Generazione bit.
Immenso. Ancora più immenso. Per il mondo da esplorare, per la quantità di armi e armature a disposizione, per la missione che il nostro avatar è chiamato a compiere in Xenoblade Chronicles X: Definitive Edition, approdata ora, esattamente a dieci anni dal debutto su Wii U, nell’edizione definitiva per Nintendo Switch in forma smagliante, ben evidente nella grafica dei personaggi e dei paesaggi di un pianeta dalla straordinaria biodiversità. La Definitive Edition aggiunge inoltre ulteriori contenuti e un capitolo extra quale epilogo in cui convergono i fili della storia. Storia che c’è ed è appassionante, pur essendo talmente ricca e varia l’ambientazione da rendere il viaggio in sé l’esperienza forse preponderante. Fin dal debutto nel 2015, Xenoblade Chronicles X era subito apparso un titolo a sé stante all’interno di Xenoblade Chronicles sviluppata da Monolith Soft, la casa cofondata nel 1999 da Tetsuya Takahashi, artefice dell’universo narrativo fantascientifico di Xeno, a sua volta articolatosi nelle serie Xenosaga e Xenoblade Chronicles. Quest’ultima, acclamata tra le migliori incarnazioni degli rpg d’azione, è costruita attraverso videogame sostanzialmente autonomi l’uno dall’altro, che hanno in comune temi, universi tra di loro collegati e la presenza ricorrente di appartenenti alla razza Nopon, che compare anche in Xenoblade Chronicles X, ritenuto per la sua atipicità un seguito spirituale, dove sono ancora più marcate le differenze con il resto della saga. A cominciare dall’introduzione del pianeta alieno Mira, teatro degli eventi. Un luogo dove capita per caso, costretta dall’emergenza, l’arca spaziale Balena Bianca, con a bordo i superstiti in fuga dallo scontro intergalattico che ha provocato la distruzione della Terra. La necessità di forgiare un futuro per questa umanità sconvolta, rifugiatasi nel porto sicuro della città di Neo Los Angeles, progettata sui resti della Balena Bianca secondo i principi della zonizzazione urbanistica, con le aree destinate ai negozi, quelle per le fabbriche, quelle per i quartieri residenziali. Il protagonista, arruolato come agente della divisione recupero Blade (acronimo di: Builders of the Legacy After the Destruction of Earth), comincia presto a guardarsi attorno, circondato dall’ostilità degli autoctoni nei confronti di coloro che considerano invasori. Le minacce incombono costanti, per la ferocia di temibili creature e per i piani dell’alleanza extraterrestre finalizzata allo sterminio degli abitanti della Terra. Dietro tanto odio c’è un pregresso che viene rivelato nel proseguo del gioco. Il maggiore e più imminente pericolo è però un altro: arrivare il più presto possibile, prima che malintenzionati se ne impadroniscano, sul luogo dove è precipitato il supercomputer, chiamato Lifehold, custode dei dati genetici e dei ricordi degli esseri umani, mentre si recuperano anche le capsule criogeniche di stasi espulse dalla scafo dell’arca durante l’atterraggio di emergenza e disperse sul suolo di Mira. Cross, nome predefinito del nostro personaggio, per altro modificabile in ogni suo aspetto, generalità comprese, si lancia nell’impresa coadiuvato da Elma e altri componenti della squadra da allestire, approfondendo la conoscenza di ciascuno. Per affrontare le notevoli distanze da percorrere, in un susseguirsi di paesaggi d’incanto e di selvaggia bellezza, ci si sposta inizialmente a piedi, prima di ottenere l’opportunità di pilotare gli Skell, veicoli corazzati da utilizzare anche nei combattimenti. Nella Definitive Edition si può sbloccare l’inedito Hraesvelg, dal nome del gigante della mitologia norrena con l’aspetto di un’aquila ritenuto all’origine del vento. Uno jotunn al quale si sono ispirati in passato altri anime e videogame giapponesi, trasformandolo eventualmente nei robottoni mecha, con dentro la postazione per il pilota ai comandi. Previa iscrizione a Nintendo Switch Online ci si può aggregare a team che comprendono fino a 32 membri, uniti in multiplayer nelle battaglie Nemesi Globale contro un nemico portentoso.

Dopo essersi occupata della salute del corpo affidato alle cure di un Hospital decisamente sui generis, per la serie Two Point, nel frattempo datasi anche alla formazione universitaria con l’inaugurazione di un Campus, è venuto il tempo di dedicarsi anche al benessere della mente, invitando a entrare nelle sale del Two Point Museum, ossia il museo della contea di Two Point. Come sempre nelle simulazioni di Two Point Studio, non ci si deve prendere troppo sul serio, anche se, a ben guardare, dietro la facciata scanzonata e ironica si intravede qualcosa di più. Nel caso di Two Point Museum, che introduce un’ambientazione piuttosto originale tra i gestionali, appunto quella di un museo, si comincia con la necessità di acquisire le collezioni da esporre. Come procedere? Con la penna intinta nel tipico humour inglese che contraddistingue la serie, l’idea è stata rifarsi alla prassi in uso all’epoca dell’Impero britannico, ossia recarsi in posti potenzialmente ricchi di reperti per accaparrarsi i manufatti più preziosi e trasferirli in patria. A patto, ovviamente, di riuscire a compiere il viaggio di ritorno e non svanire invece nel nulla. Incaricati delle missioni sono addetti selezionati di volta in volta nello staff del museo, che non è detto superino indenni l’esperienza, rientrando pieni di entusiasmo e di rinnovate energie. L’elicottero è comunque pronto a volare avanti e indietro, depositando grosse casse, sempre fonti di sorprese. Coloratissimo, modellato come un mondo in miniatura simpatico ed esagerato, il museo si articola in sezioni che devono mettere in qualcosa di unico per affollarsi di pubblico e battere così la concorrenza, staccando un alto numero di biglietti. In fondo ci sono infatti i bilanci da far quadrare. Meno male che dagli enormi imballaggi possono emergere attrazioni portentose: un blocco di ghiaccio con tanto di cavernicolo incluso o squali tigre che non nascondono proprio niente delle caratteristiche legate al loro nome o parti di scheletri di giganteschi dinosauri da assemblare. Esposti anche gli omaggi a icone pop, che si ritrovano pure sotto altre spoglie. Avete mai sognato di avere come guida in una raccolta archeologica il leggendario Indiana Jones? Al Two Point Museum potete essere accontentati. Tutti i personaggi, il pubblico soprattutto, offrono un cast pienamente in sintonia con la bizzarra contea. Le visite guidate sono soltanto uno dei molteplici servizi da organizzare per non scontentare nessuno e coronare con il successo il nostro nuovo ruolo di direttore del museo più strampalato del globo, frequentato anche dai bambini. Autentiche piccole pesti che si divertono a vanificare gli sforzi dei curatori per avere un edificio ordinato e pulito. Intervenire velocemente per ovviare ai danni è un’ulteriore sfida in mezzo a mille incombenze da portare a termine per far sì che la tranquilla Two Point possa respirare storia e cultura.

Ah, gli anni Novanta, quelli delle videocassette a nastro, con le etichette scritte a mano; quelli delle bamboline troll con le capigliature ritte in testa dai colori accesi; quelli del choker, la collana girocollo; quelli dello skateboard. Lo studio francese Don’t Nod, celebrato per il cult Life is Strange, torna a riavvolgere avanti e indietro la linea del tempo, per una rievocazione nostalgica dell’adolescenza di un gruppo di amiche per le quali l’estate del 1995 è stata una stagione indimenticabile. Da allora non si sono più riviste, né sentite, a causa di un misterioso evento che le ha separate, promettendosi l’un l’altra di non incontrarsi mai più. Ventisette anni dopo, nel 2022, una circostanza inaspettata - l’arrivo di una missiva con un minaccioso avvertimento, priva di mittente e indirizzata alla dissolta banda punk Bloom & Rage fondata dalle ragazze - le spinge a raggiungere la cittadina di Velvet Cove, sulle rive del lago Superiore, nel Michigan, luogo natale della protagonista, Swann Holloway, trasferitasi con la famiglia in Canada, proprio nel fatidico 1995. Per Don’t Nod, che aveva in precedenza ambientato i suoi titoli nel Pacifico Nordoccidentale, si tratta di una novità. Le ricerche compiute nel Michigan settentrionale, nei pressi della penisola di Yuba, hanno fornito l’ispirazione per la fittizia Velvet Cove. Ritrovarsi spinge a ripensare al passato e misurare cosa sia rimasto della solidarietà di allora, quando lo splendore della natura faceva da sfondo alla condivisione di progetti e sogni. La passione della sedicenne Swann per le riprese con la videocamera porta l’aspirante regista a documentare ciò che vede girando filmati, poi montati e archiviati a comporre un’autobiografia per immagini, chiaramente espressione del suo personale punto di vista. L’approfondimento della psicologia di Swann, Autumn, Nora e Kat, nei rapporti tra di loro e con il resto della comunità, è uno dei tratti fondamentali di una narrazione che si svolge soprattutto attraverso i dialoghi, nonostante non manchino momenti più simili alle avventure classiche, dove ci si guarda attorno e si interagisce con gli oggetti, per acquisire informazioni o risolvere gli enigmi. Alla prima cassetta, Bloom, già disponibile, si aggiungerà il 15 aprile la seconda e ultima, Rage. Nell’attesa, giunti alla fine di Bloom, lo si può ricominciare daccapo per sperimentare quanto le scelte compiute sia nel presente che nel 1995 influenzino l’andamento della storia, provando a ipotizzare su cosa sia accaduto nella tranquilla Velvet Cove e su chi abbia voluto far riaffiorare ciò che si voleva sepolto per sempre nell’oblio.

Lunga vita alle avventure! Un genere sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri perché, come ricorda lo sviluppatore di Rosewater, Francisco Gonzales, c’è semplicemente ancora voglia di raccontare. Dopo A Golden Wake e Shardlight, entrambi pubblicati da Wadjet Eye, con la sua software house Grundislav Games, Gonzales ha cominciato a creare con Lamplight City (2018) il Commonwealth di Vespuccia, una versione alternativa del Nuovo Mondo, dove la guerra d’indipendenza americana non è mai avvenuta e l’abolizione della schiavitù è datata ben prima del 1865, mentre il razzismo si rivela una piaga dura da sconfiggere. Se l’America ha preso il nome da quello del grande navigatore Amerigo Vespucci, l’ambientazione di Lamplight City, ripresa in Rosewater, ne riecheggia il cognome. Vespuccia, in una sorta di età vittoriana steampunk traslata Oltreoceano, è teatro pure dello spin-off Rosewater, che si può giocare anche senza aver prima percorso le strade di Lamplight City, in quanto si tratta di due vicende autonome, ma sapere cosa sia successo nell’insediamento industriale, dove un disilluso detective privato si lanciava sulle tracce del killer del suo partner, aiuta a decifrare allusioni e riferimenti. Con Rosewater lo sguardo si allarga agli orizzonti sconfinati del West, terra delle infinite possibilità di ricominciare e reinventarsi, dando un taglio al passato. La protagonista Harley Leger, da pugile a mani nude vuole ripartire pressoché da zero come scrittrice e giornalista, trovando un impiego nel giornale di quel di Rosewater, una cittadina in apparenza tranquilla e sonnolenta. Il primo incarico è intervistare il mitico Jake Ackerman, alias Gentleman, sul posto per tenere uno dei suoi spettacoli itineranti. È lui a proporre a Harley di mettersi sulle tracce del tesoro di un uomo scomparso, formando una banda con altri personaggi, che si imparano a conoscere durante il viaggio. Ci si addentra così nei misteri della favolosa e polverosa Western Vespuccia. Un affresco 2D in pixel art che da una parte ricalca i classici punta e clicca, per cui si chiacchiera con gli interlocutori e si interagisce con l’intorno per ottenere indizi, dall’altra rinnova il concetto attraverso enigmi che si possono risolvere in modi diversi, tutti corretti, influenzando lo stesso corso degli eventi, che in base ai dialoghi e alle strade scelte prende vie differenti, invogliando a provare le varie opportunità e diramazioni. A dimostrare come ci siano ampi margini di sperimentare in un genere che gode dunque di buona salute. Ne deve essere del resto convinto anche l’editore Application Systems Heidelberg, specializzato proprio nelle avventure, come l’intenso The Longing, dove l’elegante stile grafico, il minimalismo delle azioni, l’atmosfera serena e malinconica insieme concorrono alla narrazione dell’impresa titanica condotta da una piccola creatura, avvolta nella solitudine più completa. La lingua originale di Rosewater è l’inglese, ma il gioco è localizzato anche in tedesco.

Per i fan di Bleach, insieme a One Piece e Naruto uno dei cosiddetti Big Three, ossia gli shonen manga più di successo, c’è un nuovo videogame, Bleach Rebirth of Souls, sviluppato da Tamsoft
A più di dieci anni dall’hack-and-slash Bleach: Soul Resurreccion, uscito nel 2011 quando si era ancora nell’era Playstation 3, ecco l’arrivo di un fighting action game che permette di ripercorrere dall’inizio le gesta di Ichigo Kurosaki, il protagonista del manga scritto e disegnato da Tite Kubo, prendendo ispirazione dagli archi narrativi Agente dello Shinigami e Arrancar. Questi ultimi sono i principali antagonisti insieme agli Hollow, che si differenziano per il volto coperto da una maschera, del tipo indossato in Messico per el dia de los muertos. Maschera che agli Arrancar, dal verbo spagnolo che significa strappare, è stata tolta. Entrambi abitano nel deserto bianco di Hueco Mundo, altro esempio di assonanza linguistica che rimanda all’evocazione di tradizioni lontane, innestate sull’anima profondamente nipponica di Bleach, intriso di richiami al buddismo e al folclore del Paese del Sol Levante, rielaborati in una visione sincretica. Ichigo è uno studente quindicenne che riesce a vedere i fantasmi dei trapassati, rimasti accanto ai vivi, perché incapaci o impossibilitati a raggiungere l’aldilà, ribattezzato Soul Society nel gioco. Un giorno si imbatte nella giovane Rukia Kuchiki, una Shinigami, letteralmente divinità della morte, che combatte per mantenere in equilibrio il numero di coloro che popolano il mondo dei vivi e il mondo dei morti, conducendo questi ultimi nella loro naturale destinazione, vale a dire la Soul Society. Gravemente ferita durante una missione, Rukia si trova a dover trasferire una parte dei suoi poteri a Ichigo, ma l’operazione non va per il verso giusto e il ragazzo acquisisce completamente le facoltà di lei, che resta intrappolata tra i vivi, in attesa di recuperare le forze. Ichigo diventa uno Shinigami a tutti gli effetti, cominciando a poco a poco a capire anche qualcosa di importante del suo passato. Il Giappone contemporaneo si scopre abitato da tante entità soprannaturali, che pochi sono in grado di percepire. Spiriti benigni (Plus) si muovono liberamente, dopo che con la morte è stato reciso il collegamento tra l’anima (konpaku) e il corpo, ma se la Catena del destino si corrompe possono trasformarsi nei malvagi Hollow, a meno che gli Shinigami non intervengano in tempo allontanando i Plus verso la Soul Society. La difficoltà a rescindere i legami con il mondo dei vivi può derivare dal dispiacere di abbandonare qualcuno, come nel caso degli Tsukurei, o un luogo, come accade ai Jibakurei, particolarmente a rischio di diventare Hollow. Ichigo impara a conoscere i nemici e gli altri Shinigami, armati con i formidabili Zanpakuto, sorta di speciali katane (ma possono assumente anche forme differenti) che bisogna saper impugnare, padroneggiare, potenziare. Tra un duello e l’altro, ci si inoltra nei meandri di una storia ricca di pathos, alla quale partecipano tutti i volti principali di manga (pubblicato dall’iconico settimanale Weekly Shonen Jump dal 2001 al 2016) e anime (trasmesso in tv dall’ottobre 2004 al marzo 2012), con il coinvolgimento di Bandai Namco, l’editore anche degli adattamenti videoludici di One Piece e Naruto.

Se la nostra casa fosse dotata della vista e dell’udito, riuscirebbe a conoscerci come forse nessun altro, testimone di abitudini, confidenze, momenti di gioia e di rabbia, hobby, discussioni, in definitiva una muta custode di segreti. È lei a condividere con l’adolescente Debbie il ruolo di protagonista di Your House, prequel di Unmemory (2020), il titolo di esordio di Patrones & Escondites, software house di Barcellona. Entrambe basate su un mistero da sciogliere attraverso una sorta di libro-game interattivo che replica le dinamiche delle escape room, stanze dalle quali riuscire a uscire solo dopo aver risolto una sequenza di indovinelli, le due avventure adottano un linguaggio completamente differente. Se Unmemory inseriva filmati e fotografie, Your House si affida invece a tavole da fumetto, illustrate dall’artista Jon Ander Torres, per aiutare a visualizzare le svolte chiave della storia. È però soprattutto il testo a fornire indicazioni all’adolescente, che nel giorno del diciottesimo compleanno si sente travolta su tutti i fronti: cacciata da scuola e tradita nell’amicizia e nell’amore. Nel pieno della notte, l’inaspettato arrivo di una cartolina anonima completa di indirizzo e di una chiave conduce Debbie in una dimora dove in apparenza non c’è più nessuno e che si trasforma nel labirinto di un’indagine avvertita sempre più come urgente per comprendere cosa la leghi a quelle stanze. Il piatto forte di Your House restano gli enigmi, originalmente congegnati e intimamente connessi alle caratteristiche dell’architettura, secondo meccanismi ispirati al leggendario appartamento sulla Quinta Strada di New York acquistato da una ricca famiglia con quattro figli e ristrutturato dal progettista Eric Clough disseminando indizi nelle pareti e negli arredi come in una caccia al tesoro per adulti e bambini. L’obiettivo? Trovare la poesia che il capofamiglia aveva chiesto di collocare da qualche parte in un muro, quasi come una specie di capsula del tempo. Un’ingegnosa realizzazione alla cui popolarità ha contribuito un articolo del New York Times, citato dagli stessi autori di Your House e dove si rimandava, tra le possibili ascendenze, al classico della letteratura per ragazzi Fuga al museo di E. L. Konigsburg. Leitmotiv è la capacità di oggetti e costruzioni di serbare in sé tracce di memorie, componendo le quali - tessera dopo tessera - Debbie potrà decifrare cosa significhino per lei quella strana casa e i suoi ospiti.

Un aspetto rétro, a 16 bit, per un orrore che si avverte come reale, nelle invenzioni allucinate che Francis Coulombe, artista della pixel art, moltiplica a dismisura nel survival Look Outside. Chiusi in un appartamento, con la necessità di trascorrere lì quindici giorni, superati i quali, come assicurato dalle autorità, si dovrebbe archiviare la misteriosa emergenza che ha precipitato la città nel caos, occorre escogitare come sopravvivere per quelle due lunghissime settimane. L’esito dipenderà dalle nostre scelte e a loro volta queste saranno direttamente in relazione con il nostro desiderio di saperne di più di ciò che sta succedendo. La curiosità si rivela una spinta irrefrenabile, da rivolgere entro le mura del condominio perché già affacciarsi alle finestre per gettare uno sguardo fuori è sconsigliabile: si viene tramutati in mostri. Non che aggirarsi per le stanze della casa o scendere le scale sia più sicuro, però si ha almeno la speranza di capire qualcosa di una situazione assurda e, magari, trovare una via d’uscita. Le esplorazioni hanno anche l’obiettivo di recuperare cibarie e oggetti da modificare per renderli armi più efficaci nei combattimenti contro creature agguerrite e letali. Si potrebbe, volendo, pure pensare di rintanarsi giocando ai pochi videogame disponibili, saziandosi con quanto fornito da un distributore automatico. Le domande resterebbero aperte e il nostro destino, chissà. In ogni caso trascorrere qualche tempo davanti allo schermo è utile per apprendere tattiche utili a resistere circondati da una così lugubre follia, immersi nel dubbio lancinante se chi incontriamo sia un amico o un nemico, se possiamo fidarci ottenendo una forma di conforto o di aiuto oppure se dobbiamo temere tutti e reagire con forza. È forse l’ignoto che si presenta subdolo in un ambiente originariamente più che normale a scatenare quel senso di incertezza che rende Look Outside un’esperienza di paura quasi metafisica, sgretolando ogni appiglio.

Che i topi e le rane potessero andare in guerra gli uni contro le altre lo avevano già immaginato gli antichi greci nel poemetto Batracomiomachia. Odd Bug, lo studio di Manchester che ha firmato il platform VR The Lost Bear e il gdr 2D d’azione Tails of Iron, spiega di aver trovato l’ispirazione molto più vicino a sé, dai topolini domestici da compagnia del character designer Don Robinson, peraltro cresciuto da bambino nella campagna inglese di Andover nello Hampshire, dove non era raro imbattersi in rane e rospi, magari nascosti sotto un masso. Il sequel Tails of Iron 2: Whiskers of Winter ha per protagonista un nuovo roditore, Arlo, l’erede del Guardiano delle Lande, chiamato a difendere le Terre del Nord dall’invasore, lungo una frontiera gelida e selvaggia, un po’ come la Barriera del Trono di spade. È un medioevo duro e brutale quello rievocato in Tails of Iron 2, popolato di animali antropomorfi, nelle cui fila si aggiungono gufi e pesci gatto, in un moltiplicarsi di paesaggi dettagliatamente ricostruiti. La cifra stilistica è uno degli aspetti che più colpiscono di questa epica fantasy, restituita come in un emozionante libro illustrato, dove il contorno marcato di ogni personaggio ed elemento dello sfondo richiama il gusto per le xilografie di una certa grafica ceca. Sempre dalla Repubblica Ceca, il Paese di origine dell’art director Martin Reimann, è arrivata un’ulteriore suggestione magistralmente applicata alla rappresentazione di un mondo dove si combatte, si esplora, si restaura il proprio villaggio devastato muovendosi come su un palcoscenico, memori della famosa tradizione del teatro delle marionette del Paese dell’Europa centrale. C’è un mostro terribile che dal remoto confine settentrionale del Regno rischia di mettere in pericolo i Ratti del Sud, reduci dal titanico scontro con le Rane. Arlo deve sconfiggere le Ali Nere, sorta di pipistrello malvagio. Tra insetti enormi e ogni genere di creature, Arlo si imbarca nell’impresa, forte di inedite armi, mosse e capacità che permettono di congelare, avvelenare e, tramite poteri magici, domare i nemici, rendendoli docili ai nostri voleri. Rientrato nell’insediamento, ad Arlo tocca occuparsi di mille migliorie, oltre a forgiare quei legami che gli consentiranno di allestire un esercito, stringere amicizie e avere accanto a sé alleati fedeli.

Chi l’avrebbe detto che uno dei videogame più rari in assoluto, passato alla storia come una sorta di unicorno per i collezionisti, disposti a sborsare cifre folli per accaparrarsi una delle appena 10mila copie stampate per il solo mercato giapponese del Super Famicom, sarebbe tornato a disposizione di tutti, appassionati e curiosi, finalmente in grado di riscoprire questa gemma senza spendere un occhio della testa. Certo, ci sono voluti esattamente trent’anni e le magie della distribuzione digitale, ma grazie all’impegno di Ziggurat Interactive il cult Rendering Ranger: R2 è qui, con tanto di già annunciata riedizione fisica per i tipi Limited Run, specialisti del retro gaming che hanno inoltre fornito il motore grafico Carbon Engine al centro dell’operazione revival. Anche se si parla molto di emulazione, non è affatto semplice replicare in maniera fedele un titolo creato in epoche e per hardware diversi, indipendentemente dalla maggiore potenza oggi a disposizione. In particolare, poi, Rendering Ranger: R2 rappresenta un vero gioiello tecnico, un apice per la console a 16-bit di Nintendo quando la scena europea dominava con le sue sperimentazioni. Anche se uscì unicamente nel Paese del Sol Levante, Rendering Ranger: R2 è una classica produzione Rainbow Arts, la casa tedesca da una cui costola nacque l’altrettanto mitica Factor 5. Il videogame porta la firma di Manfred Trenz, il papà del leggendario Turrican, del quale Rendering Ranger: R2 costituisce una diretta filiazione, sempre nel segno dei run and gun, un po’ platform, un po’ shoot ‘em up, alternando momenti a piedi e in astronave, accomunati dall’alto tasso d’azione, come richiedevano le hit del periodo, una su tutte Contra. La nuova versione, chiamata Rendering Ranger: R2 [Rewind], che accanto all’originale restaurato insieme a vari filtri contiene l’adattamento Pal europeo - nome in codice Targa - mai pubblicato prima, permette di respirare tra una botta di adrenalina e l’altra avvalendosi di opzioni come il riavvolgimento rapido in caso di errori e dei salvataggi a piacimento. Nel museo virtuale, che raccoglie un album di immagini e il jukebox con le musiche, si possono consultare i manuali, al cui interno si trovano due brevi saggi che aiutano a inquadrare l’opera e la figura di Manfred Trenz.

Autoproclamatosi il dio della morte e dell’oscurità, Morkull non sembra poter fare altro che incarnare la malvagità, però è anche ben consapevole di essere solo il personaggio di un videogame, in balia dei capricci del giocatore e, prima ancora, dello sviluppatore, lo studio Disaster di Saragozza, in Spagna. Al cattivo Morkull non resta che irrompere all’occasione oltre la quarta parete per dire la sua a chi continua a frapporsi con quelli che considera i suoi piani perfetti e non dilazionbili, disposto a dare una mano a coloro che giudica un po’ degli inetti, ma anche pronto a scatenare la sua ira, a redarguire, sgridare, spazientirsi, riconoscendo con difficoltà i meriti altrui. È anche venato di umorismo, o meglio di sarcasmo vista l’attitudine del pestifero protagonista, il platform 2D nato come progetto scolastico e diventato il titolo alfiere della software house fondata nel 2019 da ex compagni di corso. Morkull Ragast’s Rage colpisce innanzitutto per la qualità della grafica, disegnata a mano e animata fotogramma per fotogramma, particolarmente efficace nella rappresentazione delle dominanti atmosfere notturne, tipiche del dark fantasy. Il risultato è un’accattivante resa in stile cartoon di sfondi e personaggi, in un gioco a piattaforme, con molta azione e una certa quantità di esplorazione, mentre si susseguono i combattimenti a distanza ravvicinata a colpi di combo spettacolari, in un mondo infarcito di riferimenti alla cultura pop. Morkull non ne può più di restare confinato in quel di Ragast. Sente che la sua missione è riuscire a spargere il caos nel mondo di Midaldus e vuole liberarsi, senza temere di affrontare i misteri che costellano un viaggio frenetico (e ironico) lanciati in una varietà di ambientazioni, compresi i classici castelli tetri e dungeon altrettanto tenebrosi.
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