HI-TECH
Per comprendere l’essenza degli esports, il fenomeno in ascesa delle competizioni virtuali, non c’è forse niente di meglio che dare un’occhiata ai fighting game. Con i loro rapidi duelli, che richiamano le arti marziali, sono probabilmente la tipologia di videogiochi che più riesce a farsi capire anche da chi è digiuno della scena agonistica del digital entertainment. Una volta i campioni si incontravano nelle grandi sale arcade, tipiche del Giappone, patria del genere, ma a imprimere uno slancio internazionale è stata la progressiva smaterializzazione dei ring per mezzo dell’affermazione del multiplayer online che oggi la fa da padrone. Anche se molti giocatori non parteciperanno mai a un torneo dal vivo in carne e ossa, Tekken 8 con un pizzico di romanticismo in una delle sue modalità principali cita proprio quelle sfide seduti fianco a fianco, davanti ai classici cabinati mangiamonetine che negli anni Novanta hanno fatto esplodere il filone. Ciascuno con il proprio avatar, ci si diverte a scalare i ranghi di un tour mondiale che nella realtà esiste davvero: organizzato a cadenza annuale sotto l’egida dell’editore Bandai Namco, il Tekken World Tour rappresenta uno degli eventi clou degli esports. Negli ultimi tempi, soprattutto su console, si è assistito al ritorno in auge dei cosiddetti picchiaduro, attraverso le riscritture di tante saghe popolari del passato, da Street Fighter a Mortal Kombat. Il nuovo Tekken 8, appena pubblicato per Pc, Playstation e Xbox dalla major nipponica, si pone in cima alla lista delle produzioni più importanti. Molto atteso dai fan, è praticamente l’unico grosso titolo rimasto a interpretare la rivoluzione 3D, in cui gli avversari si muovono in ogni direzione, lungo gli ipotetici otto assi, assicurando più varietà e libertà di azione, rispetto alle regole convenzionali dei match in 2D ancora seguite adesso dalla maggioranza dei fighting game. Dietro ci sono decenni di evoluzione tecnica, considerato che Tekken è un’altra di quelle uscite storiche che hanno debuttato nel secolo scorso, cogliendo al balzo la svolta della grafica poligonale. Anche dal punto di vista audiovisivo Tekken 8 si riallaccia alla tradizione di lasciare il pubblico a bocca aperta, primo gioco di lotta squisitamente next-gen, quasi indistinguibile da un film. In effetti, in un altro dei numerosi modi di affrontare il titolo, le sequenze animate non mancano, mentre si raccontano in maniera cinematografica le vicende dei diversi personaggi che si possono controllare, familiarizzando con i loro stili di lotta, che ricalcano il karate come il wrestling o il kung fu. Sullo sfondo la proverbiale follia della serie, che a dispetto di qualunque moda ha mantenuto intatto fino ai giorni nostri il suo carattere forte e bizzarro, in grado di mischiare con animo eclettico influenze da ogni angolo del globo, ma anche registri, dal comico al drammatico, per un risultato comunque sempre altamente spettacolare. Il re dei picchiaduro 3D è ricomparso sul palco in forma smagliante e con l’idea di tenersi stretta la corona, grazie a un capitolo straordinariamente opulento, ricchissimo di cose da fare e aspetti da sviscerare, destinato a dominare per anni.
Una completa riscrittura del mito, quello inciso nella storia dei videogame, ma anche delle leggende tra sogno e realtà che ne hanno ispirato le atmosfere da Le mille e una notte, nel cuore del Medio oriente. Prince of Persia: The Lost Crown è l’ultimo guizzo di Ubisoft, che torna a stupire tirando fuori dal cappello un titolo sorprendente, realizzato andando in direzione ostinata e contraria ai dogmi delle major. Figlio della vivacità della scena indipendente più che della corsa ai canonici blockbuster, la nuova produzione del team di Montpellier, dalla cui fucine sono usciti i Rayman e Valiant Hearts, rappresenta quasi un ribaltamento delle convenzioni in grado di annullare le distanze, mostrando forse la via per un futuro del digital entertainment più sostenibile. In pratica è come avere tra le mani uno di quegli indie che in questi anni hanno recuperato al meglio certe tradizioni, ma con dietro il sostegno di una grande compagnia che permette di alzare l’asticella, toccando valori altissimi, abbastanza inediti per il panorama. The Lost Crown si dimostra l’esempio perfetto di un relativamente piccolo progetto che consente un po’ a tutti, pubblico e sviluppatori, di respirare aria fresca tra un kolossal e l’altro. Proprio dall’eredità di Prince of Persia discende indirettamente ancora oggi una delle maggiori serie di Ubisoft, l’epopea di Assassin’s Creed che ha seguito nei primi anni Duemila il reboot di The Sands of Time. The Lost Crown si ricollega invece più da vicino agli originali in rotoscope di Jordan Mechner, l’acclamato game designer che, dopo aver firmato Karateka, portò al debutto Prince of Persia su Apple II nel 1989. Solo in apparenza un revival, The Lost Crown introduce un profondo cambio di prospettive, a cominciare dal protagonista e dalla trama che vi ruota attorno, emblema della volontà di una rilettura contemporanea che attraversa l’intera opera, raffinato metroidvania disegnato come un cartoon 2D al ritmo di mappe labirintiche, potenziamenti, battaglie coi boss e un elaborato combat system nei quali si incontrano tanto l’influenza del classico Castlevania di Konami quanto quella più recente dei Dark Souls di Fromsoftware. Anche in questo sguardo aperto c’è l’idea del continuo reinventarsi che anima un progetto come il nuovo Prince of Persia, dove persino nella chiave fantasy di antichi miti si coglie l’accuratezza per il contesto storico diventata marchio di fabbrica dell’Ubisoft degli Assassin’s Creed, ora alle prese con il racconto dell’esercito degli Immortali, dei djinn, del monte Qaf e dell’uccello lucente Simurgh, enfatizzato dalla scelta di inserire tra le opzioni il doppiaggio in farsi, capace di aggiungere ulteriori suggestioni sulla falsariga dell’arabo per la Baghdad del IX Secolo ritratta in Assassin’s Creed Mirage.
Attesissima dai fan, la trilogia rimasterizzata di Apollo Justice va a completare l’operazione di far riscoprire, grazie a edizioni dove l’alta definizione viene applicata a ogni dettaglio, le serie principali di Ace Attorney, il legal dramma, dalle sfumature irresistibilmente umoristiche, che dal 2001 non ha smesso di appassionare, vuoi per i personaggi bizzarri ritratti a tutto tondo, vuoi per i casi dibattuti in tribunale per riuscire ad accertare la verità e condannare i colpevoli. Tra i meriti del video game di Capcom c’è anche aver rotto il ghiaccio in occidente con quel genere tipicamente giapponese di narrazione multimediale, le visual novel, che fino ad allora aveva faticato a farsi conoscere all’estero, cominciando invece la sua ascesa. La platea internazionale di aficionados si è ampliata nel tempo, grazie anche ai remake in HD per le console di nuova generazione, intercettando pure coloro che, per motivi anagrafici, non avevano potuto mettere le mani sui titoli originali. La formula ha funzionato e adesso, con Apollo Justice: Ace Attorney Trilogy è arrivata la conferma per i tre classici contenuti nella collezione. Si tratta di Apollo Justice: Ace Attorney e dei due sequel Phoenix Wright: Ace Attorney — Dual Destinies e Phoenix Wright: Ace Attorney — Spirit of Justice. Ambientato sette anni dopo la precedente avventura di Phoenix Wright, Trials and Tribulations, con Apollo Justice: Ace Attorney si assiste subito a un susseguirsi di colpi di scena. Phoenix Wright finisce addirittura sul banco degli imputati, accusato di omicidio, ma il suo amico Kristoph Gavin, che aveva accettato di difenderlo, deve rinunciare all’incarico in quanto anche testimone a favore del collega. L’onere di scagionare Phonix Wright va così a gravare completamente su colui che doveva partecipare al dibattimento solo come assistente, il novellino Apollo Justice, presto coinvolto di ulteriori inchieste, dando prova delle sue capacità, nel collegare indizi e vicende, nello smascherare trappole e fosche trame abilmente architettate, nell’evidenziare contraddizioni e incongruenze, assicurando i colpevoli alla giustizia. In Dual Destinies il pool di difensori diventa un trio, con l’aggiunta di Athena Cykes, specializzata in psicologia analitica, mentre tornano altri volti conosciuti in passato, come la figlia adottiva di Phoenix, Trucy Wright, che si diletta di magia, e la medium Maya Fey. Se la razionalità e lo spirito di attenzione sono fondamentali per portare avanti le indagini e produrre in aula una ricostruzione che l’accusa non potrà contestare, non di meno si sperimenta l’apertura verso metodi più eterodossi pur di non lasciare nulla di intentato. Una tendenza ulteriormente sviluppata in Spirit of Justice, dove la facoltà di percepire cosa la vittima ha visto nei suoi ultimi istanti di vita rivela particolari preziosi. Ben congegnate, le storie permettono non solo di approfondire la personalità di una bizzarra galleria di tipi umani, ma accompagna in un viaggio nel Paese del Sol levante, tra le sue tradizioni e le sue peculiarità. L’aspetto del racconto è sottolineato nell’adattamento next-gen, dove volendo ci si può mettere comodi e lasciare che scorrano le immagini come davanti a un emozionante film d’animazione.
C’è qualcosa di profondamente suggestivo nell’impresa del protagonista di Jusant. Il titolo dello studio francese Don’t Nod, celebre per l’intensità narrativa dei suoi videogame, da Life is Strange (2015) a Harmony: The Fall of Reverie (2023), mentre è ormai imminente l’uscita di Banishers: Ghosts of New Eden, non ha bisogno di parole per immergere subito in un gioco d’atmosfera, dove tutto - dalla tavolozza luminosa al disegno del paesaggio, arido eppure non totalmente inospitale - concorre a rendere affascinante e misteriosa la fuga solitaria del ragazzo di cui non si sa nulla, se non che sembra avere una missione importante da compiere. Si scopre presto che completamente solo non è: con lui viaggia una buffa creaturina dai poteri speciali. Il giovane si arrampica agilmente, lungo le pareti di roccia di una montagna circondata da una distesa desertica, spinto a salire verso l’alto dalla necessità di trovare la soluzione all’enigma che lo ho arrovella, ma si avverte anche la portata simbolica di questo percorso di ascesa. Non ci sono dialoghi a fornire spiegazioni, però è come se in quell’aggrapparsi a fragili sostegni, in quel dondolare pericolosamente nel vuoto sostenuto appena da una precaria fune, in quel prendersi cura del suo piccolo amico si condensassero riflessioni esistenziali. La storia si rivela a poco a poco per frammenti, attraverso i testi e le vestigia superstiti di una remota civiltà marina. Tra i fondatori di Don’t Nod c’è lo scrittore di fantascienza Alain Damasio. Sua la concezione dell’universo narrativo e dei personaggi dell’action-adventure Remember Me, mentre tra i romanzi da lui firmati spicca L’orda del vento (tradotto in italiano dall’editrice Nord), in cui immagina una terra spazzata da un vento implacabile di cui da otto secoli, invano, si vuole conoscere l’origine. In Jusant, dal termine francese usato per indicare l’abbassarsi delle acque, ossia il riflusso, nel fenomeno della bassa marea, il problema è invece la siccità assoluta che ha avvolto il mondo e prosciugato l’oceano, impedendo alla vegetazione di prosperare. Come per incanto è comunque ancora possibile risvegliarla, accendendo di colore l’intorno e trovando così, nei fusti di piante rigogliose, nuovi appigli per procedere nella ricerca di un cammino che è anche interiore, perché invita ad ascoltare gli echi di voci nascoste, a sostare per ammirare orizzonti sconfinati, che proprio in vetta si offrono allo sguardo nella loro maestosità, aiutando a riconsiderare il rapporto tra il singolo e la natura.
La Londra dell’età vittoriana, quella della corsa all’industrializzazione, della fiducia nel progresso, del ricco impero, ma anche quella del lavoro minorile, dei tuguri, delle fumerie di oppio, dei vicoli sordidi macchiati del sangue delle vittime di Jack lo Squartatore. Luci e ombre che ritroviamo nella rilettura in chiave steampunk, ma dall’anima fantasy, che fa da sfondo a Sovereign Syndicate, gioco di ruolo con una forte impronta narrativa sviluppato dallo studio canadese Crimson Herring. Dietro la realizzazione c’è la passione per la fantascienza del periodo, prefigurata nei romanzi di Jules Verne come di H. G. Wells, senza dimenticare le battute fulminanti di Oscar Wilde, che per quelle vie si aggirava, con elegante noncuranza. Ad aggiungere l’aspetto della curiosità per l’esoterismo e il mistero per il paranormale nutrito in quell’epoca sfaccettata concorrono le carte dei tarocchi, in sostituzione degli abituali dadi. In più gli autori hanno immaginato una città popolata di strane creature, ispirate ai miti classici e al folclore, tra ciclopi, centauri, nani e licantropi. I tre personaggi che si possono impersonare, alternati nei capitoli che compongono Sovereign Syndicate, sono il minotauro Atticus Daley, cresciuto in un orfanotrofio e con qualche problema con l’alcol, la corsara Clara Reed e l’automa Otto al fianco dell’ingegnere Teddy Redgrave, ciascuno con ferite irrisolte, misteri sepolti nel passato e obiettivi da raggiungere nel presente o nel futuro prossimo. Le loro storie comunque si intrecciano, offrendo punti di vista differenti su questa Londra trasfigurata, dove a prevalere è in ogni caso lo sguardo di chi vive negli slum più derelitti, coinvolti loro malgrado in delitti oscuri. Il dualismo tra bene e male che si rispecchia nei quartieri della capitale inglese si riverbera sulla vita stessa dei suoi abitanti, plasticamente resa nel gdr mostrando come, al calar delle tenebre, tra mille pericoli, si trasformino in altro da sé, rivelando un volto nascosto, forse il lato più vero e non necessariamente il peggiore.
Una dodicenne, impossibile da non notare grazie alla folta chioma rossa, che viene chiamata a sostituire il padre in un incarico di responsabilità: mettersi alle porte del castello per decidere il destino di chi si presenta per entrare. Gli sarà concesso l’ingresso? Lo si manderà via o verrà confinato nelle prigioni del maniero? Lil affronta il lavoro con senso di responsabilità, però è sempre una bambina e, pur giudiziosa, ragiona con l’età che ha. Per fortuna c’è la possibilità - non infinita, ma se si esauriscono le chance si riparte dal livello precedente, senza vengano attuate soluzioni più drastiche - di tornare indietro nel tempo e tentare una strada diversa. Solo alla fine del turno saprà quanto ha guadagnato. In ogni caso per decidere in modo ponderato occorrerà disporre di ogni elemento utile, cercando attorno informazioni e indizi, smascherando bugie e impostori. Le situazioni ricordano un po’ come quelle dell’acclamato indie Paper, please, ma con alcune differenze sostanziali. L’ambientazione è squisitamente fantasy, con in più qualche tocco di tecnologia rétro, ispirata a quei prodotti che sembravano all’avanguardia negli anni Ottanta e Novanta e che adesso sembrano oggetti di antiquariato. Era anche la stagione d’oro delle avventure grafiche, il cui tono umoristico-demenziale alla Day of the Tentacle riecheggia nelle imprese di Lil & company, alle prese con una galleria di forestieri alquanto bizzarri, che a loro volta le provano tutte per raggiungere lo scopo. Davanti alle richieste, Lil seguirà le norme dettate dai regolamenti o le leggi del cuore? Non ci sono esiti scontati, non ci sono percorsi privilegiati dai risultati preventivatili. Nel gioco sviluppato da Hilltop si procede aprendo bivi narrativi, che ne generano altri, a cascata, ricordando che in ballo ci sono nientemeno che le sorti del regno, perché chiunque accede ha l’opportunità di influire sulla vita del borgo.
Orgoglio del Made in Italy, che anche nei videogame fa spesso rima con i motori, le produzioni firmate Kunos sono oggi il punto di riferimento per chi ama i racing dalla verve più simulativa. Il 2024 si preannuncia carico di novità. Nella seconda metà dell’anno dovrebbe vedere la luce, ancora una volta nella formula ad accesso anticipato che ha accompagnato le uscite principali della compagnia, il seguito del mitico Assetto Corsa, sorta di Gran Turismo in cui dilettarsi alla guida di ogni genere di vettura, comprese le sportive stradali. Ma intanto c’è spazio per qualche ultimo dlc per Assetto Corsa Competizione, il titolo maggiormente votato agli esports nel quale si simulano i campionati ufficiali Gt. Più avanti arriverà il canto del cigno con un contenuto scaricabile ad hoc sulla 24 ore del Nurburgring, insieme all’attesa riproduzione del leggendario tracciato dell’inferno verde come solo Kunos sa fare. In questi giorni è invece toccato al Gt2 Pack, che aggiunge una nuova classe di automobili dopo la Gt3 e la Gt4. Assente per alcuni anni dalle gare, la categoria Gt2 è tornata in calendario dal 2022 con un preciso regolamento che ha consentito di sviluppare vetture caratterizzate da un’elevata potenza (tra i 600 e i 700 cv) nel contesto però di un’aerodinamica meno esasperata rispetto alla Gt3, a tutto vantaggio del divertimento in pista dove le Gt2 sono rivolte in primis ai gentleman driver. Nella realtà il biglietto da staccare per certe emozioni è di quelli davvero esclusivi, ma grazie alla magia virtuale di Assetto Corsa Competizione il sogno può trasformarsi alla portata di chiunque. Insieme a sei veicoli - tutti realizzati in maniera certosina per ricalcare ogni minimo dettaglio, dall’estetica al comportamento in pista, perché guidare una Ktm X-Bow è molto diverso dal sedersi al volante di una Mercedes Amg o di una Maserati Gt2, senza contare la chicca costituita dalla Porsche 935 erede della memorabile Moby Dick degli anni ‘70 – figura il circuito austriaco del Red Bull Ring nella sua probabilmente migliore incarnazione digitale, comprensiva della ultime varianti introdotte dopo l’incidente del 2020 in Motogp tra Franco Morbidelli e Johann Zarco. Presente per la prima volta in Assetto Corsa Competizione, è un tracciato tecnico e veloce che si adatta bene anche alle gare multiclasse.
È un Medioevo di fantasia, ambientato nel villaggio fittizio di un Paese di invenzione, ma dietro Rising Lords, il gioco di strategia a turni di Argonwood, studio indie fondato a Colonia dai fratelli Chris e Manu Fernholz, un programmatore e un artista, c’è la passione per la storia nutrita di letture, ascolto di podcast e la visione di canali a tema su Youtube. Fonti molto liberamente rielaborate per costruire la trama che non persegue comunque intenti di veridicità storica, ma che hanno contribuito anche all’estetica affascinante del videogame. Se in passato titoli come Inkulinati si erano ispirati alle miniature di antichi manoscritti, segnatamente alle bizzarre illustrazioni del Breviario del vescovo Renaud de Bar, dell’inizio del XIV secolo, con Rising Lords la parentela più diretta è con il racconto dispiegato su tessuti ricamati, come nelle scene immortalate nell’arazzo di Bayeux. Frutto di un’originale commistione con le dinamiche di un gioco da tavolo e di un gioco di carte, Rising Lords per le varie unità disposte sul campo ha preso spunto dai pezzi iconici degli scacchi di Lewis, capolavori del XII secolo rinvenuti nelle Ebridi esterne ed esposti nel British Museum e nel National Museum of Scotland. Al cuore di Rising Lords c’è la volontà di ascesa al potere di un feudatario, che deve tener conto di più fronti per riuscire ad affermarsi e prevalere sui vicini, sempre pronti a espandersi a spese del loro confinante. Forgiare armi, sostenere l’esercito, ma anche organizzare la produzione agricola interna e diffondere ad arte notizie destabilizzanti sono tra i fattori preliminari della scalata, che ha poi nelle battaglie la prova della verità, per ostacolare o favorire il successo di un’impresa da guidare in solitaria o da intraprendere in multiplayer (fino a quattro amici).
Un’eruzione solare devastante ha spazzato via la civiltà post-industriale e, all’indomani della terribile apocalisse, si deve provare ad avviare un nuovo ciclo, impostando quasi dal nulla un insediamento destinato a crescere fino a diventare una metropoli. È quanto invita a costruire New Cycle, il city builder dello studio turco Core Engage, uscito con la formula dell’accesso anticipato che rende comunque già bene l’idea della complessità del titolo. Perduti i saperi che avevano consentito di padroneggiare conquiste tecnologiche sempre più avanzate, occorre recuperare e sviluppare ancora di più le conoscenze, perché si può progredire soltanto incrementando la produzione, sfruttando soprattutto le opportunità concesse da un’automazione sempre più spinta. C’è in ogni caso un gioco di equilibri da preservare, perché la prosperità si accompagna direttamente alla crescita della popolazione e all’espansione urbana, ma si rischia di non avere sufficienti alimenti per tutti, né abbastanza risorse energetiche per il funzionamento di una macchina così articolata ed estesa. Depauperato un territorio, si possono inviare squadre in perlustrazione nelle aree circostanti dove inviare lavoratori alla ricerca di materie prime. Se un fenomeno naturale estremo come il brillamento aveva provocato la catastrofe alla base della desolante situazione iniziale, altri eventi eccezionali sono in agguato, con conseguenze tali da cancellare ancora una volta i frutti di una società iperindustrializzata, affamata di tutto ciò che la terra, spremuta fino all’osso, può offrire. Mentre incombe costante il pericolo di un epilogo distruttivo, che costringerà a ricominciare dalle fondamenta, si delinea un chiaro messaggio lanciato a un’umanità ingegnosa, caparbia, indomita, ma troppo immemore e incurante delle esigenze ineludibili del creato.
Un leone pirata che vuole riconquistare la libertà e riscattare la sua ciurma sequestrata da una principessa malvagia; una pop-star alle prese con una sosia misteriosa che le sta rubando il pubblico: sono i primi due personaggi che si potranno impersonare in Cross Blitz, il gdr deckbuilder dalla forte impronta narrativa uscito con la formula dell’accesso anticipato. Prossimamente a rinforzare i ranghi sono attesi un topolino specializzato in imprese furtive, una creatura elfica capace di dialogare empaticamente con la natura, un monaco guerriero esperto in arti marziali. Animali antropomorfi disegnati in versione chibi, teneri e simpatici, pur dimostrandosi all’occorrenza bellicosi e audaci, ciascuno dotato di un proprio mazzo di carte, ossia di abilità, da caratterizzare ulteriormente arricchendo la nostra collezione (duecento i pezzi a disposizione da cui pescare), per riuscire a sbaragliare i nemici nei combattimenti tattici che si susseguono sul terreno di gioco. Sviluppato da Tako Boy, studio indipendente co-fondato da Tom Ferrer e Phil Giarrusso, Cross Blitz unisce una combinazione originale delle dinamiche a un aspetto piacevolmente rétro, affidato alla pixel art a tinte pastello dall’effetto cartoon. Si possono scegliere la modalità Fable, che rivela progressivamente la storia degli eroi, dalle vicende interconnesse, oppure affrontare la più impegnativa avventura roguelike Tusk Tales, che potenzialmente si può ricominciare all’infinito esplorando un mondo di mappe casuali con nuovi bivi aperti dalle scelte compiute di volta in volta.
Finché i servizi delle grandi case resistono e le licenze non svaniscono, c’è un’intrinseca comodità nella svolta digitale che ha abbracciato il mercato dei videogame, con archivi di migliaia di titoli a portata di download, magari anche da una generazione hardware alla successiva. Nel cuore degli appassionati resta però il fascino romantico del supporto fisico, che in alcuni casi garantisce un po’ di serenità in più ai collezionisti, lo zoccolo duro dei retro gamer. In effetti Inin, compagnia specializzata nel recupero dei classici, si è subito concentrata su Switch, la popolare console di Nintendo che, funzionando ancora in un certo senso a cartucce (le schede microsd), si è trasformata nel paradiso degli irriducibili dei giochi pacchettizzati, superando in scioltezza la crisi dei blu-ray che attanaglia altri lidi (Xbox gli ha appena detto addio). Pur annunciando l’arrivo prossimamente anche su Playstation, è proprio per Switch - in formato fisico o digitale - che Inin ripropone adesso la serie cult Steel Empire, uno sparatutto nipponico a scorrimento della vecchia scuola. Ispirato all’originale del 1992 per Mega Drive, The Legend of Steel Empire riprende il discorso portato avanti dai remake, l’ultimo apparso qualche anno fa su Pc, a opera di Mebius, lo stesso studio giapponese responsabile di questa riedizione in hd. Steel Empire non è famoso per essere uno shmup particolarmente tecnico in confronto ai mostri sacri del genere, anzi risulta un titolo piuttosto alla mano anche per i neofiti, specie nella nuova versione, ricalibrata in vari dettagli per funzionare al meglio su Switch. L’aspetto più affascinante della produzione è comunque l’ambientazione steampunk - tra dirigibili, fortezze volanti e strani macchinari - che dona un accattivante gusto retrofuturistico alle scorribande nei cieli di The Legend of Steel Empire.
© Riproduzione riservata
Contenuto sponsorizzato da BCC Rivarolo Mantovano
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata