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Alberto, il lupo blu timido e innamorato

Alberto, il lupo blu  timido e innamorato

di Filippo Marazzini

09 Agosto 2024, 12:59

Nel 1974, cinquant’anni esatti fa, sul «Corriere dei Ragazzi» compariva una striscia a fumetti formata da tre vignette. Nella prima si vedeva un lupo aggirarsi intorno ad una fattoria, diretto al pollaio; lo scopo - pensa il lettore - è chiaro: farsi una bella scorpacciata di pennuti. Ma qualcosa non va. Questo lupo è bizzarro e ha una postura comica che ci ispira immediatamente simpatia. Simpatia che diventa tenerezza un attimo dopo, quando, nella seconda vignetta, scoperto dai contadini, lo vediamo correre in mezzo ad una gragnuola di proiettili, lame e bombe mentre porta sopra la testa una gallina. Poi nella terza vignetta ecco finalmente il colpo di scena: il lupo, che scopriamo chiamarsi Alberto, e la gallina Marta si sbaciucchiano: altro che fame, questo è vero amore! L’idea geniale venne al ventiduenne Guido Silvestri (in arte Silver) che non lo sapeva ancora, ma sarebbe diventato uno dei fumettisti più iconici della storia del fumetto italiano.
Nato a Carpi nel 1952, Silver ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza in Emilia, tra Modena e Correggio, prima di trasferirsi a Milano dove attualmente lavora. Da mezzo secolo la sua creatura è presenza stabile in edicola e continua imperterrita a intrufolarsi nella mitica fattoria McKenzie schivando trappole ed escogitando stratagemmi per stare con Marta, la sua eterna fidanzata (anche se a lei il matrimonio non farebbe schifo…). Inevitabilmente continua a prenderle da Mosè, il cane da guardia, e inevitabilmente incontra una talpa di nome Enrico che lo scambia per un certo Beppe. Dopo un inizio fortunato negli anni Ottanta, è tra i Novanta e i primi Duemila che il lupastro ha superato il suo statuto di creatura di carta, diventando un vero fenomeno di costume: le sue orecchie azzurre si vedevano ovunque, dai cartoni animati ai diari di scuola, dalle prime cover dei telefonini alle campagne di promozione sociale. Ma qual è il segreto di questo grandissimo successo? «Lupo Alberto è uno di noi - racconta Francesca Fontana, curatrice della mostra per i 50 anni del personaggio, aperta a Modena fino al 25 agosto - in lui ci identifichiamo proprio perché non incarna l’eroe perfetto: è buono, un po’ sfortunato e spesso insicuro; è abituato ad affrontare delusioni e batoste, ma ha il grande pregio di saper prendere la vita con ironia e leggerezza, a volte addirittura con noncuranza. Inoltre, nelle sue storie non mancano riferimenti all’attualità, alla politica e alle tematiche più urgenti del dibattito pubblico; la fattoria, in breve, riflette le stesse problematiche, le stesse preoccupazioni e i medesimi meccanismi psicologici del mondo reale». E il suo creatore che ne pensa?

Silver, come ha iniziato a fare fumetti?
«Ho avuto questa grande passione fin da bambino. Negli anni Settanta però non c’erano scuole dedicate come oggi e l’unico modo era mettersi lì a copiare e ricopiare i propri autori preferiti. I miei erano quelli Disney (Lupo Alberto deve molto a Willy il Coyote) o i disegnatori delle storie western e dei supereroi, ma il mio immaginario è stato molto influenzato anche dal mondo eccentrico creato da Jacovitti. Poi, se la fortuna ti arrideva, si poteva sperare di incrociare la propria strada con quella di un professionista con uno studio già avviato. Il mio mentore fu Bonvi, modenese, ma di origini parmigiane, il creatore delle leggendarie “Sturmptruppen”».

In che modo vi siete incontrati?
«Per puro caso. Frequentavo l’Istituto d’arte a Modena e un giorno l’insegnante di storia dell’arte chiese se ci fosse tra noi qualcuno interessato ai fumetti perché un disegnatore stava cercando un collaboratore. Alzai immediatamente la mano. Poi nel pomeriggio mi presentai a casa sua: è stato l’inizio di un lungo sodalizio, ma soprattutto di una lunga amicizia».

Che cosa ha imparato lavorando con Bonvi?
«Sicuramente ho acquisito esperienza realizzando le matite o inchiostrando le tavole, oltre delle “Sturmtruppen”, di altri suoi personaggi di grande successo come “Nick Carter” o “Cattivik” (che nasceva ben 60 anni fa, nel 1964, e che contribuisco tuttora a portare avanti). Ma due sono stati gli insegnamenti più importanti che mi ha lasciato: il primo è la gestione professionale del lavoro. Quasi tutti gli autori all’epoca davano le proprie tavole all’editore e queste finivano al macero, lui invece imponeva agli editori un contratto di collaborazione, cosa non frequente, che prevedeva un compenso per tavola e la restituzione dei disegni originali. Il secondo è l’utilizzo del lettering, ossia il testo che riempie i baloon che, sosteneva Bonvi, va curato nei dettagli perché è parte integrante del disegno. L’ho tenuto a mente per tutta la mia carriera creando un carattere leggibile e riconoscibile. Da qualche anno, per agevolare i miei collaboratori, l’ho convertito in un font, modellato sulla mia scrittura e creato ad hoc con Photoshop».

Quali sono stati i suoi modelli di umorismo?
«Sicuramente quello graffiante e irriverente di Bonvi mi ha affascinato e influenzato. Però, fin da giovanissimo, ho preso una strada mia che seguiva gli autori americani scoperti attraverso la rivista “Linus” come Schulz e i suoi Peanuts, Johny Hart e Walt Kelly. Erano i cosiddetti “strippettari” perché realizzavano una striscia al giorno sui quotidiani».

Veniamo a Lupo Alberto. La prima domanda è d’obbligo: perché si chiama Alberto?
«Volevo sfuggire al cliché dei nomi da animali antropomorfi - un esempio su tutti: Braccobaldo - che negli anni Settanta andavano tantissimo. Così scelsi un nome comune, con però una eco di nobiltà che aggiungesse un po’ di ironia al personaggio e facesse sorridere».

Il lupastro doveva essere fin da subito il protagonista delle storie?
«Assolutamente no, all’inizio avevo pensato ad una striscia corale con tanti animali. Pur essendo nato a Carpi, ai tempi abitavo a Correggio e andavo a scuola a Modena in corriera. Così, fuori dal finestrino, vedevo scorrere le case coloniche della campagna padana e me le immaginavo come le farm americane di Nonna Papera. Notavo anche gli animali da cortile e ho cominciato ad immaginare delle situazioni con loro come protagonisti. Volpi, cani, galline, pavoni: che cosa avrebbero potuto dirsi. Quindi non ho mai pensato che il lupo potesse diventare il protagonista, ma dopo la prima storia il suo amore per la gallina Marta è diventato il fulcro. Il titolo della serie infatti doveva essere “La Fattoria dei McKenzie” e il direttore del “Corriere dei Ragazzi” al quale la proposi ne fu entusiasta. Poi il grande Alfredo Castelli, caporedattore del periodico, lo modificò in Lupo Alberto ed eccoci qui».

Tra gli animali della fattoria ha qualche preferenza?
«Lupo Alberto, ovviamente, perché quando l’ho creato avevo vent’anni e mi riconoscevo tantissimo in lui, per esempio nel suo desiderio di sfuggire ad un rapporto stabile, anche se non ho voluto mai infondergli delle caratteristiche autobiografiche. Poi però, negli anni della maturità, mi sono affezionato sempre di più ad Enrico la talpa che comparve nel numero 14, un anno dopo la nascita della striscia. All’inizio doveva essere un semplice espediente per movimentare un po’ le storie, ma ben presto ne divenne uno dei personaggi cardine. Il suo - esplosivo! - matrimonio con Cesira rappresenta la fase della mia vita più adulta, più famigliare e più domestica».

Una caratteristica che ha in comune con la sua creatura?
«Il suo idealismo, direi. Lupo Alberto non accetta compromessi e non vuole integrarsi in fattoria, ma ama la sua autonomia che è piena di interessi. Odia i diktat, ma non è un antisociale, interpreta la sua socialità in modo differente. Anch’io, ad un certo punto, sono diventato editore di me stesso perché non sopportavo più le imposizioni di altri».

Ci spieghi meglio…
«Per un po’ di tempo le strisce del lupo sono state ospitate su varie riviste come, appunto, il “Corriere dei Ragazzi”, “Corrier boy” ed “Eureka”. Poi, alla fine degli anni Ottanta, quando il personaggio ha cominciato ad avere un successo davvero notevole, insieme ad altri compagni d’avventura, ho fondato la Mck Publishing e Lupo Alberto ha avuto una pubblicazione tutta sua, curata direttamente da me. Oggi siamo arrivati al numero 446: l’albo è un bimestrale e conta 96 pagine di storie complete e autoconclusive».

Come nascono le idee per le storie?
«Da esperienze di vita e domestiche, articoli di giornale, film. In genere prediligo narrazioni con poca azione, ma con molta commedia. L’ultimo evento che mi ha influenzato profondamente è stato il Covid che mi ha ispirato una storia in cui Enrico la talpa vive nel totale isolamento, con il timore di essere contagiato».

Perché Lupo Alberto è azzurro?
«Per sbaglio. Lupo Alberto nasce in bianco e nero, ma quando cominciò ad avere un buon riscontro dal pubblico vinse l’onore dell’immagine di copertina del “Corriere dei Ragazzi” che era a colori. Io pensai allora ad un color lupo siberiano, un grigio con striature azzurre e diedi al fotolitista delle indicazioni. Io mi spiegai male, lui capì peggio e comparve questo azzurro Puffo che sul momento mi riuscì indigesto, ma che mi portò fortuna».

Altro dubbio: le onomatopee (geniali, come “zitt zitt” per il passo felpato o “scatrash” per le cadute rovinose) le vengono in mente così o deve impegnarsi?
«Alcune mi vengono fulminee, per altre ci ho rimuginato su più a lungo. Cerco sempre di inventarne di divertenti, ma sono cresciuto alla scuola di Jacovitti con i suoi meravigliosi “banghete!” per gli spari e i “pu-gno” per i cazzotti».

Nel 1991 Lupo Alberto è diventato testimonial di una celebre campagna di sensibilizzazione contro l’Aids: che ricordo ha di quel momento?
«Mi venne chiesto dall’allora Ministero della Sanità e fu sfidante lavorare su un tema delicato che toccava molti argomenti tabù come i rapporti sessuali, gli anticoncezionali e la morte. Scelsi un linguaggio esplicito, ma mai volgare per sollecitare davvero l’attenzione e questo probabilmente diede fastidio ad alcuni. Ricordo che ci furono anche delle interrogazioni parlamentari. Ma non mi sono pentito di nulla, anzi ancora oggi incontro molte persone che mi dicono “Grazie a te, me la sono scampata”. E questa penso sia davvero la soddisfazione più grande».

Un bilancio di questi cinquant’anni?
«Sono davvero molto soddisfatto del percorso fatto fin qui, non ho davvero rimpianti. Lupo Alberto non è cambiato: lui ha sempre 25 anni e ho cercato di mantenere sempre la sua visione divertente, ingenua, spontanea sulle cose. Io nel frattempo ne ho 70: da giovane scapestrato sono diventato nonno, ma neppure la mia indole è cambiata troppo».

I suoi figli leggono Lupo Alberto?
«Sì, sono molto appassionati. Anche se quando andavano a scuola temevano che gli amici avrebbero chiesto loro continuamente miei autografi o disegni. Così uno di loro, per un certo periodo, ha anche detto che suo padre faceva l’operaio. Ero molto contento quando, talvolta, li sentivo ridere in casa e scoprivo che stavano leggendo “Lupo Alberto”. In varie occasioni, prima di scrivere una storia, ne ho parlato con loro per avere un primo riscontro».

Come vede il futuro del lupastro?
«Roseo. Un gruppo di giovani autori che fa capo a Lorenzo Laneve mi ha chiesto di portare avanti un ramo laterale del mondo di Lupo Alberto. È quindi nato il progetto “Tutto Un Altro Lupo” che raggruppa storie scritte e disegnate con uno stile pop, manga o pittorico. Sono davvero molto divertenti e saranno pubblicate in volume ad ottobre in occasione del Lucca Comics. Io mi sento come un nonno che lascia giocare i nipotini e sono orgoglioso che abbiano trovato in questo personaggio un mezzo attraverso il quale esprimersi».

C’è un legame tra Silver e Parma?
«Certamente! Quando mi sono trasferito a Milano sono diventato membro onorario de “I Parmigiani a Milano”, una sorta di club che radunava i parmigiani "emigrati" lì. Ci riunivamo una volta a settimana in un ristorante, chiamato (non a caso, penso) “Il parmigiano”, in zona Città Studi, dove mangiavamo con gusto torta fritta e affettati. Adesso c’è una banca, ma ho un bellissimo ricordo di quel pezzo di Emilia in terra lombarda».

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