EDITORIALE
L’uso dei media per finalità propagandistiche da parte dei governi è una costante delle epoche belliche. Quando uno Stato entra in guerra o subisce un attacco da parte di uno Stato nemico la circolazione delle informazioni, fin dai conflitti mondiali del secolo scorso, subisce una serie di restrizioni perché prevalgono gli interessi nazionali, in particolare la sicurezza dei confini, l’ordine pubblico e la tenuta sociale. Alcune notizie vengono nascoste, altre risultano alterate dalla contaminazione con logiche autarchiche. Il diritto dei cittadini di essere correttamente informati sull’andamento del conflitto finisce per immolarsi sull’altare della ragion di Stato, con tutto ciò che ne consegue.
Nell’era dei new media la diffusione delle notizie sui conflitti passa attraverso i canali web e social, che diventano il veicolo più efficace di notizie false ed espressioni d’odio. Nello spazio virtuale si amplifica l’impatto dei contenuti fuorvianti o offensivi e dunque l’esito delle guerre risulta spesso influenzato dalle dinamiche della Rete. In altri termini la battaglia si sposta dal terreno fisico a quello digitale, con liturgie diverse ma ugualmente contrassegnate dalla violenza e dalla mistificazione della realtà dei fatti.
Se sui campi di battaglia e di sterminio mediorientali per l’annientamento del nemico si accetta anche l’autosacrificio, nelle infinite praterie della Rete il limite del rispetto dei diritti umani è stato abbondantemente travalicato, con tutto ciò che ne consegue in termini di imbarbarimento delle relazioni umane.
Proprio nelle ultime ore l’Unione europea è andata in pressing sugli Stati per sollecitare una celere applicazione del Digital services act, che dal 25 agosto è obbligatorio per i colossi della Rete e dal prossimo 17 febbraio lo diventerà per tutti gli altri operatori di Rete. La Commissione di Bruxelles, in una Raccomandazione, chiede massimo impegno nel contrastare hate speech e contenuti illegali e ritiene urgente l’individuazione delle autorità di coordinamento nazionali per tutelare efficacemente la sicurezza pubblica. «L’attacco terroristico di Hamas ha anche portato una recrudescenza dei contenuti efferati e illegali online che promuovono l’odio e il terrore. Con il nostro Digital services act (Dsa), l’Europa ha ora regole forti per proteggere gli utenti, compresi i gruppi di popolazione vulnerabili, dall’intimidazione e per garantire le libertà fondamentali online», ha affermato il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il Digital services act stabilisce una serie di regole per rendere l’ambiente online europeo sicuro e affidabile, rispettoso dei diritti fondamentali, in particolare della libertà di espressione e di informazione. Da agosto 2023, il Dsa richiede che le grandi piattaforme online adottino misure di mitigazione per i rischi sistemici dei loro software, compresi quelli derivanti dalla diffusione di contenuti illegali.
Bruxelles ha inviato formalmente a Meta e TikTok una richiesta di informazioni ai sensi del Dsa. Alla società di Zuckerberg si chiede di fornire maggiori informazioni sulle misure adottate per ottemperare agli obblighi relativi alla valutazione dei rischi in seguito agli attacchi terroristici di Hamas in Israele, in particolare per quanto riguarda la diffusione di contenuti illegali e disinformazione. A TikTok si chiede di rispettare gli obblighi sui rischi e le misure contro la diffusione di contenuti illegali, in particolare la diffusione di contenuti terroristici e violenti e l’incitamento all’odio. Le due piattaforme devono rispondere entro il 25 ottobre. Il mancato rispetto del termine potrebbe comportare l’irrogazione di sanzioni.
La presa di posizione dell’Ue appare quanto mai provvidenziale, se è vero che dietro il fenomeno dei «lupi solitari» si coglie nitidamente la spiccata attitudine a spargere veleni nel web e sui social da parte di organizzazioni come Hamas che puntano a convertire al radicalismo i musulmani sparsi in tutta Europa.
Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese in seguito all’attacco terroristico di Hamas è fin da subito uscito dall’angusto recinto della geopolitica per invadere il territorio dei media e ancor più il mondo dei social network, nel quale riceve un’amplificazione costante, che finisce per alimentare un clima altamente tossico e contrassegnato dal terrore permanente. Ad esempio i terroristi di Hamas hanno utilizzato in maniera sfacciata i social per condividere le scene delle stragi e dei rapimenti degli israeliani lungo la Striscia di Gaza e quindi per alimentare la spirale della drammatizzazione del conflitto.
Tutte queste dinamiche hanno di fatto trasformato i social in un terreno alternativo di scontro politico, ideologico e religioso. Pertanto risulta fondamentale interrogarsi sul delicato equilibrio tra libertà d’espressione e difesa della pace poiché l’impiego degli strumenti tecnologici più evoluti per far salire il termometro delle tensioni interpella il senso di responsabilità dei singoli ma anche quello dei gestori delle piattaforme web e social.
Il tema è molto controverso, tanto più perché ad esacerbare gli animi non è solo il linguaggio d’odio, non sono solo le minacce più o meno plateali. Ad accendere nuove micce destabilizzanti sono spessissimo le fake news che infestano lo spazio virtuale e generano disinformazione, disseminando sul terreno del dialogo ostacoli subdoli difficilmente disinnescabili. L’elenco di fake news è sterminato e finisce per indurre atteggiamenti e comportamenti sbagliati e per iniettare un siero letale nei circuiti mediatici che invece potrebbero avere un ruolo determinante nell’attivazione di costruttivi percorsi di pacificazione.
Se è giusto pretendere che i giganti dell’economia digitale predispongano tutte le premure operative e le accortezze tecnologiche e algoritmiche per contribuire a indirizzare lungo sentieri virtuosi l’utilizzo delle piattaforme web e social, non bisogna tuttavia sottacere che anche i giornalisti sono chiamati a un supplemento d’impegno nella narrazione delle vicende belliche, selezionando con competenza, rigore morale e costante ispirazione deontologica i contenuti da divulgare.
Con una nota, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha invitato le testate televisive ad «assicurare un uso rispettoso e responsabile delle immagini video e delle riprese, per un racconto rigoroso e attento dei conflitti», evitando di spettacolarizzare il dolore. Accanto al linguaggio d’odio e alle fake news, che imperversano nello spazio virtuale, non bisogna dunque sottovalutare neppure le lesioni della dignità umana che spesso vengono commesse dai media tradizionali, per negligenza o superficialità e che avvelenano il clima sociale inducendo un progressivo imbarbarimento del mondo dell’informazione. Niente di più deleterio per la nobile aspirazione dei media a diventare costruttori di pace.
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