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EDITORIALE

Guerra in Ucraina: ora c'è uno spiraglio

Ucraina: missili su Zaporizhzhia, 17 morti

di Pino Agnetti

19 Giugno 2023, 10:27

Credo che i lettori (non solo di questo giornale) non ne possano più di analisi e di controanalisi sulla guerra in Ucraina. Un po’ perché a forza di resoconti uno più spaventoso dell’altro è normale provare un senso di ripulsa misto ad assuefazione nei confronti dell’orrore. E un po’ perché molti dei nostri problemi quotidiani, inflazione galoppante in testa, sono riconducibili sempre all’Ucraina. Non sarei quindi tornato a parlarne se, a sedici mesi dall’inizio della invasione ordinata da Putin, non si cominciasse a intravedere per la prima volta uno spiraglio. Non mi riferisco ai tanti «piani di pace» (cinese, brasiliano e da ultimo pure africano) in circolazione.

Né alla famosa «mediazione» del Vaticano, dai contorni a sua volta quasi imperscrutabili. Bensì, a quanto sta avvenendo (o non avvenendo) sul campo. Vale a dire alla controffensiva ucraina. Che quest’ultima possa riuscire a liberare tutti i territori invasi da qui all’estate è qualcosa a cui nessuno crede neppure a Kiev. Solo un crollo militare generalizzato quanto repentino degli occupanti (o un golpe a Mosca altrettanto improbabile almeno per ora) potrebbe consentirlo. E da quel poco che filtra dal terreno, gli ucraini stanno sì avanzando, ma molto lentamente e al prezzo di perdite umane e di materiali (compresi i moderni carri armati forniti dall’Occidente) consistenti. Entro agosto o settembre al massimo (oltre quel termine non avrebbe più senso parlare di «controffensiva» non potendo questo tipo di operazioni durare in eterno), sarà dunque possibile tracciare un quadro dei reali rapporti di forza certamente più attendibile di adesso. Ed è a quel punto (ma non prima di allora) che avrà finalmente un senso parlare di negoziato. Quello a cui, a dispetto dei tanti «no war» da operetta in servizio permanente attivo, le diplomazie occidentali (inclusa la nostra) non hanno mai smesso di lavorare in questi lunghi e terribili sedici mesi. Lo schema è molto più semplice di quanto non si possa pensare: «congelamento» della situazione sul campo (senza che ciò comporti la rinuncia da parte di Kiev a ristabilire la propria piena sovranità territoriale) e ingresso a marce forzate dell’Ucraina sia nella Ue che nella Nato. In pratica, è come se l’America e l’Europa avessero detto e stessero dicendo a Zelensky «Vedi quanta terra potrai riconquistare grazie all’appoggio che ti abbiamo dato e che continueremo a fornirti». Dopo di che, qualunque sia stato l’esito della controffensiva in atto, l’Ucraina entrerà in un modo o nell’altro nella grande famiglia europea e atlantica potendo godere da quel momento anche della sua cornice di sicurezza pur non facendone ancora ufficialmente parte (ma con la garanzia di una corsia di accesso preferenziale sicura e veloce). Con tutte le possibili varianti del caso, è questa la tela negoziale che si sta tessendo lungo l’asse Washington, Parigi, Londra, Berlino e Roma. La stessa che potrebbe essere al centro di una grande conferenza sulla pace da tenersi entro l’estate in Europa e intorno a cui ruoterà il prossimo summit della Nato già in programma l’11 luglio a Vilnius in Lituania. Naturalmente, gli scettici (o gli jettatori) di professione si affretteranno a dire che si tratta di un piano destinato all’insuccesso. Altri, che l’unico modo per porre fine all’incubo sia di smettere di inviare armi all’Ucraina. Una idea davvero grandiosa, dato che non solo costringerebbe Zelensky ad arrendersi ma consegnerebbe l’Europa intera nelle mani di Putin. Polonia e Paesi baltici in testa. Edotti in tal senso dalla loro stessa storia, questi ultimi hanno già fatto sapere di essere pronti a intervenire direttamente in Ucraina proprio per non rischiare di fare la stessa fine di Kiev. Il che significherebbe un coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto, che a quel punto si trasformerebbe in uno scontro (anche nucleare) globale.
Tutto, quindi, depone a favore della «opportunità» negoziale descritta prima a grandi linee. E che non si tratti di aria fritta è testimoniato da una serie di segnali fattisi troppo frequenti per essere giudicati casuali. Pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. Da notare che anche i parlamentari italiani hanno votato in massa a favore (tranne un ex leghista e due esponenti dei Verdi mentre la delegazione del Movimento 5 Stelle si è astenuta). Quasi contemporaneamente, il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, è andato alla Casa Bianca per perorare la stessa causa. È vero che Biden ha poi raffreddato le acque dichiarando che «L’Ucraina non avrà un iter di accesso alla Nato agevolato e che prima deve soddisfare gli stessi standard degli altri Paesi membri». Ma il tema è ormai posto e la marcia di avvicinamento è iniziata, quando fino a un anno fa era vietato anche solo parlarne. Risparmio al lettore i soliti ghirigori in salsa geopolitica secondo cui l’ingresso nella Nato sarebbe precluso ai Paesi già in guerra o aventi delle contese territoriali in atto. Segnalo piuttosto che, sull’altro versante, Putin si è messo di colpo a parlare di «obiettivi in gran parte raggiunti» e di «soluzioni che possono funzionare».

Mentre da parte sua Kiev ha rilanciato l’idea di una zona smilitarizzata sotto controllo internazionale fra Ucraina e Russia che garantirebbe la tutela dei confini di entrambe. Qualcosa di molto simile a un nuovo «Muro di Berlino»: ma chi oggi non metterebbe la firma al ritorno a una nuova «guerra fredda» che ponga fine alla carneficina e allontani nel contempo la prospettiva di una guerra apocalittica di tutti contro tutti? Che l’orologio della guerra stia segnando l’inizio della fine non è ancora detto. Certamente, siamo e restiamo ben lontani da una pace piena e definitiva, possibile solo con il completo ritiro della Russia. Però, grazie soprattutto alla miracolosa resistenza ucraina e alla «tenuta» del mondo libero, ora uno spiraglio c’è. Allargarlo e consolidarlo è la sfida cruciale, per non dire fatale, che ci sta di fronte.

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