Editoriale
L’invasione dell’Ucraina dura da poco più di due settimane, un tempo breve anche per una società innamorata dell’istante come la nostra. Eppure, il cumulo di orrori che si sono accumulati in questo breve spazio di giorni in un territorio così vicino a noi ci appare sempre più intollerabile e tutta questa angoscia si riflette nei nostri discorsi e nelle nostre vite quotidiane dopo due anni dove la paura di un nemico invisibile aveva annichilito le nostre vite che sono fatte di relazioni sociali oltre che di famiglia e lavoro (in smart working). Un senso di impotenza ci assale e con esso la rabbia di chi vede da distante una patente ingiustizia senza avere la possibilità di intervenire. Questa empatia profonda, questo indignarsi per le sofferenze delle vittime, è talmente radicata in noi da essere la base naturale del nostro sentimento morale. Dunque, tutto quanto sembra semplice, maledettamente semplice. Peccato che non sia così perché le cose sono semplici e complicate assieme come spesso accade nelle vicende umane.
Qualche giorno fa il sociologo Edgard Morin - cent’anni di saggezza, che Dio lo benedica! - ce lo ricordava
con queste parole: «la semplicità (della situazione) sta nel fatto che vi sono un aggressore e un aggredito, che l’aggressore è una grande potenza e l’aggredito è una nazione pacifica. La complessità sta nel fatto che il problema ucraino è non soltanto tragico e sconvolgente, ma ha varie implicazioni intricate e collegate tra loro e molteplici incognite». Partiamo dalla cosa semplice, poi cerchiamo di analizzare alcune - solo alcune, per carità - delle cose più complicate.
Sul fatto che la Russia - o meglio chi comanda in Russia, cioè Vladimir Putin e la sua cerchia di potere, fatta di «siloviki», cioè uomini che fanno parte degli apparati della forza, piuttosto che di oligarchi, cioè ricchi imprenditori - abbia aggredito al di fuori di ogni regola del diritto internazionale l’Ucraina non possono esserci dubbi. Come non possono esserci dubbi sul diritto di una nazione sovrana di associarsi a un’alleanza militare difensiva come la Nato o di aderire a un progetto come quello dell’Unione europea. Non esiste alcun diritto di invadere una nazione vicina in base al presupposto che si teme divenga un avamposto dello schieramento contrapposto. Ci sono, naturalmente, problemi di opportunità politica che rendono complesse cose che in punta di diritto sono semplici, ma la strada è quella della diplomazia e del negoziato, non quella della spaventosa e disumana aggressione scatenata dalla Federazione russa.
E qui arriviamo a un punto di quelli complicati, quello dell’identità nazionale. Perché questa guerra, da qualunque parte la si guardi, è una guerra tra fratelli, o, meglio tra cugini di primo grado. Cerco di farmi capire con un esempio: Svetlana Aleksievič, l’ultima scrittrice in lingua russa ad aver preso il Nobel per la letteratura, ha un passaporto bielorusso e vive a Minsk, capitale di quello Stato, ma è nata nel 1948 a Ivano-Frankivsk (allora si chiamava Stanislav, per aumentare la complicazione) nell’ovest dell’Ucraina, che prima della Seconda guerra mondiale era occupata dalla Polonia, da padre bielorusso e da madre ucraina. Naturalmente la Aleksievič è russofona, come una parte di chi vive in Ucraina e come lo stesso presidente Volodymyr Zelensky. Un’identità multipla che è comune in quella zona dell’Europa. Ma l’avere come lingua materna il russo, non vuol dire far parte in modo automatico del fantomatico «russkij mir», il mondo russo, da riunificare sotto un’unica bandiera imperiale di cui straparla Aleksandr Dugin, l’ideologo di Putin. Se così fosse la gente di Mariupol avrebbe accolto con i fiori le truppe russe. E lo stesso gli abitanti di Odessa. Invece la resistenza è stata feroce, proprio perché, contrariamente a quanto molti, anche in Occidente, pensano esiste un’identità ucraina che è complessa ma unita a maggioranza nelle scelte fondamentali, come quella dell’appartenenza allo spazio europeo e occidentale. L’aver sottovalutato questo sentimento nazionale ancora nascente, ma forte e vigoroso, è l’errore strategico più grosso di Putin.
In conclusione, affrontiamo il problema più grosso di tutti, cioè quello che possiamo fare noi occidentali. Per riprendere le parole di Morin: «l’Occidente cerca di fare tutto il possibile senza l’essenziale, ossia la guerra, che sarebbe una catastrofe generale che farebbe precipitare l’Ucraina, l’Europa e l’America in un terrificante nuovo conflitto mondiale». Quindi sì agli aiuti, anche con materiale bellico, ma fino a un certo punto per non diventare nazioni cobelligeranti: questo vuol dire armamenti individuali – anche sofisticati – e supporto di intelligence e logistico, ma niente aerei e nemmeno la messa in atto di una «no-fly zone». Cose che il presidente Zelensky continua a chiedere, ma che non otterrà mai. Il rischio, quello di una Terza guerra mondiale combattuta con armi nucleari, è troppo grande. Restano le sanzioni economiche che, nel lungo periodo, saranno devastanti per l’economia russa, ma che non fermano l’invasione nel breve periodo. E che provocano problemi enormi anche al nostro tessuto economico: le sanzioni sono una sorta di chemioterapia per cercare di debellare un cancro e gli effetti collaterali possono essere pesanti, soprattutto per l’Italia che dipende dal punto di vista energetico dalla Russia e che è un paese che fino all’altro giorno aveva un fiorente interscambio con la Russia, nonostante le sanzioni già in atto. Alla fine, facendo tutto il possibile, ma non l’essenziale che ci porterebbe alla catastrofe, non resta che sperare in un barlume di intelligenza politica da parte di Putin che, probabilmente e nonostante la resistenza strenua che sta incontrando, ha la forza per invadere una parte dell’Ucraina, ma non per mantenerne il possesso. E che sta portando il suo Paese nel baratro dell’isolamento internazionale e di una recessione economica senza ritorno.
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