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Non si vince un gp alla prima curva, ma chi ben comincia è a metà dell’opera. Per il lancio di un nuovo dispositivo bisogna mostrarsi agguerriti. Con un catalogo sconfinato di serie popolarissime che hanno segnato la storia del digital entertainment, Nintendo mantiene forse più di chiunque altro l’imbarazzo della scelta. Anche se non sono in nessun caso decisioni prese alla leggera. E un biglietto da visita come Mario Kart World, persino in bundle con la console, dice molto di Switch 2, che si presenta in continuità con la macchina precedente, di cui eredita in retrocompatibilità l’intera ludoteca, esplorando però da subito anche una declinazione maggiormente social, per cavalcare sempre più quella dimensione online alla fine sposata pure dalla casa giapponese. E si punta ai grandi numeri. Il caro, vecchio Mario Kart 8 è stato infatti un bestseller assoluto, in grado di piazzare tra Wii U e il primo Switch un totale di quasi 80 milioni di copie, un vero record. Mario Kart World ha le carte in regola per bissarne i successi. Già ora, appena uscito, costituisce l’episodio più ricco di una famiglia di titoli che non è mai stata avara di contenuti, ma che qui sembra essersi addirittura superata. Mario Kart World offre una trentina di piste particolarmente elaborate e per di più inserite in un inedito contesto open world che le lega l’una all’altra, praticamente un enorme parco a tema in cui passare il tempo a gironzolare e a scoprire segreti anche per il solo piacere di farlo – in realtà il game design sopraffino di Nintendo ha nascosto ovunque ricompense; cioè ogni azione premia il giocatore. In qualsiasi punto ci si trovi, si può osservare il panorama, scorgere un elemento caratteristico che identifica un’ambientazione o un tracciato e partire all’avventura, attraversando la mappa fino a visitare fisicamente i luoghi per poi gareggiare. Tutto ciò che si vede esiste in maniera coerente con le piste e risulta raggiungibile. World reinterpreta alla Mario Kart in effetti un po’ anche le rivoluzioni di cui si è fatta portatrice The Legend of Zelda con Breath of the Wild, altra celebre saga che proprio con quel capitolo nel 2017 ha portato a battesimo il primo Switch. Nintendo non è una compagnia che ama ripetersi. Non ci sono ancora Zelda all’orizzonte (di sicuro arriveranno). Su Switch 2 si possono comunque giocare i capolavori per Switch, The Legend of Zelda con Breath of the Wild e il sequel The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Per questi ultimi, Nintendo ha pensato ad aggiornamenti ad hoc, acquistabili anche tramite dlc se si possiede già l’originale e che permettono di goderseli con una marcia in più. Oltre a caricamenti più rapidi, a prestazioni e a una grafica migliorate, introducono gli Zelda Notes, sorta di guida interattiva accessibile sullo smartphone/tablet tramite la Nintendo Switch App. E i platform? Fa strano immaginare una console Nintendo senza il classico Super Mario al lancio (d’altronde si possono eventualmente recuperare gli ottimi episodi per Switch, da Super Mario Odyssey a Super Mario Bros. Wonder ce n’è per tutti i gusti), ma aiuta a comprendere l’importanza oggi di Mario Kart e più nello specifico di Mario Kart World. Del resto l’immancabile platform sbarcherà a breve, il 17 luglio, grazie al frenetico Donkey Kong Bananza, lo scimmione al quale è stato chiesto di fare un’altra volta le veci del famoso idraulico, sbizzarrendosi su Switch 2 con la sua verve esagerata. Intanto ci si diverte a sfrecciare sulla giostra di Mario Kart World: nel pieno stile Nintendo, lo stesso Mario Kart di sempre, ma completamente diverso dal solito. Tecnicissimo e insieme party game, con momenti di puro caos stimolati dalla presenza adesso di 24 piloti in pista, una ricalibrazione dei power up e il nuovo ritmo dato dai salti, i grind, i wall run che, anche più della tradizionale derapata, in Mario Kart World reinventano la ruota dei Mario Kart all’insegna di acrobazie in grado di aprire lo sguardo verso scorciatoie e strade alternative progettate apposta.
È piuttosto variegata la galleria dei rhythm game, giochi che richiedono di sincronizzare, eventualmente con l’ausilio di periferiche ad hoc per suonare la chitarra o il tamburo, le nostre azioni con il ritmo della musica. Un concetto ora esplorato con particolare efficacia da Maestro, che, indossato l’indispensabile visore vr, sfrutta anche le opportunità offerte dalla realtà virtuale per rendere ancora più coinvolgente l’esperienza. Il videogame dello studio francese Double Jack, in collaborazione con Wild Sheep, mette nei panni di un direttore d’orchestra, che guida l’esibizione degli orchestrali semplicemente con i gesti delle mani. Una modalità molto intuitiva, che lascia comunque aperta la possibilità di ricorrere al controller, con l’obiettivo di ottenere in ogni caso l’esecuzione di celebri brani. Maestro diventa infatti un viaggio nella storia della musica intanto che si sperimenta il valore dell’operato di una figura fondamentale per coordinare decine di musicisti, dare loro il tempo, indicare l’ingresso degli uni e degli altri, applicare criteri interpretativi. Avviene così anche nei concerti interattivi di Maestro, che si svolgono in scenari canonici, come il teatro o il salone di un palazzo nobiliare, ma anche ben più fantasiosi. Gli stessi orchestrali possono sfoggiare abiti in sintonia con la musica o con il contesto, analogamente al direttore, che dal podio si sbraccia a mani nude o inguantate, con o senza la bacchetta, la quale a sua volta può assumere diverse fogge, sostituta per esempio da una baguette (siamo o non siamo in Francia?) o da una spada laser da Cavaliere Jedi. Del resto Maestro: Complete Edition include, oltre al pluripremiato gioco base, tre dlc: Secret Sorcery, Doom Bound e appunto Duel of the Fates, tratto dalla colonna sonora dell’Episodio I di Guerre stellari scritta da John Williams, autore anche di Hedwig’s Theme, il motivo dominante in tutti gli otto film della saga di Harry Potter che si ritrova in Secret Sorcery, mentre Doom Bound immerge nelle atmosfere fantasy del Signore degli anelli, con lil drammatico The Bridge of Khazad-Dum di Howard Shore, e del Trono di spade, con l’iconico tema principale composto da Ramin Djawadi. Maestro: Complete Edition, pur attingendo anche al jazz (lo standard Caravan di Duke Ellington), avvicina a capisaldi della musica classica, da Vivaldi a Beethoven, da Mendelssohn a Wagner, da Dukas (L’apprendista stregone) a De Falla, da Liszt a Dvorak, da Grieg a Wagner, a Stravinskij. Provando e riprovando, ci si cimenta anche con la solenne profondità della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. E chissà che ai giocatori digiuni dell’argomento non venga voglia di saperne di più, appassionandosi a un’arte e a una professione.
Prima ancora di affermarsi tra i colossi mondiali del digital entertainment, Bandai (oggi Bandai Namco) è stato dal secondo dopoguerra un produttore di giocattoli e, dal 1983, di console, raggiungendo una decina di anni più tardi il successo planetario con un gadget che sondava proprio il terreno dell’interattività. Il 23 novembre 1996 in Giappone, il 1° maggio 1997 nel resto del globo, ecco esplodere il fenomeno Tamagotchi, un dispositivo a forma di uovo che chiedeva di prendersi cura di una creaturina aliena come se fosse un animale domestico, da far crescere, da educare, da coccolare. La risposta del pubblico incuriosito fu subito straordinaria e inarrestabile, tanto che il Tamagotchi, accompagnato da successive evoluzioni, prosegue tutt’oggi la sua corsa, avendo superato i 91 milioni di pezzi venduti a livello internazionale. Per i più giovani, che nel 1996 non erano nati, e i nostalgici di quegli anni, è approdata su Switch e su Switch 2 la simulazione Tamagotchi Plaza, sviluppato da Hyde Inc., che dispiega a piene mani il concetto di kawaii, intriso di richiami all’innocenza e alla spensieratezza dell’infanzia. Ultimo titolo della serie Tamagotchi Connexion: Corner Shop, originariamente uscita su Nintendo Ds nel 2005 e i sequel, ma unicamente in Giappone, su 3Ds, Tamagotchi Plaza allestisce la cittadina di Tamahiko impegnata a rendere il posto più accogliente e a migliorare il settore commerciale e dei servizi per attrarre clienti e visitatori così da competere vittoriosa nella corsa a sede per l’assegnazione della festa di Tamagotchi. L’edizione per Switch 2 aggiunge tre ulteriori negozi, per un totale di quindici, tra cui un locale dove preparare il sushi e un altro dove si vendono e si provano gli shuriken cercando di colpire un bersaglio, a ribadire le radici nipponiche dell’immaginario che avvolge il titolo. In pratica si affrontano vari mini-game, nei panni di un personal trainer che deve muoversi a un’adeguata velocità o di un sarto che deve far combaciare i pezzi e la fantasia di un modello predefinito, o di un dentista che si prende cura della bocca del paziente, di un ottico che prepara i migliori occhiali o del commesso di un negozio di manga alle prese con le richieste di un cliente esigente. E così via per una quindicina di differenti attività, dove tornare per trovare ulteriori oggetti negli ambienti rinnovati.
I fantastici viaggi nel tempo di Old Skies, l’ultima, acclamata avventura grafica di Wadjet Eye Games, arrivano su Nintendo Switch, compatibile con Switch 2. Protagonista di Old Skies è Fia Quinn, una specie di guida turistica in un futuro, il 2062, nel quale, costi permettendo, chiunque può spostarsi avanti e indietro nella quarta dimensione, affidandosi ad agenzie come la ChronoZen. Compito di Fia è assicurarsi che le trasferte avvengano però nel rispetto di alcune regole, per evitare che i turisti per caso compromettano la linea temporale. Li possiamo suddividere a seconda delle loro motivazioni, che a volte non si riducono alla semplice curiosità, per cui l’agente del tempo Quinn può trovarsi di fronte a circostanze inaspettate, frutto delle cause reali che stanno dietro il biglietto acquistato dai viaggiatori. Come nella migliore tradizione della casa di Dave Gilbert, autore di cult come Unawoved o la serie The Blackwell, nonché editore di altri titoli ben riusciti come l’horror The Excavation of Hob’s Barrow, che hanno rinverdito i fasti dei classici punta e clicca della stagione d’oro degli anni Ottanta-Novanta, Old Skies è anche un omaggio pieno di struggente nostalgia per qualcosa o qualcuno che non esiste più, che magari vorremmo invece fosse ancora con noi, trasformando un sentimento nella materia viva del nuovo videogame. Le azioni dei clienti affidati alle cure di Fia possono determinare disastri cui si deve ovviamente cercare di rimediare per non compromettere il futuro, mentre si passano in rassegna eventi che hanno segnato la storia degli Stati Uniti, e non solo, dall’età del Proibizionismo, scolpita nell’immaginario da capolavori letterari e cinematografici, agli attentati dell’11 settembre 2001, di cui molti di noi serbano memoria, ricordando dove si trovavano nel momento dell’attacco. Corde che tanto più devono essere risuonate in Gilbert, che abita a New York, teatro chiaroscurale dei gialli tra realtà terrena e ultraterrena di The Blackwell. In Old Skies ci sono al solito enigmi da risolvere, psicologie da decifrare, per procedere in questa appassionante versione di un tema che ha arrovellato i maggiori scrittori di fantascienza. Può la storia essere riscritta? Fino a che punto? Qual è il limite che agenti come Fia devono imporsi? Chi vuole tornare indietro forse ha qualcosa da farsi perdonare, qualcosa da ricucire. Il fatto però che il passato non si possa alterare, non potrebbe essere in verità un invito a vivere pienamente il presente, per non doversi rammaricare domani?
Il titolo del gioco d’esordio di Sassy Chap Games, studio di Los Angeles (California) fondato da doppiatori professionisti che hanno partecipato a celebri videogame, non è un’esagerazione, perché in Date Everything! si può proprio incominciare una relazione interpersonale proprio con chiunque, o meglio con qualunque cosa, e non necessariamente con il coinvolgimento romantico tipico dei classici date simulator. Una volta deciso con chi vogliamo approfondire la conoscenza, non è infatti detto che la conclusione del percorso sia l’amore. Potrebbe invece svilupparsi una bella amicizia oppure evolversi un’antipatia, se non una totale avversione. In Date Everything!, che adotta lo stile narrativo di una visual novel, con attenzione anche e soprattutto alle voci (in inglese) attribuite al variegatissimo cast di personaggi, c’è comunque molto più di ciò che appare. Dietro l’umorismo demenziale delle situazioni, si intravede una critica sociale nei confronti del consumismo esasperato e del rapporto che instauriamo con le cose in generale, con i gingilli high-tech in particolare. Il protagonista (o la protagonista, si chiarisce all’inizio in che panni calarsi) viene ingaggiato da un’azienda per lavorare nel Servizio Clienti, ma viene subito lasciato a casa perché il suo posto è stato immediatamente preso da un’intelligenza artificiale. Nel mondo immaginario di Date Everything! il neoassunto non viene però licenziato, solo rimane nel suo appartamento, cercando un modo per riempire le giornate. Il (provvidenziale?) arrivo di un paio di Dateviators, occhiali misteriosi e dalle proprietà portentose sconvolge qualsiasi trantran, proiettando la vicenda in un quadro più vasto. L’invenzione permette di vedere una realtà piena di vita latente, che grazie a quelle lenti riesce a venire alla luce, trasformando elementi di arredo, elettrodomestici, strutture nella loro versione antropomorfa, nella quale si mantengono, comicamente trasfigurate, le rispettive caratteristiche tradotte in tratti della loro personalità. Così il pavimento è disponibile e altruista, ma guarda caso non è in grado di farsi rispettare, abituato come è a farsi calpestare senza ribellarsi. Lo specchio non può che essere un po’ vanesio. Con ognuno dei cento personaggi nascosti - la porta, la lavatrice, il gabinetto, il letto, l’orsacchiotto, la console, l’interruttore della luce … - si interagisce e si dialoga nell’arco della giornata, forgiando il tipo e la qualità di affetto o di disaffezione tra noi e una manciata di interlocutori. Dopo di che, la notte ci si deve riposare e consentire agli occhiali di ricaricarsi, per riprendere l’indomani i fili del discorso, migliorando e acquisendo, man mano che si procede, maggiori competenze e possibilità di azione, per rianimare in questo modo tutti gli ospiti inanimati dell’abitazione. Se è tra le mura domestiche che si trascorre la maggioranza delle ore, non mancano comunicazioni con il mondo esterno, indispensabili per capire cosa stia effettivamente succedendo con i Dateviators e perché.
Un mondo piagato da un’energia malvagia che sta corrompendo tutto, risvegliando i morti e provocando il dilagare di schiere di demoni, dietro i quali non può che esserci lo zampino del crudele drago Guernian, in passato fuggito in un anfratto dal quale deve aver trovato il modo per riemergere e sarebbe ora l’artefice dell’aprirsi di tante, misteriose fenditure. Tra queste ultime, lo squarcio spalancatosi non lontano dal villaggio di Cliffshire, dove si ritrovano i Successori, guerrieri immortali investiti dagli dei del difficile compito di sconfiggere il male. In Dragon is Dead appartengono a classi diverse, ciascuna con le proprie armi e punti forti caratteristici, ma si può agevolmente passare da una all’altra, in base alle necessità del momento, per sperimentare le rispettive potenzialità, mantenendo l’equipaggiamento maturato al di fuori dei combattimenti, non lo stile e l’arsenale specifici di quel personaggio. Il gioco sviluppato da Team Suneat, piccolo studio formato da quattro veterani del settore riuniti in una sussidiaria dell’editore indipendente MP, con sedi a Las Vegas e a Seul, è un platform d’azione 2D con elementi roguelite e hack-and-slash. Se è vero che si muore spesso, come vogliono le regole dei roguelike e dei roguelite, si rinasce però conservando, almeno in parte, ciò che abbiamo acquisito, per cui il personaggio continua a crescere e a migliorare, anche grazie alle potenti rune raccolte nel corso del viaggio dell’eroe verso l’ignoto, in un paesaggio spettrale, medievaleggiante, dalle atmosfere gotiche, che la grafica in pixel art restituisce con forti suggestioni, tra monasteri abbandonati, selve sacre maledette, città devastate, caverne infestate. Si procede sbaragliando i mostri, recuperando oggetti, eventualmente da ricombinare insieme per ottenerne di ulteriori, si ricevono ricompense, si cerca di arrivare il più attrezzati possibile al duello con il boss alla fine dell’area, per poi passare a quello successivo, provando a capire quale verità celino le oscure leggende fiorite sui draghi annientati dalle divinità legate alla Luce, al Fuoco e all’Acqua.
Un fungo ci seppellirà? È la minaccia evocata in romanzi (la saga di Ambergris di Jeff VanderMeer, The Genius Plague di David Walton) e film (Matango, The Spore, Shrooms), di fantascienza, spesso virata all’horror, fino al videogame The Last of Us, dove appunto un micete diventava veicolo di un’infezione letale. Come indica il titolo, anche Mycopunk dello studio indie Pigeons at Play si inserisce nel filone, ma con uno sguardo più aperto al lato comico che non al terrore puro suscitato da certe situazioni, come sottolineato dalla coloratissima grafica cartoon. Uscito con la formula dell’accesso anticipato, questo fps cooperativo vede in azione una squadra di robot scalcagnati, il cui riscatto è legato al pericoloso compito di liberare la galassia dalla colonizzazione apocalittica di funghi, a loro volta accessoriati di tutto punto per combattere e capaci di distruggere ogni ecosistema. Il disegno dei nemici si ispira a organismi tratti dalla fauna e dalla flora del mondo reale, come il caratteristico dente bilioso, che nelle fasi iniziali della sua crescita appare cosparso di goccioline rosse simili a sangue. I miceti si presentano anche come parassiti di insetti che sembrano ragni, a rievocare ulteriori scenari catastrofici. La tecnologia si concentra nell’arsenale di entrambi gli schieramenti, con i nostri avversari pronti anche a hackerare le strutture esistenti, per impedire l’accesso alle risorse in loco. Se gli sviluppatori si sono divertiti a creare mostri assemblando molteplici spunti, i giocatori possono a loro volta sbizzarrirsi a progettare e potenziare le armi più fantasiose. Tra una missione e l’altra i robot è concesso riposarsi in una navicella-motel, dove stringere nuovi rapporti, rilassarsi giocando e magari finire vittime del fuoco amico incrociato.
In alcune scene clou di Ritorno al futuro appariva provvidenzialmente un avveniristico hoverboard, il volopattino, diventato uno dei simboli più celebri della saga cinematografica di Robert Zemeckis. Gli autori di Star Overdrive, uscito originariamente per Nintendo Switch e ora approdato su Pc, Playstation e Xbox, hanno spiegato invece di aver guardato all’anime Eureka Seven, dove robottoni cavalcano onde di energia sfrecciando su grandi tavole simili a quelle da surf. Lo sguardo al Giappone gettato dallo studio romano Caracal Games, per realizzare con Star Overdrive quello che è a oggi il loro titolo più ambizioso, coinvolge l’essenza stessa dell’action adventure, dichiaratamente ispirato ai capolavori Nintendo The Legend of Zelda: Breath of the Wild e The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom per dar vita a un mondo esplorabile liberamente dove avventura, azione ed enigmi concorrono a rendere unica l’esperienza. Se il nome della software house potrebbe richiamare, per assonanza, un antico imperatore e un monumentale complesso termale dell’Urbe, il logo indica chiaramente il profilo di un felino esotico, il caracal appunto, solitario ed elusivo, scelto quale icona di una volontà di indipendenza. Uno spirito che non sembra estraneo allo stesso protagonista di Star Overdrive, Bios, il quale, nel tentativo di soccorrere l’amata Nous, scomparsa inspiegabilmente, ma da cui è arrivata una richiesta di aiuto, finisce intrappolato in uno strano pianeta, dove la sua astronave precipita. Per spostarsi può contare dunque su un hoverboard potenziato, per sbaragliare i nemici ha come arma una Keytar, versione futuristica dello strumento musicale elettronico inventato nel 1980 dove la tastiera (keyboard in inglese) è collocata su un manico per essere imbracciata come una chitarra (guitar in inglese). Il cerchio del favoloso decennio del vero debutto dei videogame nelle case degli italiani si chiude così nel segno della musica, altra componente fondamentale di Star Overdrive, la cui colonna sonora, oltre a omaggiare il rock dei leggendari Van Halen, ricorda i film di fantascienza del periodo che affidavano ai sintetizzatori il compito di comunicare le atmosfere ipnotiche e sospese dei viaggi nelle profondità dello spazio. Bios si getta subito nella missione di capire cosa sia successo a Nous, destreggiandosi
tra corse adrenaliniche e acrobazie spericolate, ingegnosi rompicapo, indizi affiorati dal passato, abilità da far crescere e applicare per migliorare la propria attrezzatura. È in definitiva l’eterno sentimento dell’amore a muovere tutto, qui sulla Terra e lassù nelle remote lande di regioni aliene?
C’era da aspettarselo: la Cina è sempre più una superpotenza anche per quanto riguarda il digital entertainment. Domina da anni il settore mobile, ma sta compiendo passi da gigante su tutti i fronti, dai kolossal come Black Myth: Wukong o l’imminente Wuchang: Fallen Feathers fino alle produzioni più piccole, ascrivibili alla cosiddetta galassia indipendente. A quest’ultima famiglia appartiene Veewo, studio sorto nel 2011 nella città costiera di Xiamen, storicamente un porto franco e poi una delle prime quattro zone economiche speciali del Paese, naturalmente aperta all’occidente per via dei commerci internazionali. Nel 2020 il team ha conquistato la platea globale con la hit Neon Abyss, riuscita rivisitazione di uno dei filoni che tra gli indie vanno per la maggiore, cioè i roguelike, dove ogni partita è diversa dall’altra e il game over non rappresenta la conclusione dell’avventura, ma l’occasione per ricominciare subito, più forti di prima. Anche l’estetica, coloratissima e squisitamente pop, piena di riferimenti culturali, è stata un ingrediente del successo, che gli autori provano a replicare ora, lanciando il sequel Neon Abyss 2 attraverso la formula dell’accesso anticipato per Pc su Steam. Quando saranno terminati i lavori, il titolo ha in programma di uscire anche per console, come il precedente. La versione work in progress permette comunque ai fan di farsi già un’idea della direzione del progetto, che riprende ed espande un po’ tutti gli elementi dell’originale, aggiungendo più armi, più nemici e in generale più variabili, grazie al perfezionamento della dinamiche procedurali per oggetti e dungeon, oltre all’introduzione di nuovi sistemi di gioco e al ritorno degli assistenti, da collezionare ed evolvere in stile Pokémon. La vera novità è però che Neon Abyss 2 si fonda su un pilastro inedito: la possibilità di affrontare l’intera esperienza anche in co-op online, fino a quattro partecipanti, scoprendo insieme diverse sinergie.
Wonder Boy è tra la tante serie del Made in Japan che si sono ritagliate un posto nel cuore degli appassionati. Più volte inserita nelle raccolte dei cult per le console di Sega, ha avuto una particolare influenza nel panorama, accompagnando l’evoluzione del medium, dal platform di stampo arcade all’action adventure caratterizzato da elementi rpg, insomma quelle venature da gioco di ruolo che ancora oggi vanno per la maggiore. Non a caso, negli ultimi tempi, alcuni sviluppatori che sono cresciuti con il mito di allora hanno voluto omaggiare l’eredità dei classici, realizzando il remake Wonder Boy: The Dragon’s Trap (i francesi Dotemu e Lizardcube) e il sequel/reboot Monster Boy and the Cursed Kingdom (sempre Oltralpe, a opera di Game Atelier, insieme all’autore originale Ryuichi Nishizawa). Wonder Boy Asha in Monster World nasce invece direttamente in Giappone, per mano di Monkeycraft, che ha collaborato con l’editore nipponico Bliss Brain, conosciuto per aver riportato sugli schermi la vecchia saga di Princess Maker e che ha in programma di pubblicare prossimamente la Wonder Boy Collection. Uscito precedentemente per Steam, Ps4 e Switch, Wonder Boy Asha in Monster Worl arriva adesso in una riedizione per le odierne console, che porta il titolo al debutto su Xbox Series, inserito nel catalogo Play Anywhere, una funzione che consente, con un singolo acquisto digitale, di usufruire del gioco sia sulle console Xbox che su computer Windows, tramite Microsoft Store. Impreziosito da una grafica ricostruita in 3D che mantiene però un effetto disegnato nello stile degli anime, il videogame è altresì una copia esatta del vecchio episodio per Mega Drive, datato 1994, noto come Monster World IV e il sesto Wonder Boy. Protagonista la giovane Asha, un’eroina arabeggiante in un’avventura a scorrimento dal sapore mediorientale, tra tappeti volanti, geni della lampada, architetture e creature in tema, mentre le dinamiche ruotano attorno all’aiutante mascotte Pepelogoo, indispensabile per superare certi ostacoli.
Quando nella primavera del 2019 Islanders, il city builder creato dallo studio indie tedesco Grizzly Games e frutto della passione per il genere nutrita da un gruppo di amici quando ancora erano studenti all’università Htw di Berlino, si era affacciato sulla scena videoludica, aveva subito conquistato una platea trasversale, grazie al ritmo rilassato, all’incanto delle ambientazioni, alla ricerca di un minimalismo capace di unire semplicità, divertimento, varietà e profondità. Filo conduttore la costruzione non di città, ma di intere isole, in una commistione di architettura e paesaggio. Idee che si ritrovano ora nel sequel, Islanders: New Shores, sviluppato da The Station in collaborazione con Coatsink, con diverse novità, dall’introduzione di nuovi edifici alla modalità di ottenere i punti, che anche prima costituiva una delle dinamiche principali di Islanders, adesso resa ancora più articolata. La filosofia zen alla base non è comunque cambiata. Si comincia con il posizionare personaggi, attività, edifici su un’isola incontaminata, guadagnando punti a seconda delle scelte compiute, imparando quindi a pianificare strategicamente le nostre mosse, così da riuscire a sbloccare ulteriori strutture. L’introduzione dei biomi, ciascuno con il proprio clima e la propria vegetazione, aggiunge variabili alla progettazione, tra coste tropicali infide per la navigazione, isole vulcaniche percorse da fiumi di lava incandescente o, nell’estremo nord, distese di ghiaccio dove diventa vitale sfruttare le forme di energia presenti in loco per riscaldare gli insediamenti. Completata la nostra opera, è possibile immortalarla scattando una foto, sfruttando la gamma di filtri disponibili, che vanno dall’effetto vhs d’antan all’espressività dell’acquerello.
Un villaggio idilliaco, che tanto idilliaco non è, nonostante le apparenze. Lo scopre quasi per caso la giovane protagonista Ren, che vive felice con la moglie in una fattoria, ma si ritrova di colpo catapultata in una realtà di universi paralleli, antichi dei con i loro progetti sull’umanità e uno strano culto che ha come oggetto di venerazione un paralume. C’è molta ironia, ma in Quantum Witch dietro il tono leggero delle imprese di Ren, investita niente meno della missione che a salvare il mondo, la sviluppatrice Nikki Jay ha spiegato esserci il suo doloroso vissuto, cresciuta da bambina nel Nord dell’Inghilterra in una setta apocalittica, alla quale la sua famiglia apparteneva da due generazioni. Oltre alle tematiche Lgbtq+, il gioco intende esplorare i meccanismi che accomunano certi movimenti religiosi estremisti, capaci di annullare la volontà dell’individuo a favore della cieca sottomissione alle indicazioni del guru, nonché di isolare, colpevolizzare, omologare, esercitare un controllo pervasivo. Al contrario il gioco chiede ripetutamente di prendere decisioni e di non fuggire dalle proprie responsabilità personali, aprendo a bivi che dischiudono differenti percorsi ed evoluzioni, consentendo di ritentare modificando le nostre scelte così da intraprendere ulteriori vie, scovare altri segreti, sperimentare inedite opportunità, che influiscono non solo sul finale, ma sulla durata dell’avventura, di per sé strutturata in modo tale da suggerire di ricominciarla più e più volte. Al racconto in pixel art concorrono anche gli altri personaggi, con cui Ren dialoga e si confronta, forte della sua abilità di viaggiare nelle varie dimensioni spazio-temporali, ciascuna con luoghi e popolazioni peculiari, che suscitano interrogativi per i quali la giovane ha la risposta o si deve ingegnare a trovarla.
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