PAOLO FERRANDI
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti nei giorni scorsi ha avuto un'ulteriore escalation. Questa volta non si tratta di dazi, ma del bando a una singola azienda motivato da parte dell'Amministrazione Trump con ragioni di «sicurezza nazionale».
Il gruppo nel mirino è il gigante hi-tech cinese Huawei che è ormai uno dei maggiori produttori mondiali di smartphone e, soprattutto, è l'azienda chiave per quel che riguarda le infrastrutture che consentiranno di mettere in piedi la rete mobile di quinta generazione, il cosiddetto «5G».
La decisione Usa è motivata da sospetti non privi di fondamento: in pratica Huawei è accusata di avere rapporti opachi con il potere cinese e di essere molto disinvolta nell'uso della tecnologia altrui, magari ottenuta grazie allo spionaggio commerciale. Washington ritiene che i componenti Huawei abbiano all'interno «backdoor» capaci di consentire all'intelligence cinese di carpire i segreti dell'Occidente.
Eppure, tenuto conto del comportamento precedente dell'Amministrazione Trump, il bando di Huawei sembra non tanto dovuto a preoccupazioni per la sicurezza nazionale quanto una mossa non convenzionale all'interno della guerra commerciale in atto. Una mossa che finirà per colpire, tra l'altro, anche aziende statunitensi che non potranno più vendere i propri chip al gruppo cinese. Un'ulteriore giro di vite protezionista di cui non si sentiva il bisogno.
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