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INTERVISTA

Giancarlo Tavani, non solo tortelli: vent’anni di «Due platani»

Giancarlo Tavani - Non solo tortelli: vent’anni di «Due platani»

di Claudio Rinaldi

13 Novembre 2025, 09:19

Giancarlo Tavani, quanti tortelli avete servito, in vent’anni di attività?

«Provo a fare una stima: da 2 milioni e 600mila a 2 milioni e 800 mila».

Qual è il segreto?

«È lo stesso di tutti i piatti che mettiamo nel menu: partire da una materia prima di eccellenza. Quando possibile, come nel caso dei tortelli, estremizzando il concetto di freschezza, con una lavorazione “espresso”, fatta al momento della comanda. E il piatto acquista un valore in più».

Avete scelto da subito di fare diventare i tortelli il piatto iconico del locale?

«No, la prima preoccupazione, nel novembre di vent’anni fa, è stata mantenere il percepito del locale che avevamo rilevato: una trattoria storica a cui i clienti erano affezionati. Abbiamo cercato di rispettare la tradizione, senza snaturare il concetto di locale, e di offrire qualità».

Vent’anni fa è stato subito successo?

«Bisogna intendersi sul significato di successo: è una parola che non uso mai, a me suona come punto di arrivo, e invece noi siamo in continuo movimento. In bicicletta hai equilibrio solo continuando a pedalare. E noi pedaliamo: è così da vent’anni. Più che successo immediato, diciamo che abbiamo capito presto che la strada che abbiamo scelto di percorrere era quella giusta».

Come ve ne siete accorti?

«Quando abbiamo percepito il riconoscimento dei colleghi, il loro rispetto per il nostro lavoro».

Anche il numero di “tutto esaurito” è un bel termometro.

«Questa è una cosa importante, ma da non dare mai per scontata: la continuità è il nostro primo obiettivo, la inseguiamo con la maniacalità di chi vuole essere sempre sul pezzo, tutti i giorni. È chiaro: fa piacere avere tanti clienti affezionati, è la prova che la strada è quella giusta».

C’è stato qualche momento difficile?

«Grazie a Dio, no. Abbiamo superato tutti i problemi, cambiato dei progetti, fatto modifiche in corsa. La difficoltà è, tutti i giorni, nella quotidianità: ma questo è un bene, guai se non fosse così, se non ci si sentisse sempre messi alla prova. È una cosa che ti fortifica».

Vent’anni sulla breccia, prima con Matteo Ugolotti, poi con Gianpietro Stancari. Un aggettivo per entrambi.

«Matteo è una persona curiosa, sensibile, visionaria: ci sono tante cose che ci hanno sempre accomunato, anch’io sono abituato a guardare lontano, a non limitarmi a pensare all’oggi. Giampietro è pragmatico, affidabile, paziente: è uno al quale puoi lasciare la guida dell’auto, sai che ti porterà a destinazione. Sono entrambi due grandi professionisti, con un grande palato. Ed entrambi hanno dedizione e passione per il lavoro, attenzione costante per la qualità e per il cliente».

È una casualità che siate tutti cresciuti all’Ambasciata?

«No, è stato importante per tutti e tre. L’Ambasciata è sempre stata caratterizzata dalla formalità nella totale informalità: un ambiente di altissimo livello con dettagli che non tutti sapevano apprezzare, ma che c’erano. Le candele ordinate in Vaticano perché quei formati non esistevano in commercio, i fiori freschi due volte alla settimana, il tovagliato fatto su misura. Tutti dettagli che danno un valore aggiunto».

Con una cucina all’altezza.

«Proprio così. La tradizione portata – per esecuzione e per presentazione – al massimo livello. Noi ci siamo posti l’obiettivo di portare quella qualità, quella tecnica, quel gusto alla portata di tutti».

La lezione più importante appresa dai fratelli Tamani?

«Rimanere vigili, sempre. Perché non è detto che quello che funziona oggi funzionerà anche domani. Quindi, non darsi mai per arrivati, restare in continuo movimento. E pedalare sempre. Mi è successo, una volta, mentre stavo andando a fare la spesa: mi sono accorto di avere pensato “vabbè, il locale è pieno per i prossimi due mesi, i conti sono a posto, il personale è quello giusto, possiamo anche rallentare e rilassarci un attimo”. Nello stesso istante mi sono detto “ci sei cascato”. E non ho mai più commesso l’errore».

Un altro “pezzo di storia” dei Due platani è stato Mattia Serventi.

«Come no. Penso a Mattia e penso all’affidabilità, alla professionalità, alla serietà. Sapere che c’era è sempre stata una grande certezza».

Altri protagonisti dei vent’anni di storia?

«Non dimentico chi ci ha aiutato all’inizio dell’avventura. Cito volentieri Giorgio Pagani e Paride e Mirella Pomelli. Quando non avevamo niente, hanno creduto in noi e il loro aiuto, la loro fiducia sono stati fondamentali. Penso anche al presente e al futuro: a Simone Colombini, che si sta facendo strada in cucina e sarà fondamentale per il futuro dei Due platani».

Lo sa che avete tantissimi “tifosi” e quasi altrettanti “mancati clienti”, arrabbiati perché non riescono a prenotare un tavolo?

«Lo so. I nostri “tifosi” hanno capito come farci lavorare bene e come metterci nelle condizioni di poterli servire bene con la qualità e un giusto rapporto qualità/prezzo. Con tutti gli altri mi scuso: ma io devo pensare soprattutto a chi ci aiuta a lavorare bene, prenotando un tavolo per tempo e permettendomi di organizzare al meglio il lavoro. La gente magari non ci pensa: ma è grazie all’organizzazione che riesco a portare in tavola una certa qualità e a non far “morire” in frigorifero la materia prima».

Resta il fatto che prenotare un tavolo è un’impresa.

«Non è vero. Il nostro modo di lavorare è trasparente: ad oggi, ho il locale completo per i prossimi due mesi. Il primo novembre ho aperto le prenotazioni per gennaio, il primo dicembre le aprirò per febbraio, e così via. Io consiglio a tutti di prenotare un tavolo: per me, poi, se uno cancella la prenotazione non è un problema, ho una lista d’attesa e, in caso di mancata presentazione, trovo facilmente una soluzione».

È comunque complicato.

«I giorni più richiesti sono il sabato a pranzo e a cena e la domenica a pranzo, poi si riempiono in fretta gli altri giorni. Ripe-
to: il consiglio che do a tutti è chiamare appena si aprono le prenotazioni e opzionare un tavolo. Non chiedo carte di credito,
né sanzioni per chi non si presenta. Si dà la conferma il giorno della prenotazione. Se uno cancella, non faccio storie. Tanti chiamano alle 9 per sapere se quel giorno si sono sbloccati dei tavoli: e capita spesso. Oppure chiedono di essere messi in lista d’attesa».

C’è anche chi vi accusa di favorire cuochi e celebrità. Per loro trovate sempre un tavolo?

«Falso. Se devo rischiare di danneggiare il servizio, dico di no a chiunque. È successo tante volte, anche con ospiti illustri: la maggior parte di loro capisce e apprezza il rispetto che porto ai clienti già prenotati».

Salumi e torta fritta, tortelli e lambrusco. E poi, ovviamente, il gelato. È sempre questo l’ordine più gettonato?

«Sì, ed è anche quello su cui punteremo sempre: perché sono, e devono continuare ad essere, una certezza per chi viene ai Due platani. Poi uno può ordinare, se gli va, le tagliatelle con il ragù di faraona o il piccione, ma deve sapere che quei piatti che ci caratterizzano ci saranno».

Eppure avete in menu anche piatti ricercati, non da trattoria di campagna, oltre a una carta dei vini di grande qualità.

«Sì, ci sono tanti nostri clienti che apprezzano piatti e vini più ricercati. Oltre alle “certezze”, ci piace sperimentare e offrire stimoli ai nostri ospiti».

Quando è nata l’idea del gelato?

«Non è certo una nostra invenzione. Quello che abbiamo fatto in più è dargli una sua identità, non mettendolo in mezzo agli altri dolci proposti. Abbiamo cominciato per pura casualità, quando abbiamo acquistato una bellissima macchina Carpigiani. Presa per bellezza, pensata come mobile. Ma poi ci siamo detti “perché non provare a usarla?”. Detto, fatto».

Perché non ha mai pensato di duplicare la trattoria altrove, a Parma o fuori Parma?

«Per non scendere a compromessi. Il concetto di trattoria, che è squisitamente italiano, è legato al territorio. O sei talmente forte e con le spalle così larghe da poter andare in un’altra città e “imporre” il tortello come si fa a Coloreto, o è meglio lasciare perdere. Altrimenti, devi scendere a compromessi e magari fare il tortello alla carbonara. Non se ne parla».

Come sta andando l’esperienza della “Bottega ai Due platani”?

«Bene, ma non l’abbiamo ancora sviluppata come vorremmo. È già molto frequentata: tanti la considerano come un piano B, nel caso non riescano a trovare un tavolo in trattoria. Rocco, Maia, Ettore e Corrado stanno lavorando molto bene, la gente è contenta».

Il complimento che le ha fatto più piacere.

«La stima di tanti colleghi, che hanno locali di alto livello, con pedigree illustri, che ci fanno i complimenti per come lavoriamo, per come ragioniamo, per come inseguiamo la continuità».

La critica che l’ha ferita di più.

«Quella di chi ci critica senza conoscerci».

Il cliente più difficile da accontentare.

«Quello che viene in maniera forzata al locale. Se uno pensa di cenare davanti al mare, con i piedi nella sabbia, be’, io non lo posso accontentare, anche se gli propongo il massimo della qualità che posso offrire».

Il riconoscimento che le ha fatto più piacere.

«Potrei dire il premio della “Guida L’Espresso” come migliore trattoria d’Italia. Ma più ancora, e mi ripeto, dico la soddisfazione di avere i miei colleghi a pranzo o a cena, e tanti di loro che mi “raccomandano” a loro amici».

Un aneddoto che vale la pena di essere raccontato.

«Difficile sceglierne uno, tra i tantissimi. Più che un aneddoto, cito l’espressione dei clienti attenti che, all’ingresso, osservano la pressa per le anatre. O il fatto che George Blanc sia venuto a mangiare da noi. O che Michel Troisgros, chef della “Maison Troisgros”, abbia voluto conoscerci, in omaggio alla “Locanda dei platani” che aveva fondato suo nonno Pierre. Per una trattoria di Coloreto è una cosa che vale tanto».

Siete sempre più “corteggiati” anche per catering di qualità in giro per l’Italia. Vi sentite ambasciatori della tradizione culinaria parmigiana?

«Non so. Penso che per noi la cosa più importante è fare tutto con la massima serietà. Vogliamo essere attendibili e proporre qualità, vogliamo essere sempre quello che la gente si aspetta che siamo: è la cosa più importante e più difficile da mantenere».

Appena ha qualche giorno di ferie, gira in tutta Europa e frequenta i grandi maestri tristellati. Per mangiare bene o anche per imparare?

«Per capire fino a che punto il nostro settore si possa spingere. Vedere la Formula 1 mi permette anche di capire cosa possiamo permetterci di fare ai Due platani».

Qual è la lezione che non dimenticherà?

«Il fatto che anticipare il cliente fa parte del servizio. Essere in un tre stelle significa provare l’esperienza di qualcuno che, senza che tu te ne accorga, riesce a capire ciò di cui hai bisogno: dal tuo atteggiamento, da come ti muovi. L’empatia è fondamentale: perché riesci a creare quella connessione con il cliente per cui un pranzo non è solo mangiare bene, ma è un’esperienza».

I suoi tre chef preferiti.

«Io ho degli amici che, al di là della cucina che propongono, mi fanno stare bene: e a me interessa questo, più che i piatti che mangio. Certo, è importante la qualità di ciò che arriva in tavola, ma non lo è meno passare due ore in modo spensierato».

Il ristorante a Parma dove va più volentieri.

«A maggior ragione, vado dagli amici. Non faccio classifiche: per me, con il poco tempo libero che ho, è fondamentale stare bene, in amicizia. Vado da Fabio Romani a Vicomero, da Enrico Bergonzi al Vedel, dai ragazzi di Cortex: la discriminante non è la cucina che propongono, è il rapporto umano di amicizia, la cosa più importante».

In Italia?

«Vale lo stesso discorso di Parma: vado dagli amici. Dai Circella alla Brinca di Ne, da Diego Rossi a Milano, da Gennarino Esposito a Vico Equense, da Salvatore Tassa a Acuto. L’elenco è molto più lungo: in qualsiasi angolo dello Stivale ho un amico che è quasi un fratello, con il quale condividere volentieri due-tre ore di spensieratezza e buona tavola».

All’estero?

«Cito tre posti che mi hanno segnato, o che hanno un piatto che mi ha stregato: Elkano a Getaria, nei Paesi Baschi, dove si va a mangiare il rombo più buono della vita. Tre famiglie di pescatori da generazioni procurano al ristorante il miglior pesce che si possa trovare. Poi l'ostrica, servita con sale nero e mango, da Atala al Dom, a San Paolo in Brasile. E il Frechon, al Bristol di Parigi: ricordo ancora l’animella cotta nella foglia di tabacco con la cannella: vale il viaggio».

I tre vini del cuore o i tre uomini del vino che l’hanno più colpita.

«In Italia Pergole Torte, Montepulciano d'Abruzzo e Trebbiano di Valentini, il Barolo etichetta rossa di Giacosa, velluto in bocca, grandissimo prodotto. Poi Henri Jayer, padre della Borgogna, che ha insegnato agli altri vigneron come si fa il vino: è mancato nel 2006, io ho avuto la fortuna di bere una sua bottiglia, la porterò sempre nel cuore, oltre che tatuata sul braccio. E poi Comando G, una Grenache d'Avila spagnola, di un colore rubino intenso e di una eleganza e una pulizia in bocca sorprendenti: la tomba del re Moro è indimenticabile».

Il piatto che vorrebbe mettere in menu.

«Il sogno, che temo irrealizzabile, sarebbe di mettere in carta un piatto preparato con la presse de canard: si prendono le anatre a mezza cottura, si tolgono i petti e le cosce e il resto della carcassa viene messo nella pressa, con la quale si estrae il succo della cottura e parte di quello che è rimasto, ancora non cotto. Troppo complicato da reinserire, però».

Sogna una stella Michelin?

«No, in tutta onestà. Abbiamo altri obiettivi, che viaggiano in parallelo con la Guida Michelin. E lo dico con il massimo rispetto: anzi, siamo molto contenti della collaborazione, che procede da tempo, e onorati per nuovi incarichi che la Michelin ci sta affidando».

Un sogno nel cassetto.

«Non c’entra con la ristorazione: il sogno è dedicato a mia figlia. Le auguro di tornare ad avere l’idea che il futuro sarà sempre migliore del passato, portando comunque rispetto per la storia e imparando da essa, e di inseguire le proprie passioni. È un augurio che faccio a tutti i ragazzi di oggi, che hanno meno stimoli di quelli che abbiamo avuto noi».

Claudio Rinaldi

© Riproduzione riservata

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