Helmut Kohl - il Cancelliere della «Deutschen Wiedervereinigung», la riunificazione tedesca, del trattato di Maastrich e dell’abbandono del marco a favore di una valuta europea - fu lo scopritore e il mentore politico di Angela Merkel. Ma sicuramente Kohl - che la nominò ministra delle Donne e dei Giovani e, successivamente, ministra dell’Ambiente - non pensava a lei come colei che avrebbe preso il suo posto.
La chiamava «das Mädchen», la ragazza. L’aveva scelta proprio perché era una grande lavoratrice, ma non era ingombrante politicamente. E poi era una donna. Una donna Cancelliere? Cose dell’altro mondo nella Germania della fine degli anni ’80.
Al di là di ogni immaginazione, soprattutto per un politico dalla volontà di ferro, ma di scarsa capacità di pensare oltre gli schemi come Kohl, universalmente noto in Germania col nomignolo di «Birne», pera, per via della pinguedine. E per via della mancanza di poesia e immaginazione nella sua politica.
Eppure, la ragazza Merkel, la grigia politica ossi (nomignolo dispregiativo per i tedeschi dell’est), con un gesto molto coraggioso e violento - si è sempre parlato di un parricidio simbolico - mise fine nel 1999 alla carriera politica di Kohl, già indebolita dalle sconfitte politiche e dagli scandali, costringendolo alle dimissioni da presidente della Cdu, con un editoriale sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Da allora la Merkel ha preso le redini dei Cristiano democratici e nel 2005 è diventata Cancelliera, la prima donna a ricoprire questo ruolo e la prima politica proveniente dalla Germania Est. Ora il suo regno è finito, ma è durato 16 anni, più o meno come quello di Kohl. Ed è finito per una scelta consapevole - la decisione di non ricandidarsi è sua - e non per una sconfitta elettorale o uno scandalo.
Il primo punto fermo, dunque, è questo. Mai sottovalutare la Merkel. Constanze Stelzenmüller, in un bellissimo ritratto della Cancelliera apparso su Foreign Affairs, la bibbia della diplomazia americana, ha raccolto le confidenze di uno dei più stretti collaboratori della Merkel – che ormai non è più «das Mädchen», ma «die Frau», la signora, o, più confidenzialmente, «die Mutti», la mammina – che parla di lei come una specie di campo di forze ambulante che tende a piegare la situazione e gli interlocutori ai suoi desideri. Un altro collaboratore parla di lei come di una centrale nucleare – da notare che è stata la Merkel a imporre l’uscita della Germania dal nucleare – che lavora giorno e notte e non si ferma mai. E che dà l’idea di una forza possente imbrigliata per evitare la reazione a catena. La sua attenzione al dettaglio è proverbiale, come anche la sua capacità di trovare compromessi sempre profittevoli per la Germania e - solo dopo - per l’Europa. La sua formazione scientifica - è una fisica - la rende capace di analizzare i problemi e di modificare le sue scelte se i dati smentiscono gli assunti iniziali.
Come Kohl fa discorsi noiosissimi e tende a privilegiare le kantiane fertili pianure dell’esperienza alle altezze retoriche dell’immaginazione. Quando le chiesero qual era la miglior qualità della Germania lei rispose, sorridendo, «le finestre che chiudono perfettamente». Una risposta molto ironica e molto tedesca, tenendo presente il trauma di un Paese di persone indotte a credere di essere la stirpe eletta con una missione di civilizzazione che, alla fine di una guerra rovinosa, si è scoperto essere un Paese di aguzzini. Un Paese di «volenterosi carnefici agli ordini di Hitler», come recita il titolo di un famoso libro di Daniel Jonah Goldhagen.
E qui veniamo alla debolezza della Merkel. Il suo approccio ai problemi, il procedere per piccoli passi e approssimazioni successive, è decisamente efficace, ma sicuramente è un metodo di tipo conservativo. Funziona quando i problemi sono trattabili. Ma quando c’è una rottura - che può essere economica, sociale, tecnologica, culturale o epistemica - fa fatica e assomiglia sempre di più a un temporeggiare non solo tattico, ma anche strategico. Ecco, quindi, le titubanze con la crisi finanziaria del 2008, il sacrificio della Grecia prima di capire che la formula dell’austerità era sbagliata perché rendeva la crisi sempre più profonda, il misto di durezza a parole e spregiudicati accordi commerciali che contraddistinguono il rapporto tra Germania e Russia e le ambiguità e i tentennamenti nel tentare di risolvere la crisi dei migranti siriani. Alla fine, le soluzioni si trovano - e sono pure soddisfacenti -, ma il percorso non è lineare e soprattutto inutilmente pieno di sofferenza. È il famoso «Merkeln», un neologismo fatto apposta per lei, cioè il «merkeleggiare» che a volte sembra semplicemente un prendere tempo perché non si sa cosa fare. Un atteggiamento che ha portato molti tedeschi a non amarla più come un tempo, o, meglio, a considerarla come una specie di «comfort zone» fatta persona. Tranquillizzante come la minestra della mamma, ma non particolarmente appetitosa.
Alla fine, inoltre, il suo convergere verso il centro, scomponendo i problemi, smussando gli angoli, e lasciando da parte l’ideologia ha profondamente destabilizzato anche il quadro politico della Germania. Non per cinismo, visto che la Merkel ha valori profondi e sono quelli del cristianesimo democratico in salsa non cattolica, ma protestante. Ma per praticità e per amore del risultato soddisfacente anche se non entusiasmante.
Il suo partito - che ha sussunto alcune istanze dei socialdemocratici in campo sociale - e che lei ha guidato con mano ferma opponendosi a chiusure ed estremismi ha perso voti a destra. Si è ribaltata l’antica politica della Cdu-Csu di non avere alcun nemico a destra e ora gli estremisti della AdF sono sopra al 10% e i liberali - più attenti alle ragioni del business che a quelli del sociale - oltre l’11%. Allo stesso modo le istanze della rivoluzione energetica dovuta alla crisi climatica hanno trainato i Verdi attorno al 15% e la Spd a competere con la Cdu-Csu per il primato. Ma con entrambi i partiti molto indeboliti rispetto agli anni scorsi.
Insomma, un bel rebus che avrà bisogno di mesi per decantare. Quello che è certo che la centralità della Cdu-Csu - un perno della politica degli ultimi cinque lustri - ormai è un ricordo. E anche l’inevitabilità di un Cancelliere cristianodemocratico è tutt’altro che certa. Un po’ perché Armin Laschet non è Angela Merkel, ma una sua pallida replica. Un po’ perché il merkelleggiare della politica tedesca ha prodotto un quadro politico molto più fragile di quello a cui eravamo abituati. Non è detto che sua un male per l’Europa. Ma sicuramente non è un bene per la stabilità del continente.
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