editoriale
Potrà sembrare un paradosso, ma i temi del digitale, che più degli altri dovrebbero concorrere a disegnare la società del futuro e a formare le nuove generazioni, sono stati pressoché ignorati in campagna elettorale e sono rimasti nettamente sullo sfondo nei conciliaboli per la formazione del nuovo governo. L’anomalia si spiega con lo scarso ritorno di voti generato dalle discussioni sulle nuove frontiere dell’innovazione tecnologica. In altre parole, se un leader politico promette meno tasse o più sussidi raccoglie consensi, mentre se disquisisce anche in maniera dotta e documentata di banda larga e web 3.0 non viene preso sul serio poiché si ritiene parli di argomenti di importanza secondaria. Questo luogo comune, da una parte svela l’incapacità della politica di parlare in maniera incisiva ed empatica ai giovani e di far assaporare all’elettorato il gusto della costruzione di un esaltante avvenire anche digitale, dall’altra conferma che la digitalizzazione non viene considerata un paradigma imprescindibile della crescita del Paese ma solo uno degli elementi che determineranno il suo sviluppo. Eppure, durante la pandemia, in particolare nei periodi di lockdown, la Rete è stata decisiva per la sopravvivenza di molte attività e ha consentito alle imprese e alle pubbliche amministrazioni di continuare a operare nell’interesse dei cittadini.
Senza il web tanti traguardi in termini di produttività e di relazioni umane non avremmo potuto raggiungerli e oggi descriveremmo un mondo decisamente meno ricco di quello attuale.
C’è da sperare, quindi, che nella legislatura appena avviata l’agenda delle priorità tenga sufficientemente conto dell’apporto ormai insostituibile che il digitale può assicurare ai singoli ambiti della vita pubblica e privata. Il Pnrr, con i vari progetti relativi alla digitalizzazione, può rappresentare un volano per compiere quella svolta, non più rinviabile, verso un ecosistema digitale inclusivo, responsabile e sempre più democratico.
Si è parlato con insistenza, nelle settimane scorse, della possibilità di mantenere in vita, addirittura con competenze rafforzate, il Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale. Una forza politica spingeva perché questo dicastero fosse ubicato a Milano, proprio in ragione della leadership nazionale che il capoluogo lombardo può rivendicare in materia di start up digitali e infrastrutture di rete. Il nuovo governo Meloni ha tuttavia fatto una scelta diversa: cancellare il dicastero dedicato alle nuove tecnologie e puntare su azioni coordinate e convergenti di altri ministeri, tra i quali il Ministero per le imprese e il made in Italy (ex sviluppo economico), magari con un sottosegretariato ad hoc, e il Ministero della pubblica amministrazione, senza escludere un diretto coinvolgimento del Dipartimento informazione ed editoria di Palazzo Chigi, sotto il profilo di possibili interventi a sostegno dell’editoria on-line e per la valorizzazione del digitale nella filiera di produzione e distribuzione dei contenuti creativi.
Un Ministero che si occupasse a tempo pieno di tutti i dossier relativi al digitale sarebbe stato di per sé garanzia di serietà e attenzione dell’esecutivo ai temi delle nuove tecnologie? Non è affatto detto, anche se, a onor del vero, il Ministero dell’innovazione tecnologica e la transizione digitale, affidato durante il governo Draghi a Vittorio Colao, ha impresso una spinta incoraggiante all’efficacia delle politiche industriali in materia di digitale e al rispetto degli impegni presi con la Commissione europea per quanto riguarda la realizzazione dei progetti inseriti nel Pnrr. Nel documento “Italia digitale 2026” il team di Colao ha riassunto le iniziative intraprese, i risultati conseguiti e le azioni in calendario. Una sorta di “testamento digitale” che andrà valorizzato nella prossima legislatura, dando concretezza attuativa a tutti i punti qualificanti della strategia per la digitalizzazione del sistema Paese.
Volendo redigere un elenco di priorità, una sorta di “Manifesto della Rete”, condiviso da tutte le forze politiche, e sul quale le forze di maggioranza possano coinvolgere nel concreto, e non solo come iniziativa di facciata, le opposizioni in Parlamento ma anche le forze vive della società e del mondo delle imprese, non si può non partire dal nodo delle connessioni insufficienti.
Per valorizzare la Rete e incrementarne gli usi, occorre mettere mano anzitutto al capitolo infrastrutture. L’insufficienza delle connessioni in molte aree del Paese non può più essere trascurata. Il tema della realizzazione di infrastrutture di Rete ad altissima velocità rimane prioritario. Si tratta di un volano preziosissimo per la ripartenza delle aziende dopo il Covid. I fondi del Pnrr serviranno anche per realizzare massicci interventi sulla connettività, ma i cantieri sono ancora agli inizi e l’aumento dei costi delle materie prime a causa del problematico scenario internazionale potrebbe impedire che quei progetti vengano condotti in porto. Sarà interessante capire se si andrà verso una rete unica e di proprietà pubblica oppure se l’integrazione delle reti naufragherà per la mancanza di strategie nazionali chiare e definite.
Al gap infrastrutturale si somma il digital divide, che ostacola l’incontro tra domanda e offerta. Tantissime imprese sono alla ricerca di manodopera qualificata, che non trovano, perché le competenze tecnologiche nel nostro Paese non sono così diffuse come in altri Stati d’Europa. Occorre operare su due fronti: la valorizzazione della cultura digitale fin dalle scuole dell’obbligo e delle discipline Stem (scientifico-tecnologiche) in tutti gli ambiti formativi; l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni di figure esperte in tecnologie digitali e in grado di far compiere agli uffici pubblici il sospirato salto di qualità in termini di efficienza organizzativa e di professionalità nell’erogazione dei servizi.
Infine occorre un colpo d’ala sul versante della tutela dei diritti in Rete e della cyber security. Sarà fondamentale intraprendere azioni mirate per contrastare fenomeni quali la pirateria, che rischiano di impoverire le industrie creative di ogni settore, e per incentivare gli investimenti in cyber security, al fine di proteggere i dati aziendali, sempre più minacciati dagli attacchi informatici. Una battaglia giuridica, tecnologica e soprattutto culturale, per disegnare uno scenario digitale meno tossico e più sano, che favorisca la crescita armoniosa delle persone, delle imprese e degli Stati.
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