Le cronache romane raccontano che solo l’intervento di Mario Draghi è riuscito a vincere i dubbi dell’Europa sul piano italiano per il Recovery fund. È probabile che il premier abbia dovuto mettere in campo buona parte della propria credibilità personale conquistata negli anni alla guida della Banca centrale europea per convincere la presidente della commissione von der Leyen che l’Italia non stava barando. E che questa volta erano veri gli impegni sulle riforme in fatto di giustizia, concorrenza e lotta al lavoro nero. In ballo ci sono i circa duecento miliardi di fondi europei di cui l’economia italiana ha assoluto bisogno visto lo stato drammatico in cui si troverà alla fine di questa pandemia.
Dopo la ben magra figura rimediata nella sfida per l’approvvigionamento dei vaccini anti Covid, le istituzioni europee fanno fatica a dar lezioni di efficienza, ma è evidente che il passato dell’Italia, con le tante promesse non rispettate, pesa sulla credibilità del nostro Paese. È impensabile che si possa riuscire a superare incrostazioni di decenni con un tratto di penna, nell’arco di poche settimane. Ma è evidente che bisogna iniziare a intervenire su situazioni vergognose come l’inefficienza dei tribunali italiani e i tempi biblici dei loro processi.
Allo stesso modo è evidente che il nostro Paese, tanto più adesso, non può permettersi un sistema burocratico così elefantiaco e farraginoso. Un sistema, che è capace di bloccare per decenni le opere pubbliche, che sa rendere un inferno l’avvio di qualsiasi attività, che trasforma in un rebus inestricabile la più banale delle pratiche.
Ed è qui che si gioca la partita più difficile per il futuro del nostro Paese, una partita in cui probabilmente non sarà sufficiente nemmeno la credibilità personale di Mario Draghi.
Eppure è su quella sfida che si deciderà il destino dell'Italia. Perché si possono mettere a bilancio tutti i finanziamenti possibili, anche centinaia di miliardi, ma se poi questi soldi non vengono spesi in modo efficace, tutti questi sforzi non servono a nulla.
Nel migliore dei casi, quei fondi resteranno inutilizzati. Ne è un esempio lampante quello che accade da decenni con le opere pubbliche ferme dopo che sono già state deliberate, regolarmente finanziate e, magari, hanno anche un commissario incaricato di fare il possibile per portarle a termine.
Ne è un altro esempio sotto gli occhi di tutti quello che sta avvenendo in questi mesi con il Superbonus 110%. Un incentivo introdotto dal precedente governo in piena pandemia per cercare di dare un po' di fiato a un settore cruciale come l'edilizia favorendo allo stesso tempo le ristrutturazioni degli edifici, in modo da ridurre il consumo energetico e il rischio sismico.
Finalità nobile. Incentivo ricco, molto ricco. Eppure la legge non è mai decollata fino in fondo. Il problema? Semplice: la quantità di scartoffie che è necessario presentare. Servono quasi quaranta documenti piuttosto complessi per avviare qualsiasi lavoro. La situazione degli archivi del catasto in Italia è quella che è. I tempi sono difficili da prevedere. E così molti rinunciano. Come ha spiegato il presidente dell’Associazione nazionale costruttori, Gabriele Buia, finora dei 18 miliardi previsti ne sono stati mossi una minima parte, poco più di uno.
E così da tempo viene richiesta una semplificazione della norma e una proroga di almeno un anno, fino alla fine del 2023, perché pochi si azzardano a iniziare i lavori senza la certezza di finirli in tempo e di ottenere l’incentivo. Ora il governo ha garantito che la proroga ci sarà, ma diventerà legge solo con la manovra del prossimo autunno. Ed è probabile che sia così. Ma rischiano di esserci altri mesi persi e altre occasioni buttate, perché non tutti vorranno programmare i lavori solo sulla base di semplici promesse, anche se arrivano dal governo.
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