busseto; sull’altro, un grande vagone senza motrice attendeva merci e passeggeri diretti a Roccabianca. Marlene mi guardò come se attendesse una conferma. Scesi senza esitazioni e mi seguì, come se avesse intuito che l’avventura non era finita, che altre sorprese inaspettate erano dietro l’angolo. Ci dirigemmo verso il vagone isolato, mentre il locomotore fischiando riprendeva il viaggio verso Busseto.
Ed ecco la sorpresa: arrivò un uomo massiccio che conduceva un grande cavallo bianco. Agganciò l’animale al vagone con un bilancino e due grosse corde di canapa. Stupiti, salimmo con pochi altri passeggeri. Lentamente, al traino del quadrupede, partimmo. Il vagone cigolava sul binario, per percorrere i tre chilometri per Roccabianca impiegammo almeno mezz’ora.
La gioia della Dietrich era contagiosa, gli altri passeggeri si lasciarono andare a risate e commenti in dialetto. Nessuno l’aveva riconosciuta.
Quel pittoresco traino con cavallo era in funzione da oltre trent’anni e pur vivendo poco lontano non ne ero informato. Osservavo Marlene, rapita dalla natura che intravedeva dal finestrino: campi verdi o arati di fresco, alberi e siepi. Silenzio, interrotto solo dal cigolio del vagone. Arrivati in stazione, scese e si diresse verso il cavallo, ricoprendolo di carezze e baci, non lasciando indifferente il capostazione che si avvicinò, le rivolse un saluto e alcune frasi in dialetto che lei non poteva comprendere. Cercò il mio sguardo, spiegai che entro pochi mesi la linea sarebbe stata soppressa, ma che era stata aperta una raccolta di firme per contrastare l’assurda decisione. Marlene volle subito firmare la sottoscrizione, dichiarandosi cittadina americana.
Il capolinea era nel centro del paese, in piazza Roma. Erano le due passate, proposi di pranzare all’osteria dei Tre Gobbi, sotto i portici. Marlene si affidò a me per il menu, anatra al forno con verdure fresche e una bottiglia di lambrusco. Finalmente soli: mi pareva di perdermi in quegli occhi meravigliosi, verdi, con sfumature diverse a seconda della luce. Mi raccontò, in un discreto italiano, che era in Europa da alcuni mesi: Francia, quindi Austria e poi Italia. Si era stabilita in un piccolo paese alle porte di Verona e spesso viaggiava tra Venezia, Milano, Torino e Genova. Seguiva con trepidazione quello che avveniva in Europa, la guerra in Spagna, il riarmo della Germania. La “sua” Germania, dalla quale era partita poco prima dell’avvento del nazismo, senza poter ritornare.
Raccontò di Hollywood, degli amici tedeschi con i quali aveva organizzato una sorta di soccorso economico a favore dei dissidenti del regime. Mi parlò di Von Sternberg, di Murnau, di Lang, di Lubitsch e dei tanti esuli europei approdati in America e impiegati nel cinema. L’ultimo film in cui aveva recitato risaliva a parecchi mesi prima: “Angelo”, diretta da Lubitsch. Accennò a un giovane sceneggiatore viennese che si stava preparando al debutto alla regia: Billy Wilder.
Poi mi guardò con grande intensità e mi chiese a bruciapelo se ero fascista. Risposi di no con un sorriso, spiegai che ero cresciuto in una famiglia borghese di autentici valori liberali, ma che purtroppo il nostro antifascismo contava solo una ristretta cerchia di amici e conoscenti.
Rassicurata, volle sapere dei miei studi, delle mie passioni.
Imbarazzato da tanta attenzione, spiegai che ero laureato in legge e che lavoravo nell’azienda di famiglia da qualche anno. Amavo l’arte e la letteratura, il cinema e la musica; da “verdiano” convinto, la invitai a visitare i luoghi circostanti, dove il Maestro era nato e vissuto.
Paul, l’autista, ci aveva raggiunto nella piazza e decidemmo di partire subito per Roncole, Busseto e Villa Sant’Agata.
Durante il viaggio e le varie soste mi confessò di preferire la musica tedesca, ma rimase affascinata dai miei racconti sul Maestro allevatore e agricoltore. Davanti a villa Verdi, uno splendido tramonto, rapido e quasi inatteso, dava la sensazione che il cielo si stesse muovendo. Ripartimmo, diretti a Parma. Presi posto accanto a lei, infatuato dal lieve contatto che ogni tanto si stabiliva tra i nostri corpi e soprattutto dal piacere di ascoltare la sua voce, leggera e divertita; ma a volte malinconica, con una venatura di tristezza.
Una voce che sentivo provenire dal profondo di un’anima bella.
Giunti in città, disse che aveva intenzione di pernottare a Parma e mi chiese di indicargli un albergo. Spiegai all’autista come arrivare in Piazzale della Steccata, l’avrei portata al Croce Bianca. Acqua corrente, anche calda, ascensore e appartamenti con bagno privato: in quegli anni, l’hotel più prestigioso in città.
Paul parcheggiò l’auto e scaricò i bagagli, Marlene mi guardò felice e mi invitò a raggiungerla più tardi per la cena. Mi incamminai verso casa saltellando, evitando di passare al caffè dove solitamente il gruppo di amici si ritrovava, per non dover dare risposte imbarazzate su come avevo trascorso quel pomeriggio. Avvertii i miei che sarei uscito per cena, mi diedi una rinfrescata e mi cambiai la camicia.
Non avrei raccontato a nessuno l’accaduto, né cosa mi attendeva in quella meravigliosa, tiepida serata di ottobre. Prima di uscire, recuperai tra le mie carte due cartoline fotografiche della Ross Verlag raffiguranti Marlene. Le avrei fatte autografare.
Elegantissima, mi stava aspettando nella hall dell’albergo. Camminava su e giù con gran classe esprimendo una musicalità armoniosa. La condussi ad ammirare la città notturna, percorrendo borghi poco frequentati. Marlene aveva capito che volevo evitare incontri imbarazzanti e assecondò il mio desiderio abbassando ancor più le tese del cappello. Percorremmo Piazza Duomo, allora poco illuminata, arrivando in via Garibaldi davanti al cinema teatro Reinach. Spiegai che l’avevo vista per la prima volta sul grande schermo proprio lì, prima in “Disonorata” e poi ne “L’Angelo azzurro”. Ricordavo ogni suo film e i cinematografi dove li avevano proiettati.
Di fianco al Reinach sorgeva un prestigioso ristorante, bombardato come il Teatro durante la guerra, “da Stiliano”. Conoscevo il proprietario e chiesi una saletta riservata. Marlene scoprì la cucina parmigiana, dai tortelli di erbette ai bolliti con salse. Raccontò della sua infanzia, degli studi, della passione per la musica e la danza. Ascoltavo rapito guardando gli occhi, la fronte alta, gli zigomi marcati, i capelli biondi con riflessi rossastri e dorati.
Un volto indimenticabile, che comunicava anche allo spirito. Era quasi mezzanotte quando uscimmo dal ristorante, vagammo nel buio fino a tardi senza incontrare anima viva. Davanti all’hotel mi stavo già accingendo ai saluti, quando Marlene mi fissò sorridendo. Mi chiese di salire con lei…
Il dattiloscritto terminava così, bruscamente. Rimasi qualche istante a riflettere, senza fare domande. Federico, rimasto fino ad allora in silenzio, terminò il racconto:
“Rividi la Dietrich qualche mese dopo, purtroppo solo sul grande schermo: il film era Angelo, capolavoro di Lubitsch, con una Marlene superlativa, anche più brava rispetto ai film con Von Sternberg. Era dicembre del ’37, la pellicola non era ancora uscita a Parma, pertanto andai a vederla a Milano, in treno, in compagnia di alcuni amici ignari di quanto accaduto qualche mese prima. Negli anni, continuai a seguire la carriera di Marlene prestando attenzione anche alla sua vita privata, che le riviste dell’epoca non tralasciavano di raccontare. Poi, la tragedia della guerra. Venni a sapere che Marlene aveva seguito le truppe alleate nella campagna d’Italia e poi in Francia.
I tedeschi, per anni, la considerarono una traditrice.
Finalmente, riuscii a rivedere Marlene dal vivo, a Parigi, nell’aprile del ‘62 ad un concerto all’Olympia; venticinque anni dopo il nostro incontro. Era meravigliosa, elegantissima, avvolta in una lunga pelliccia di ermellino bianco. Regalò al pubblico un concerto indimenticabile. Non ebbi il coraggio né la forza di andare in camerino a salutarla. Mandai un mazzo di rose rosse, con un semplice biglietto d’accompagnamento: Federico, da Parma”.
Nota per il lettore. Questa storia è realmente accaduta, sono stati cambiati il nome e alcune informazioni relative al protagonista maschile.
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