La riflessione
«Questa di Marinella è la storia vera» cantava De André, un incipit perfetto per un'altra narrazione altrettanto dolorosa, che non può essere archiviata come un fatto di cronaca qualsiasi. Marinella Beretta aveva 70 anni e, qualche giorno fa, è stata ritrovata senza vita nella sua villetta di Presino, una zona periferica di Como. Morta in casa, probabilmente per un malore, era seduta su una sedia della cucina. È rimasta lì, per due anni e mezzo, mummificata. Marinella era sola, non aveva parenti, né amici. Aveva venduto la sua casa conservandone l’usufrutto a vita. Ed è stato proprio il nuovo proprietario, uno svizzero, a rivolgersi alle forze dell’ordine, allertato dai vicini per alcuni alberi pericolanti in giardino.
Così la scoperta del cadavere e la notizia è rimbalzata, fugacemente, sui media. La storia di Marinella è l'emblema di una condizione molto diffusa oggi, peraltro acuita dalla pandemia: un dramma della solitudine portato all'estremo. Il fatto che il suo prato fosse una giungla di erbacce non ha insospettito nessuno. Che la cassetta della posta tracimasse di buste e bollette, nemmeno. Che nessuno l’avesse incrociata per strada, neppure. Hanno dovuto fare uno sforzo di memoria, i vicini, quando i poliziotti hanno chiesto da quanto non la vedessero. Marinella è rimasta a decomporsi su quella sedia mentre il mondo continuava a girare e il postino continuava a depositare bollette. Per due anni e mezzo. Nel frattempo, in Italia, si è diffuso il Covid-19, ci sono stati lockdown e morti, è arrivato il vaccino e con esso la speranza di lasciarsi alle spalle la pandemia, definitivamente.
L’hanno trovata solo per caso, per il forte vento che nei giorni scorsi giorni ha sferzato la Lombardia. A questo punto due domande dobbiamo farcele. Quella in cui viviamo è una società complessa, multi-etnica, multi-religiosa, multi-culturale, globalizzata, in cui tutti sono interconnessi, grazie alla rete e ai social network, con il resto del mondo. Le persone, tuttavia, sono ricche di legami deboli, per dirla con il sociologo Mark Granovetter e fanno fatica a essere connesse nella prossimità. Chi sono i nostri vicini di casa? Chi abita nel nostro condominio? Chi vive nella nostra strada, nel nostro quartiere? Non siamo tenuti a saperlo, non ci è dato saperlo. Ecco allora che la mancata conoscenza reciproca alimenta la distanza sociale e, in ultima istanza, la solitudine.
Servirebbe «un'arte del buon vicinato» e su questa linea, va rimarcato, esistono interessanti sperimentazioni in Italia. Un esempio sono le «social street», gruppi di vicini che hanno riscoperto l’importanza di vivere connessi – online e offline – come antidoto alla solitudine. In quattro anni, il fenomeno ha visto attivare ben 428 esperienze. E' una sorta di modello, esportabile e adottabile da tutti coloro che sentono la necessità di un cambiamento, di una inversione di tendenza nel modo di vivere e sono disponibili ad attivarsi, a impegnarsi in prima persona, assieme agli altri. Si tratta di una idea semplice, tanto semplice da risultare efficace, perché i vicini di casa tornano a frequentarsi, ad essere collaborativi, a scambiarsi favori come accadeva in passato, restando quello che sono: un gruppo informale di persone che abitano nello stesso luogo. Altro esempio, in Veneto, dove è nato un progetto di piccolo affido di anziani, coordinato da un'associazione di volontari.
La testimonianza di Renata, a cui è è stata affidata una donna di settantacinque anni, senza figli e molto sola, dice tutto. All'inizio non è stato facile, lei piangeva spesso, era depressa. «Non ho fatto nulla di più che starle vicino – ha spiegato Renata- ascoltarla, proporle di andare fuori, a fare la spesa, a prendere un aperitivo». Piano piano questa vicinanza ha funzionato e la donna ha ricominciato a prendersi cura di sé, a uscire dall'isolamento. Certe solitudini sono circondate da rumori, suoni, voci, passi. Sono quelle più dolorose e difficili da accettare. La storia di Marinella non deve cadere nell'oblio.
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