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Editoriale

I partiti del «me ne frego» e i rischi per l'Italia

I partiti del «me ne frego», lo sguardo a putin  e il rischio di affossare il  paese

di Pino Agnetti

22 Luglio 2022, 14:10

Sarà un caso. Ma mentre mercoledì al Senato si consumava la crisi più assurda e insieme suicida della storia repubblicana, il Cremlino annunciava che «ora il Donbass non ci basta più». Nello stesso momento, Rocco Casalino si metteva a saltare come un matto di fronte a Conte gridando «Elezioni! Elezioni!». E poche ore più tardi (cioè ieri mattina), lo spread schizzava in avvio a 243 punti (peggio anche della Grecia) mentre Piazza Affari indossava la maglia nera delle borse continentali. Eppure, fino all’altro giorno, eravamo ancora il Paese che aveva sbalordito tutti crescendo nel 2021 più di ogni altro in Europa (+6,6%), affrontando e superando la fase più acuta della pandemia, ottenendo da Bruxelles 220 miliardi di finanziamenti (la quota più alta in tutta la Ue) da investire nel Pnrr e infine prendendo le redini insieme agli Usa e alla Francia della «resistenza» delle democrazie occidentali alla tragica invasione russa dell’Ucraina. Tutto questo sotto il governo di Mario Draghi: un governo «neutro» e di larghissima coalizione comprendente tutti i principali partiti, tranne FdI (che però sulla politica estera e in particolare sull’Ucraina ha sempre appoggiato la linea atlantista di Draghi).


Quel governo avrebbe comunque terminato il proprio lavoro al più tardi entro la primavera prossima, con la fine naturale della legislatura e il ritorno alle urne. Che cosa abbia impedito ciò, vanificando gran parte dei risultati appena ricordati e precipitandoci di nuovo nel buio più fitto proprio quando si sarebbe trattato di serrare i ranghi per fronteggiare l’inflazione alle stelle, la crisi energetica e climatica senza precedenti e la recessione ormai alle porte, è presto detto: il ritorno a vele spiegate sulla scena politica italiana del partito del «chi se ne frega». Una pittoresca e variegata compagnia che alla fine non ha avuto neppure il coraggio e la dignità di votare apertamente contro quell’ex banchiere centrale che, a differenza di altri, la faccia e anche il cuore ce li ha messi fino all’ultimo. Nonostante 17 mesi di sfide esterne formidabili e di fibrillazioni interne di ogni genere che avrebbero spinto anche Giobbe a gettare la spugna anzitempo e a mandare tutti al diavolo.
Pur di fargli saltare i nervi e di trovare un pretesto per liberarsene, si erano pure inventati la storiella delle telefonate fatte da lui a Grillo per chiedere la testa di Conte. Un giochino puerile, studiato a tavolino da chi appena quattro anni fa era entrato trionfante in Parlamento con l’intento dichiarato di «aprirlo come una scatoletta di tonno», per dimostrare ben presto di avere assimilato alla perfezione certi sistemi da bassa, anzi bassissima, Repubblica. E tutto per il terrore di dovere tornare a spostarsi in tram invece che su un’auto blu. Che poi a premere il grilletto stavolta non siano state le truppe dell’autoproclamato «avvocato del popolo», Giuseppe Conte, bensì le forze del cosiddetto «centrodestra di governo», è qualcosa che ha lasciato letteralmente ammutoliti pure i governatori leghisti del Nord Zaia e Fedriga, o il sindaco anch’egli di centrodestra di Venezia Brugnaro, che in un video alla vigilia del «dies irae» si era rivolto direttamente a Draghi con queste precise parole: «Presidente Draghi, scelga di non darla vinta al partito del no. Scelga di stare dalla parte degli italiani. Glielo chiedo da sindaco. Glielo chiedo da cittadino. Abbiamo bisogno di un governo in carica che porti a casa le grandi riforme. Abbiamo bisogno di lei, presidente!». A smentire definitivamente la tesi che il famoso appello in cui oltre duemila sindaci - fra i quali anche quello di Parma, Michele Guerra - avevano chiesto al premier di andare avanti e alle forze della sua maggioranza di continuare a sostenerlo fosse una iniziativa politicamente targata. Come non lo erano di certo gli appelli analoghi piovuti per giorni dal mondo dell’imprenditoria, del terzo settore, della sanità («angeli della pandemia» in testa), della scuola, dell’università e dello sport.


Ora però, come ha scritto Gianrico Carofiglio, «'a nave dei folli si avvia a destinazione». Il problema è che sulla fiancata della nave è dipinto il nome di un Paese, il nostro, che esce da questo drammatico passaggio enormemente indebolito e in più esposto alla rinnovata diffidenza dei nostri partner europei che proprio in Draghi avevano trovato un leader in grado di tranquillizzarli sul nostro conto e, al tempo stesso, di guidarli verso una Europa finalmente più equa, coesa e forte.
Tutto bruciato nel breve volgere di una fiammata di follia, in realtà lungamente cercata e preparata. Per la gioia - Casalino e solite falangi di odiatori social a parte – anche, se non in primo luogo, di Putin. Ma sono cose che capitano quando a prevalere, infischiandosene del sempre tanto invocato «popolo», è il partito del «chi se ne frega».
Una formula teorizzata esattamente novant'anni fa da Benito Amilcare Andrea Mussolini che così scriveva nel 1932: «L’orgoglioso motto squadrista Me ne frego è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’accettazione dei rischi che esso comporta, è un nuovo stile di vita italiano». Non c’è bisogno di vedere - sbagliando - dei fascisti ovunque per rabbrividire all’idea di dove ci possa condurre un siffatto «stile di vita» nelle acque terribilmente incerte e inquiete in cui già navighiamo e che ci aspettano.

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