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THE BERLIN APARTMENT (Blue Backpack, ByteRockers’ e Parco, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Le vite che rimangono come tracce nascoste nelle case dove sono trascorse le esistenze di uomini e donne, con i loro attimi felici e i momenti di sconforto. Destini individuali comunque partecipi, volenti o nolenti, di un affresco molto più grande, inevitabilmente coinvolti, se non travolti, dai crocevia della storia. The Berlin Apartment ha alcuni spunti in comune con un genere che oggi va per la maggiore, ossia i giochi che richiedono di sistemare, riordinare, ammobiliare una casa, ma nelle mani di Blue Backpack è poco più che un espediente narrativo. Il risultato è un racconto carico di emozioni e di poesia, che diverte, ma anche indigna e commuove. La protagonista Dilara è la figlia di Malik, un abile tuttofare incaricato di ristrutturare gli interni malmessi di un appartamento in vista dell’arrivo dei nuovi inquilini. Siamo nel 2020, le scuole sono chiuse per le restrizioni anti Covid e la bambina, per non restare da sola, accompagna il padre su un luogo di lavoro che, agli occhi della piccola, si trasforma in uno scrigno di sorprese. Una lettera rinvenuta sotto la vecchia carta da parati, una fotografia in bianco e nero, una decorazione natalizia stranamente realizzata con la paglia, una macchina da scrivere… A Malik quegli oggetti suggeriscono narrazioni che calano nel passato di Berlino ricreandone le atmosfere, grazie anche agli eloquenti dettagli del disegno minimalista ed elegante di The Berlin Apartment, attento a mostrare la quotidianità delle persone. Si scopre che davanti alle finestre dell’edificio passava il muro di Berlino, dividendo in due la città. Siamo nel 1989 e due dirimpettai comunicano attraverso aereoplanini di carta, poiché dal centralino telefonico sembra sia impossibile mettere in contatto gli apparecchi posti a qualche centinaia di metri di distanza. Ancora pochi mesi, comunque, e quell’ostacolo di cemento non ci sarà più, abbattuto il 9 novembre 1989. Il clima oppressivo della Ddr emerge anche nell’episodio su una scrittrice di fantascienza alle prese con la stesura di un romanzo che la commissione preposte ad autorizzare la pubblicazione chiede continuamente di modificare, senza riuscire ad abbattere l’animo dell’autrice che non vorrebbe cedere, ma deve tener conto della situazione effettiva. Il viaggio a ritroso copre l’arco di un secolo, nei flashback dentro al flashback del capitolo sulla Berlino del 1933. Per il residente ebreo l’appartamento non è più un posto sicuro e lo deve abbandonare velocemente, ma cosa includere in una valigia per non perdere del tutto sé stessi e la propria memoria? Non ci stanno i libri, né Il processo di Kafka, con la dedica dell’autore ottenuta in un incontro all’hotel Askanischer Hof (celebre nella biografia dello scrittore ceco), né il popolarissimo Arianna di Claude Anet o il controverso Vita coniugale di David Vogel o l’avventuroso Plutonia di Vladimir Obruchev. Aiutano a contestualizzare il frangente di un mesto addio, ravvivato dalla rievocazione della vivace Berlino durante la Repubblica di Weimar, quando il protagonista aveva inaugurato il suo cinema. Le pizze cinematografiche su tavoli e scaffali, le locandine sui muri sono lì a testimoniare quella passione, associate a vari aneddoti. L’orologio però incalza, non c’è da indugiare. Ce la farà a salvarsi? L’episodio più toccante conduce al Natale del 1945. Ci si affaccia su macerie, ingentilite dal manto di neve, ma gli infissi coperti da assi chiodate, le stanze spoglie, il freddo e quasi niente da mettere in tavola disvelano la crudezza di quell’inverno spietato, con una figlia nella vana attesa del ritorno del padre dal fronte e una madre disperata che tenta di proteggere la piccola dal dolore e dagli stenti, barattando anche la fede nuziale al mercato nero. La fantasia di una bambina può però venire in aiuto persino nel buio più cupo. Il doppiaggio, sia in inglese che in tedesco (con sfumature di pronuncia nell’utilizzo dei dialetti), è affidato ad attori della Germania, per un tocco in più di autenticità.

ANNO 117: PAX ROMANA (Ubisoft, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Nel 117 dopo Cristo muore all’improvviso Traiano, l’optimus princeps, consegnando al successore, il filosofo Adriano, l’impero romano nella sua massima espansione territoriale. Un apice raggiunto con le sue capacità di generale, politico, amministratore. Convenzionalmente parte da questa data il periodo di (relativa) tranquillità conosciuto come pax romana, incrinata quasi mezzo secolo dopo dall’irrompere delle invasioni barbariche, prologo al collasso definitivo. Proprio al 117 ha dunque guardato Ubisoft Mainz, lo storico studio tedesco che ha raccolto l’eredità della serie Anno, lanciata nel 1998 dalla casa austriaca Max Design, chiusa nel 2004. Se, a cominciare dal titolo d’esordio, Anno 1602, un bestseller assoluto in Germania, sui pionieri europei diretti in America, è stata privilegiata l’età moderna, spingendosi in avanti con i sequel fino ad approdare nel futuro immaginato dalla fantascienza, con Anno 117 si cambia completamente scenario per compiere un lungo salto a ritroso e arrivare così nel cuore dell’antichità classica. Nei panni di un governatore romano, l’ufficiale incaricato di amministrare una provincia dell’impero, occorrerà capire quali azioni intraprendere per farla prosperare, partendo da inizi umilissimi, ma coltivando sogni di grandiosità. Per gli sviluppatori era inevitabile affrontare, prima o poi, la civiltà dell’Urbe, con la sua monumentalità architettonica, la rete di strade lastricate, l’impianto urbanistico a scacchiera, tuttora adottato nelle nuove fondazioni… Aspetti che la rendevano particolarmente adatta a essere trasposta nella pluripremiata serie di Ubisoft, tradizionalmente dedita a colonizzare lande, raccogliere risorse, costruire città e gestire il commercio, tutte attività nelle quali i Romani eccellevano. C’è poi un’ulteriore caratteristica fertile di riflessi sulle dinamiche della simulazione, ossia il fatto che l’impero romano, esteso su tre continenti, si configurasse come un mosaico di lingue, religioni, tradizioni, basato sulla convivenza tra diversi popoli. In Anno 117 lo si sperimenta in due opposti contesti. C’è il Lazio inondato di sole, con le sue spiagge, la campagna colorata di campi di lavanda in un’Italia che sembra un paradiso di bellezza; c’è Albione, ossia l’Inghilterra, immersa in una coltre di nebbia, tra distese di paludi e coste rocciose, in un ambiente ostile dal punto di vista non solo naturale, essendo abitato da tribù celtiche indomite e diffidenti. Nella modalità Campagna, che assume anche il ruolo di un ampio tutorial, si sceglie se impersonare Marcus o Marcia, fratello e sorella, che permettono di cogliere il percorso narrativo da due differenti prospettive, più orientato alla politica il primo, più interessata ai risvolti sociali, culturali e civili la seconda. Comune a entrambi l’obiettivo di far rinascere la colonia romana di Ambrosia su un’isola non lontana da Roma e devastata da un’eruzione vulcanica, con la drammatica svolta, in seguito a un susseguirsi di eventi, di trovarsi poi in esilio nella remota Albione. Al termine della seconda parte della Campagna, il gioco diventa un sandobox, pieno di libertà di azione e di esplorazione, dove modellare a piacere la propria esperienza, anche stabilendo se sul trono vogliamo sieda un imperatore o un’imperatrice, agli ordini dei quali ci si può uniformare oppure ribellare, in un contesto in cui si muovono altri personaggi dall’intrigante personalità. Se l’indole della serie Anno è intimamente pacifista, fin da Anno 1602 era però comparsa l’arte della guerra. In Anno 117: Pax romana, pur con l’opportunità di optare per un approccio improntato più alla diplomazia evitando di imbracciare le armi, si possono scatenare conflitti con i governatori rivali o con i clan più riottosi o essere costretti a difendere le rotte delle imbarcazioni minacciate dai pirati. Gli scambi economici sono il fondamento di questo gestionale e strategico in tempo reale, attraverso un sistema straordinariamente dettagliato, con i trasporti delle merci organizzati via terra o via mare. L’interfaccia è chiara e intuiva, requisito essenziale per dominare una materia potenzialmente infinita, tante sono le variabili e i fattori in campo, in una storia da reinventare, che sembra plausibile perché è riuscita a combinare molteplici spunti tratti dalle fonti, che sa appassionare al destino dei singoli e delle comunità, che racconta di come i contrasti possano appianarsi o sfociare in guerre sanguinose, ma è la concordia tra i popoli il vero lievito che alimenta lo sviluppo e il benessere di qualsiasi provincia, che sia al centro o all’estrema periferia dell’impero. Ci si può dividere i compiti in co-op fino a quattro giocatori o competere nel multiplayer fino a sedici partecipanti.

RUE VALLEY (Owlcat, per Pc e console)
Per la software house Emotion Spark, di Belgrado, si tratta del titolo di esordio, ma il team che ha realizzato Rue Valley è formato da veterani, in gran parte già insieme al lavoro sul survival fantascientifico Hellion, quando lo studio si chiamava Zero Gravity. Successivamente le strade si erano divise, confluendo chi in Ubisoft, chi in Saber Interactive, chi in Ebb Software (per l’horror Scorn), chi in Art Bully, casa di Belgrado che ha contribuito a Call of Duty, Rocket League, Amnesia, Stray, per citarne solo alcuni. Ritrovatisi in Emotion Spark, fondata nel gennaio del 2020, vi hanno portato l’esperienza maturata sul campo. Rue Valley è un gioco di ruolo isometrico dalla forte impronta narrativa, un po’ come Disco Elysium, i cui principali autori - il programmatore e sceneggiatore Robert Kurvitz, l’art director Aleksander Rostov e la sceneggiatrice Helen Hindpere - avevano avuto modo di vedere e apprezzare l’opera di Emotion Spark mentre era ancora in fieri. A rivelarlo Marko Smiljanic, direttore creativo di Emotion Spark intervistato in una puntata del podcast Human Can Opener. In apparenza Rue Valley sfrutta un espediente simile a quello del film Groundhog Day, anche se nel videogame a ripetersi in maniera incessante è un periodo di appena 47 minuti, interrotto da una misteriosa esplosione. Il protagonista, Eugene Harrow, per spezzare la gabbia in cui è imprigionato deve capire cosa abbia causato il loop. Si sa che ha sofferto di un crollo psicologico, si risveglia sul lettino del terapeuta in prossimità della stanza del motel dove va a ritemprarsi. Che si tratti di un percorso verso la guarigione? Ogni volta che si ricomincia, l’uomo riparte da zero, ma grazie alle annotazioni riportate su un grafico, ha imparato qualcosa di sé, del proprio passato e di un oscuro trauma. Sono i meandri della mente il vero terreno di esplorazione di un videogame che permette al giocatore di scegliere quale carattere attribuire al personaggio, più decisionale, estroverso o emotivo, nessuno migliore o peggiore in assoluto. Potrebbe trattarsi di una maschera da indossare in pubblico o del sé più profondo: comunque influisce su quei 47 minuti, che si rinnovano (quasi) uguali, a eccezione di dettagli non secondari: il comportamento di Eugene cambia e di conseguenza l’impostazione della sua indagine per raccogliere gli indizi. Gli interlocutori che incontriamo dimostrano poi di avere progetti e incombenze, per cui magari li vediamo nel loop successivo in un altro momento e luogo, con ulteriori indicazioni su chi siano e sui motivi che li hanno condotti lì. La stessa scena può essere colta da una prospettiva differente, permettendo di trarre diverse considerazioni, in uno stratificarsi complesso e ramificato. Raccontato come un fumetto disegnato a mano, con un occhio anche a film d’animazione come Spider-Man - Un nuovo universo e a serie antologiche come Love, Death & Robots, Rue Valley accompagna nella sperduta cittadina da cui prende il nome, circondata dal deserto. Lo smarrito e smemorato protagonista progressivamente si evolve e acquista la volontà necessaria per agire, vincendo una paralizzante apatia, in una declinazione non convenzionale dei gdr, che ha ottenuto il sostegno dell’editore Owlcats Games, dichiaratamente devoto al genere dei giochi di ruolo nelle sue svariate incarnazioni. Una partita non basta per abbracciare l’intera storia: occorre cominciarla daccapo, adottando in un certo senso la routine di Eugene.

MARVEL COSMIC INVASION (Dotemu, per Pc e console)
Chi ha bisogno di rispolverare dalla soffitta la collezione dei 16-bit quando escono titoli così? Provocazioni a parte, Marvel Cosmic Invasion è il nuovo fenomenale tuffo nel passato di due compagnie che ne hanno fatto un po’ la loro specialità, portando a rivivere, nella dimensione contemporanea dell’odierno digital entertainment, lo spirito arcade di una volta. Hanno studiato un sacco per raggiungere simili risultati. Quindi anche i vecchi videogame vale ancora la pena giocarli. Altrimenti Dotemu non sarebbe giunta a firmare quel capolavoro che è Streets of Rage 4, sequel della famosa saga beat ‘em up di Sega atteso un quarto di secolo e i cui primi fan sono gli stessi ragazzi della casa francese, che si è fatta le ossa realizzando le riedizioni di vari classici degli anni ‘90, un compito che prevede di scavare a fondo nel codice dimostrando di averne appreso ogni minimo segreto per poterlo poi replicare perfettamente. Nel medesimo solco sono arrivate le collaborazioni con team interessati a intraprendere revival dei cult tanto amati, che si tratti di remake, come Wonder Boy: The Dragon’s Trap insieme a Lizardcube, o più in generale di omaggi a un’epoca, certe opere e precisi filoni come i titoli che caratterizzano la carriera di Tribute Games, la quale dice tutto subito nel nome. Fondata da ex di Ubisoft Montreal che avevano lavorato a Tmnt e a Scott Pilgrim vs. the World: The Game, già straripanti della passione degli sviluppatori per i picchiaduro a scorrimento, di uscita in uscita Tribute non ha smesso di celebrare l’eredità dei coin-op con cui è cresciuta una generazione di appassionati. La si ritrova all’ennesima potenza anche in Marvel Cosmic Invasion, che segue e rilancia gli eccellenti risultati conquistati nel 2022 da Teenage Mutant Ninja Turtles: Shredder’s Revenge, sempre una partnership tra Dotemu e Tribute dove viene rielaborata la tradizione dei beat ‘em up. Al posto delle tartarughe ninja adesso c’è un intero cast di supereroi. Non un elemento di contorno, ma un aspetto significativo della produzione, che insiste sulle peculiarità di ciascuno dei 15 personaggi sbloccabili, selezionati dal pantheon della casa delle idee soppesando iconicità agli occhi dei fan e utilità nell’economia delle dinamiche di gioco. Perché Marvel Cosmic Invasion è sì bellissimo nella sua cartoonosa pixel art che richiama anni mitici. Soprattutto però funziona a meraviglia joypad in pugno, da soli (alternando una coppia di supereroi nel segno delle sinergie tag team e di combo degne di un fighting) o in compagnia (un’abbuffata co-op online e offline fino a quattro partecipanti) grazie a una purezza del gameplay che ovunque regna sovrana. Scorrere livelli che sembrano, e citano, fumetti con i rispettivi archi e immaginari è un inno alla gioia in cui si inseriscono, oliati perfettamente, gli ingredienti che hanno fatto grandi i brawler delle migliori scuole giapponesi, da Capcom a Konami. Marvel Cosmic Invasion rappresenta la ciliegina sulla torta per l’editore Dotemu, che chiude il 2025 col botto dopo aver pubblicato anche Ragebound, il Ninja Gaiden old school di The Game Kitchen, e lo spettacolare Absolum di Guard Crush e Supamonks, capaci di infondere nuova linfa animata, una moderna chiave fantasy e una buona dose di roguelite a capisaldi di stampo hack and slash come Golden Axe e Dungeons & Dragons: Shadow over Mystara che per l’occasione incontrano le influenze di Dead Cells, all’insegna di una rivoluzione squisitamente francese. Aspettando nel 2026 Battlestar Galactica: Scattered Hopes e Starship Troppers: Ultimate Bug War!

REUS 2 (Firesquid, per Pc, Xbox Series e Switch)
Le divinità ciclopiche sono tornate (adesso anche su Switch e Xbox Series, a oltre un anno dal debutto su Pc), per modellare pianeti in 2D sempre più verdi e su misura per il genere umano, al quale è lasciata la libertà di migliorare o deturpare, fino a distruggerlo, l’operato di quei Giganti benigni e generosi. Che Reus, uscito nel 2013, clamoroso titolo di esordio della software house olandese Abbey Games, si riaffacciasse con un sequel non era scontato. La casa di Utrecht aveva intanto inanellato i successi Renowned Explorers (2015) e Godhood (2020), sempre nel solco di manageriali strategici dove affrontare anche scenari molto complessi, poi erano venute alcune traversie, superate con Reus 2. Rispetto al Reus originale, il seguito ha guadagnato un’attitudine ancora più cosy, per usare l’etichetta associata ai videogiochi dall’atmosfera rilassante sempre più popolari in questi tempi di ritmi frenetici. L’uscita sulle console di Nintendo e di Microsoft è stata accompagnata dall’espansione Ice Age, che è andata ad aggiungersi a Everglades, mentre nel 2026 sono attese le praterie di Grasslands. Come indica il nome, mutuato dall’ecoregione paludosa nel sud della Florida, il focus di Everglades è sulle zone umide. Ice Age invece introduce il bioma della tundra dell’era glaciale. Reus è infatti una reinterpretazione sia della storia della Terra sia dell’evoluzione dell’umanità, dai primordi alle più futuristiche esplorazioni spaziali, mantenendo sempre al cuore il rapporto con la natura, attraverso la manipolazione dei biotica, ossia le entità vegetali, animali e minerali con cui i Giganti plasmano il mondo. Si può decidere se privilegiare o meno la biodiversità, scoprendo quanto questa sia un valore, perché un’unica specie, anche moltiplicata al massimo, da sola non ha chance di prosperare, poiché contano le caratteristiche, le necessità e le abitudini di ciascuno, come pure le relazioni con l’intorno, provando a ottenere le combinazioni più vantaggiose. Ci sono prede e predatori, ci sono habitat favorevoli a qualcuno e ostici agli altri. Spesso non esistono decisioni migliori in assoluto, ma validi compromessi, sulla base della direzione che si vuole imprimere allo sviluppo degli insediamenti per arrivare a un pianeta sostenibile dove tutti vivono felici e contenti. Soddisfare le esigenze degli umani non è comunque un’impresa di per sé facile. Recriminazioni, voltafaccia e ribellioni sono dietro l’angolo. Gli dei agiscono alla luce dei loro poteri - chi pianta alberi che danno frutti, chi crea oceani utili per esempio a separare popolazioni per evitare il sorgere di conflitti, chi diffonde superfici desertiche o vene minerarie - in un bilanciamento continuo di desiderata che si scontrano con i loro effetti sulla realtà, se si trascura questo o quel fattore. All’inizio ci sono tre divinità, ma se ne sbloccano di ulteriori cammin facendo. L’ideale è che collaborino in armonia a fin di bene, considerando i bisogni delle tribù, per raggiungere il progresso culturale, sociale, tecnologico che consente di approdare nell’era successiva. Coronata con successo l’impresa, ci sono comunque sempre condizioni da migliorare, a meno di non volersi lanciare nell’impresa di infondere linfa da zero a un nuovo pianeta, sfruttando le molteplici variabili, in un’esperienza che ha i suoi punti di forza nel divertimento dato dalle capacità di soppesare, modificare, sperimentare. La grafica dai colori brillanti, disegnata come un avvincente libro illustrato, concorre a mantenere alto il coinvolgimento nel gioco. Con Ice Age compaiono leader inediti, quali il poeta e il pittore, intermediari delle richieste degli abitanti delle città con i Giganti. I capi stabiliscono speciali sinergie con certi biomi, a ribadire l’importanza di saper leggere le correlazioni in sistemi interconnessi.

BUBBLE BOBBLE SUGAR DUNGEONS (Arc System Works, per Pc, Playstation e Switch)
I draghetti creati nel 1986 dalla fantasia di Fukio MTJ Mitsuji sono tornati, nel nuovo titolo del longevo classico Bubble Bobble, che si era concesso una pausa dopo l’action Bubble Bobble 4 Friends (2019), con qualche novità nel campo degli spin-off Puzzle Bobble, i rompicapo con le sequenze di bolle colorate da colpire che utilizzano personaggi e temi musicali della serie principale. Al più recente, Puzzle Bobble Everybubble! (2023), ha lavorato anche Tomohito Oka, produttore di Bubble Bobble Sugar Dungeons, lo step-up con protagonista il drago verde Bub, fratello di Bob, che in Giappone arriverà su Ps5 e Switch nella primavera del 2026, in coincidenza con i festeggiamenti per il quarantesimo compleanno della saga. Da noi invece sono già disponibili le versioni sia per Pc, sia per le console Nintendo e Sony. Del resto, anche Bubble Bobble 4 Friends - sviluppato da Taito a ventitré anni dal precedente titolo, Bubbles Memories, del 1996, era giunto prima in Occidente che sugli scaffali del Paese del Sol levante. Trasformati da una maledizione in una graziosa e amabile declinazione delle creature del mito, non più sputafuoco, bensì sputabolle, Bub e Bob hanno la missione di salvare le loro amiche Peb e Pab rapite dal cattivo Baron Von Bubbla. In Bubble Bobble Sugar Dungeons un unico eroe, Bub, dopo uno strano incontro con il misterioso Don Dolcen, va alla scoperta di labirinti e castelli in uno scenario fiabesco di biscotti, caramelle, ciambelle, cioccolati e altri dolciumi, che costituiscono anche gli elementi fondamentali del gioco, adatto pure a chi sia completamente digiuno della serie. Se le dinamiche sono quelle ben note ai fan dei Bubble Bobble, ossia intrappolare i nemici in bolle per farle poi scoppiare liberando così la via, Sugar Dungeons introduce per la prima volta i dungeons, un concentrato di bolle, nemici, trappole insidiose (come le gelatine instabili e il caramello deformabile) e tesori, che cambiano in maniera procedurale. Tutte le volte che entri, non è mai lo stesso labirinto, così come muta la collocazione dei nemici. Bub ha inoltre una caratteristica inedita: si evolve, grazie ai dolci, ai frutti e agli scrigni da raccogliere, che lo rafforzano e migliorano le abilità del draghetto, alcune d’antan, ispirate all’acqua o al fuoco come nel primo Bubble Bobble, altre nuove di zecca. Potenziamenti che sono permanenti. Più si scende in profondità, più aumentano le difficoltà, ma anche le opportunità di collezionare rarità, da utilizzare o da scambiare. Se la faccenda si complica troppo, c’è l’opportunità di saltare livelli per atterrare direttamente più in fondo e vedere se lì Bub ha più margini d’azione. Nel caso in cui certi castelli si rivelino troppo enormi per il draghetto, gli conviene tornare ad affrontarli dopo essersi equipaggiato a dovere nei dungeons. Il progetto di rinnovamento è riuscito, in pieno spirito kawaii, dove tutto è grazioso e invitante. I dungeon, di solito bui e cupi, hanno invece vivaci tonalità dominate dalle gradazioni di rosa. Se l’intento è intercettare chi, magari per motivi anagrafici, non ha mai incrociato il simpatico draghetto, Taito non dimentica comunque la sua storia, includendo anche un porting della versione per Sega Saturn lanciata nel 1997 dell’arcade Bubble Bobble II (o Bubble Symphony), uscito nel 1994 per coin-op, primo sequel di Bubble Bobble, ricco di omaggi ad altri successi della casa di Shinjuku. Un’operazione analoga permetteva di giocare l’originale Bubble Bobble (1986) compreso in Bubble Bobble 4 Friends (2019), ma in una versione accessibile come bonus dal cabinato virtuale nella sezione Arcade of Memories, mentre Bubble Bobble II è un gioco autonomo, che si può cominciare in qualsiasi momento.
HOTEL INFINITY (Studio Chryr, per Psvr2 e Meta Quest)
Dopo il sorprendente rompicapo Manifold Gardens (2020), che attraverso prodigi architettonici riscriveva le leggi della fisica e dello spazio per tornare a infondere vita in una città di invenzione ispirata alle geometrie impossibili di M.C. Escher, l’artista William Chryr - talento multiforme, espresso anche attraverso immagini, cortometraggi animati, installazioni, spesso combinando palloncini per rappresentare plasticamente concetti scientifici - ha realizzato un nuovo videogame, Hotel Infinity, che sfida la percezione delle tre dimensioni, manipolando il rapporto tra noi e gli elementi di un edificio all’interno del quale, grazie all’utilizzo della realtà virtuale, ci muoviamo più o meno liberamente. Il che significa che, per raggiungere un determinato arredo, si deve camminare con i propri piedi nella direzione giusta. Il risultato è ancora una volta di grande effetto, frutto di una ricercata estetica minimalista e di un’indagine coinvolgente sul funzionamento degli inganni prospettici. Pensato per indossare il visore e percorrere un ambiente di due metri per due (ma ci sono comandi alternativi per chi non potesse adottare la modalità room-scale e preferisse stare in piedi o seduto), il puzzle sviluppato dallo Studio Chryr mette di fronte a situazioni assurde continue, per cui si può salire su un ascensore, azionarlo in salita, o in discesa, e trovarsi invece al punto di partenza come se nulla fosse successo. Pavimento e soffitto paiono intercambiabili, entrambi percorribili a dispetto della gravità. Lo straniamento è totale, eppure c’è anche qualcosa di familiare in questo elegante albergo a cinque stelle, dalla pregiata boiserie, modellato sui lussuosi grand-hotel dei primi del Novecento, oltreché guardando i prediletti disegni di Escher e confrontandosi con il paradosso dell’hotel di David Hilbert. Il celebre matematico tedesco autore dei Fondamenti della geometria (1899) e di altri influenti studi, se ne era servito per spiegare cosa sia l’infinito, immaginando un albergo appunto infinito in cui può sempre entrare un nuovo ospite, pur essendo tutte le stanze occupate: basta spostare chi alloggia nella stanza numero 1 nella numero 2, quest’ultimo nella numero 3 e via seguendo. La stanza numero 1 resta libera per il nuovo arrivato. Applicando regole di assegnazione delle stanze più complesse si dimostra che in realtà l’albergo infinito può accogliere in qualsiasi momento un infinito numero di ospiti, nonostante sia al completo. Esperimenti mentali che abbondano nell’opera della software house di Chicago inclusa dalla colonna sonora originale di Laryssa Okada, già compositrice delle musiche di Manifold Gardens, in un paesaggio dalle atmosfere rarefatte e sospese, interrotte dal susseguirsi di timbri inquietanti accanto a più serene sezioni cullate dai ritmi jazz dei ruggenti anni Venti. Non mancano riferimenti a strutture ricettive decisamente angoscianti, con citazioni da Stephen King, dal labirinto dell’Overlook Hotel di Shining alla stanza 1408 dell’omonimo racconto su un albergo infestato. Per restare al cinema l’immaginario degli sviluppatori si è nutrito anche delle suggestioni di film come Grand Budapest Hotel e Four Rooms, oltreché - ha aggiunto William Chryr - della location principale della terza stagione delle serie tv The Umbrella Academy. Nella pratica in Hotel Infinity ci sono leve da abbassare o da alzare, chiavistelli da aprire, pulsanti da schiacciare, manovelle da girare: gesti che si compiono agitando le mani nel vuoto. La normalità apparente è ripetutamente contraddetta. C’è un pianoforte, ma lo si suona per risolvere enigmi. C’è un cassetto, ma aprendolo ecco palesarsi l’incredibile che diventa tangibile: dentro c’è un altro cassetto posto in verticale e, tirando verso l’alto la maniglia, ecco comporsi una libreria a più piani, su uno dei quali è un ulteriore contenitore dotato di cassetto dove è la chiave cercata. C’è una valigetta che si estrae trasformando il contenuto in un’intera stanza in scala 1:1. L’anta di un armadio conduce in un altro locale. Capita che basti spostare il punto di vista e l’ambiente muti completamente. Spesso si ha come l’impressione di trovarsi in una gigantesca macchina scenografica, indipendentemente dalle misure contenute dello spazio fisico, che nella sfera virtuale si dilatano, mentre le strutture si infrangono, si compenetrano, si ribaltano, si reinventano, nulla è ciò che sembra, ma tutto si rivela concreto e palpabile. C’è un mistero da svelare in questo hotel delle meraviglie, ma si può comunque affermare, senza timore di spoiler, che il segreto di Hotel Infinity sta già nell’invito a guardare l’architettura con occhi diversi. Un esercizio di consapevolezza, che si compie senza necessità di testi o dialoghi, semplicemente interagendo con lo spazio.

THRASHER (Creature Label, per Pc, Pcvr, Meta Quest e Apple Vision Pro)
Un’esperienza visiva e musicale, resa ancora più immersiva dall’audio spaziale 3D, dove colpire o schivare sfere e linee sempre più numerose e veloci è il compito di un’anguilla aliena che a sua volta cresce, dalle dimensioni di un piccolo avannotto a quelle di un enorme, sinuoso nastro iridescente, capace di scattare in modo fulmineo verso gli obiettivi o di lanciarsi in picchiata o ancora di compiere eleganti evoluzioni coreografiche. A firmare Thrasher è lo studio Puddle di Providence nel Rhode Island, formato da Brian Gibson, co-autore del cult Thumper, un rhythm and game per la realtà virtuale, e Mike Mandel, che ha lavorato a titoli come Rock Band. Ritmi frenetici e avvolgenti, cascate di vivaci cromie iridescenti rendono il pluripremiato Thrasher un arcade fortemente coinvolgente, pur in assenza di una trama, pur nella semplice ripetitività delle azioni. Si resta inghiottiti nel flusso di un immaginario bizzarro, esteticamente raffinato, che riecheggia nei variegati accenti della colonna sonora, tra potenti riff di chitarra, arpeggi melodici e delicate sonorità oniriche, fino a evocare un senso di smarrimento nell’affacciarsi su sconfinati orizzonti cosmici. Del resto Gibson, formatosi come pittore in una scuola d’arte per passare quindi all’animazione, oltre a essere stato uno dei lead artist di Harmonix, la software house di Boston delle serie Guitar Hero e Rock Band, è un compositore, nonché il bassista del duo noise-rock dei Lighting bolt, attivo dal 1994 con qualche pausa, come quando Brian trascorse un anno a New York guadagnandosi da vivere dipingendo murales sotto la guida di Sol LeWitt. Influente gruppo della scena alternativa negli Usa, i Lighting Bolt di Gibson e del batterista Brian Chippendale sono diventati celebri per i loro concerti guerilla-style suonati in mezzo al pubblico, giù dal palco, e spesso in luoghi non convenzionali, dai vicoli ai parcheggi. Sperimentale è anche la tecnica adottata da Gibson, impostata sulla distorsione del suono più che sul groove. Il suo basso utilizza poi una - robustissima - corda da banjo (due quando imbraccia lo strumento a cinque corde) e non ha l’accordatura standard, ma quella tipica del violoncello, con registri dunque più acuti e simili alla chitarra. Una passione per la ricerca e l’innovazione trasposta nello stesso ambito videoludico. Uscito inizialmente per la realtà virtuale di Meta Quest e Apple Visione Pro, cui si sono ora aggiunte le versioni per Pc e Android Xr, Thrasher conduce in un susseguirsi di ambientazioni psichedeliche, fino al cospetto di un misterioso dio bambino. Sconfiggendo l’uno dopo l’altro i boss dei ventisette livelli del gioco, creature mostruose che sembrano uscite da un incubo surrealista, mentre l’orologio avanza implacabile, si acquisiscono potenziamenti che permettono di rallentare lo scorrere del tempo o di infliggere danni più devastanti. Alcuni ostacoli provocano all’opposto una perdita di abilità. Ovviamente sono da evitare, missione resa più ardua dal caotico infittirsi di presenze attorno alla sfuggente anguilla.

THIEF VR: LEGACY OF SHADOW (Vertigo, per Psvr2, Steam Vr e Meta Quest)
È un peccato che Sony abbia abbandonato un po’ a se stesso Psvr2, il caschetto per la realtà virtuale da collegare a Ps5. Dopo l’entusiasmo iniziale attorno a produzioni come Horizon Call of the Mountain, non si conoscono altri impegni di una certa rilevanza che coinvolgano direttamente la compagnia, nonostante sia proprio nell’orbita dei Playstation Studios che il dispositivo ha trovato la sua killer application, ossia la modalità vr di Gran Turismo 7. Se ne sta lì al centro del podio accanto a modalità simili introdotte in Resident Evil Village e Resident Evil 4, facilmente identificabili tra le migliori esperienze a misura del visore, sicuramente le più complete. Progetti così, pur con i pro e i contro della natura ibrida, risultano però piuttosto rari in una scena ancora abbastanza di nicchia come quella della realtà virtuale dove il grosso del lavoro continuano a farlo piccoli team specializzati, forse maggiormente interessati a esplorare le frontiere del medium. Sono essenzialmente i loro titoli che anche negli ultimi mesi stanno sostenendo Psvr2. Editori come l’imprescindibile Vertigo, che ha un intero catalogo dedicato alla realtà virtuale forte di bestseller quali gli sparatutto Arizona Sunshine o chicche tipo i Fisherman’s Tale. Recentemente si è occupata anche di un episodio in vr della serie Metro e adesso di qualcosa di simile sulla base di un’altra saga famosa, Thief. Thief è uno dei grandi cult dei videogame. Il suo nome è legato alla storia di software house leggendarie come Looking Glass e Ion Storm, gli inventori delle immersive sim alla cui dinamiche, guardando in particolare ai classici Thief: The Dark Project (1998) e Thief II: The Metal Age (2000), si sono ispirati gli sviluppatori del nuovo capitolo Thief VR: Legacy of Shadow, realizzato da Maze Theory e Vertigo con la collaborazione di Eidos-Montréal, la casa che ha raccolto il testimone della serie, firmandone il reboot Thief nel 2014. I fan saranno contenti non solo del ritorno di Garrett, ma del suo storico doppiatore, Stephen Russell (ascoltato poi nel ruolo di Corvo in Dishonored 2, a sua volta omaggio agli originali), qui in una veste più da mentore, perché la protagonista del videogame oggi è un’altra, Magpie: una giovane ladra che deve rubare alcuni misteriosi manufatti in modo da impedire i loschi piani del crudele barone che governa la città col pugno di ferro. L’ambientazione è il mix tra passato e strana tecnologia, medioevo ed età vittoria caro alla saga al pari dell’anima stealth, per cui bisogna evitare il più possibile il confronto diretto, sfruttando sotterfugi, le abilità e gli strumenti a disposizione per intrufolarsi in luoghi altamente sorvegliati in maniera furtiva. La migliore amica resta l’oscurità. Il tempo lo si trascorre nascondendosi e muovendosi nell’ombra, magari dopo aver soffiato (letteralmente) sulle candele e spento con le frecce ad acqua tutte le luci. Nel solco delle immersive sim, ciascuno può comunque scegliere strade diverse e diversi approcci per raggiungere i propri obiettivi. Il nucleo dell’esperienza appare compatto, come spesso accade nella realtà virtuale, ma ogni mappa-livello apre un ventaglio di possibilità.

AMANDA THE ADVENTURER 3 (DreadXP, per Pc)
Il terzo e ultimo capitolo della trilogia Amanda the Adventurer comincia proprio là dove si era interrotto Amanda the Adventurer 2, ossia nei recessi più segreti della Hemlin Entertainment, che ormai si è capito essere coinvolta negli eventi che stanno sconvolgendo la già tranquilla cittadina di Kensdale nell’Ohio. Un tuffo negli anni Novanta e un horror che nelle sue tre parti ha incarnato diverse sfumature del genere, fino ad arrivare adesso, con Amanda the Adventurer 3, non solo al bandolo dell’intricata matassa, ma ad avvolgere in una paura più sottile e insinuante dei jump scare utilizzati in prevalenza nel secondo capitolo, mentre il primo aveva pienamente raggiunto l’obiettivo di immergere in un’atmosfera sinistra e straniante, stimolando a volerne sapere di più. Uno degli espedienti narrativi comune alle tre avventure di MANGLEmow è la rottura della quarta parete in un racconto che è anche metaracconto. Il titolo della serie è infatti quello del fittizio cartoon con protagonista una bambina, Amanda, e una pecora antropomorfa, Wooly, a farle da spalla, che si può vedere nelle tv dentro il gioco. Il duo richiama Dora l’esploratrice, la bimba latino-americana che si interrogava su mille argomenti, con al fianco la scimmia Boots, provando non solo a intrattenere i più piccoli, ma a insegnare loro le basi della lingua spagnola. Molto meno rassicurante, Amanda è un tipino da trattare con la dovuta cautela per non incorrere nella sua ira capricciosa. Forse poi Wooly non è esattamente un campione di mitezza, come la sua specie e il carattere timido potrebbero suggerire. C’è comunque qualcosa di misterioso nelle puntate racchiuse nelle videocassette disseminate nei dintorni, dalle quali discende l’estetica rétro da horror analogico a basso budget del gioco, sull’onda di un fenomeno affermatosi soprattutto tramite le web series su Youtube. Proprio alla caccia di quelle pericolose vhs si dedica, fin dal primo Amanda the Adventurer, il nostro alter ego, Riley Park, giunto (o giunta) nella località del Midwest per entrare in possesso della casa lasciata dalla defunta zia Kate, che nella lettera all’erede forniva anche indicazioni per trovare una certa videocassetta in soffitta. Riley scopriva che le riprese concernevano la prima puntata in live action dello show Amanda the Adventurer, dove a interpretare Amanda era Rebecca, la figlia adottiva dell’autore, in seguito scomparso. Recuperando, di enigma in enigma, anche le altre vhs di quello che era poi diventato, nelle mani della Hemlin, un cartoon, le gesta di Amanda apparivano sempre più inquietanti e, nel contempo, i piccoli spettatori sparivano inghiottiti nel nulla. Dopo mille traversie e clamorose rivelazioni, che chiamavano in causa pure zia Kate, bibliotecaria nella Biblioteca Pubblica di Kensdale, ora in Amanda the Adventurer 3 tutti (o quasi) i nodi vengono al pettine, scavando nella labirintica sede della corporation, risolvendo rompicapo sempre più ingegnosi che richiedono di affinare lo spirito di osservazione, mentre si delinea una cospirazione vasta e pervasiva, che ha a che vedere con la vera finalità della videocassette e con il destino di Amanda/Rebecca.

HUNTER’S MOON: A SOVEREIGN SYNDICATE ADVENTURE (Zugalu Entertainment, per Pc)
Una misteriosa epidemia che dilaga nella fauna selvatica e quattro improbabili eroi decisi a vederci chiaro nel deckbuilder roguelite Hunter’s Moon: A Sovereign Syndicate Adventure, sviluppato dai canadesi Crimson Herring Studios quale prequel del gdr narrativo Sovereign Syndicate (2024). Lo sfondo è l’età vittoriana, estesa lungo i sessantaquattro anni del regno della regina Vittoria e dall’influsso duraturo sull’immaginario. In un’epoca di crescente industrializzazione, il cui volto spietato, con la piaga del lavoro minorile e in generale di condizioni insalubri sia nelle abitazioni dei quartieri più poveri, sia negli opifici improntati al massimo profitto, la letteratura si fece interprete di questi fenomeni, raccontati da Charles Dickens in romanzi che coinvolgevano anche a livello emotivo, trasfigurati nei libri gotici che magari dai castelli in rovina nelle campagne cominciavano a spostare l’azione nell’ambiente urbano, teatro di inquietanti vicende dai risvolti soprannaturali. Sul finire del secolo XIX nascono alcune delle opere più celebri del filone, da La donna in bianco (1860) di Wilkie Collins a Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde (1886) di R. L. Stevenson, dal Ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde a Dracula (1897) di Bram Stoker. L’era del trionfo del progresso veicolato dalla scienza e dalla tecnologia è anche la culla naturale dello steampunk, il genere improntato a una realtà alternativa retrofuturistica dove sono rimaste in auge le macchine ottocentesche alimentate a vapore. È il contesto di Sovereign Syndicate, che adombrava l’esistenza di una setta segreta a Londra, mentre i tre protagonisti, abitanti della zona portuale, si confrontavano con la sparizione delle persone più vulnerabili. Fulcro delle dinamiche gli arcani maggiori e minori dei tarocchi, ad aggiungere un tocco ancora più esoterico alle atmosfere già intrise di occulto del videogame. Ritroviamo i tarocchi in Hunter’s Moon, i cui eventi si svolgono qualche anno prima, con gli animali colpiti da una strana malattia, che genera mostruose commistioni con gli esseri umani. Per scoprire la causa del morbo e la sua cura quattro agenti del Syndicate - una cacciatrice, un bruto energumeno, un soldato esperto di armi, un’alchimista intenditrice di pozioni e di esplosivi - iniziano a indagare. Ciascuno è dotato di un’abilità peculiare e di un mazzo di carte personalizzabile, cui si aggiungono le forze di uno o più alleati, come il cane per la cacciatrice. Ogni partita richiede di completare tre missioni prima dello scontro con il boss finale, facendo tesoro delle monete, delle risorse e delle reliquie trovate lungo il cammino, nonché di carte per potenziare il proprio personaggio. Per procedere non si ha di fronte la classica scelta di un bivio, ma si estrae una carta dal mazzo. Se mantenere elevato il vigore fisico è fondamentale per sopravvivere agli scontri, altrettanto importante è il livello di salute mentale, più fragile e precario. Se si azzera uno dei due parametri, si muore. Che si trionfi o si preferisca battere per il momento in ritirata, si riparte per la nuova missione con un bagaglio di ricompense, da utilizzare eventualmente per migliorie e riparazioni al dirigibile con il quale gli agenti sorvolano la Gran Bretagna e la sua capitale sulle tracce di abomini e per soccorrere la popolazione inerme, nelle notti d’autunno illuminate dalla Luna del Cacciatore, un fenomeno astronomico circondato dall’aura inquietante di racconti del folclore e di tradizioni popolari.

FORESTRIKE (Devolver Digital, per Pc e Switch)
Un omaggio alle arti marziali e al cinema dei wuxia, come il classico A Touch of Zen di King Hu, senza dimenticare la monumentale saga Once Upon a Time in China di Tsui Hark per arrivare alle scene d’azione dei film di Jackie Chan, particolarmente illuminanti di un modo di intendere il combattimento, facendo leva su qualsiasi oggetto si trovi a disposizione nell’ambiente. È la filosofia abbracciata anche da Forestrike, sviluppato da Thomas Olsson e da Skeleton Crew Studio, team internazionale con sede a Kyoto, in Giappone. L’arte marziale protagonista del videogame è però il cinese kung-fu, da sperimentare nei diversi stili praticati dai maestri che affiancano il giocatore. Nei panni di Yu, appartenente all’Ordine della Preveggenza, incaricato di scortare e proteggere l’imperatore, si dovrà fronteggiare la minaccia di un influente, quanto malintenzionato ammiraglio e dei suoi seguaci. Disegnato in 2D, con una minimalista pixel art che riesce a essere efficace ed espressiva, Forestrike è stato definito dai suoi autori più un action puzzle game che non un picchiaduro. E in effetti ogni scontro, del tipo uno contro tutti, si manifesta come un ingegnoso rompicapo, del quale si può fortunatamente impostare in anticipo la soluzione, perché i nemici hanno un comportamento specifico, in relazione al quale adottare precise mosse e accorgimenti, sfruttando pure come arma ciò che si trova nei paraggi. La capacità di Yu di schivare e bloccare un attacco è limitata, per cui si devono inventare le combinazioni che permettono di ottimizzare la resa, creando reazioni a catena per sbaragliare con un unico colpo una fila di avversari. Tra una partita e l’altra, le lezioni con i maestri, ciascuno specialista di una scuola, aggiungono al personaggio esperienza e abilità. Si cresce anche dialogando con i saggi e ci si ritempra dalle fatiche nelle locande. Se si muore, si ricomincia daccapo, mantenendo però quanto appreso e aiutando così la scalata di Yu al rango di maestro, in un titolo che ha molto a che vedere anche con i sogni e le aspirazioni coltivate in segreto. L’aspetto roguelite, in scenari sempre diversi, obbliga a puntare sull’improvvisazione, in un continuo sforzo di adattamento alle condizioni riscontrate sul campo. In un crescendo di difficoltà e di spettacolari azioni coreografiche l’obiettivo è arrivare a vincere senza dover ricorrere alla preveggenza, dunque a quella sorta di sessioni di prova che, pur non garantendo la vittoria, le preparano il terreno simulando la battaglia reale. Tra le note di merito di Forestrike anche gli sfondi che inanellano sequenze dalle più svariate ispirazioni.

UMAMI (Mimmox e Nexting, per Pc)
Ci sono anche torte natalizie nel menu servito da Umami, titolo d’esordio della software house indie Mimmox. La parola giapponese umami è il quinto gusto, che non è né dolce, né salato, né amaro, né acido, ma rotondo e avvolgente, identificato per la prima volta nel glutammato di sodio responsabile della squisitezza del brodo di alghe. Puzzle game 3D a base di cibo, Umami appartiene al genere cosy, ossia quei giochi con cui divertirsi con tranquillità, al proprio ritmo, senza corse contro il tempo, senza nemici da combattere. All’esperienza rilassante concorre la musica ambient in sottofondo. Tra le specialità, una torta ornata di coniglietti per le festività pasquali, un dolce di mele e cannella per Halloween ispirato ai pipistrelli, poi gli onigiri, le polpette di riso dalla caratteristica forma triangolare; i pancake ricoperti di sciroppo; i burger imbottiti a strati di carne, formaggio e verdure; torte monumentali come sculture e anche i bento giapponesi, i contenitori per il pranzo da organizzare in ogni porzione di spazio. Leccornie che vanno ricostruite combinando gli elementi in legno che funzionano come le tessere di un puzzle, in questo caso tridimensionali. I pezzi, vivacemente colorati, di varie fogge e dimensioni, all’inizio di ciascuno dei quindici diorami artigianali dipinti a mano sono sparsi sul tavolo, pronti per essere recuperati e posizionati nella giusta collocazione, eventualmente ruotati, con il tocco finale di simpatiche decorazioni, il dono di una carta collezionabile e il coronamento di un animaletto chef a tema. Il risultato è una gioia per gli occhi. Non si tratta infatti di eseguire una ricetta, ma di comporre vere opere d’arte, dove il palato può solo immaginare la bontà del risultato, mentre il godimento estetico è assicurato dall’armonia di forme e colori.

SKOPJE ’83 (PM Studios, per Pc)
Una città realmente esistente e una data spartiacque, ma riunite in una trasfigurazione totale, come se nel disegno, elaborato come tavole a fumetti, si rivelasse la vera entità di mostri disumani e l’ambiente urbano si deformasse di fronte a un male distruttivo, forse per cercare di contenere l’inarrestabile. Il 1983 è associato a quello che da alcuni viene ricordato come il momento in cui, durante la guerra fredda, i due opposti schieramenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica furono vicini come non mai - dopo la crisi missilistica della Baia dei Porci nel 1961 - al ricorso agli ordigni nucleari. Un’escalation che dal falso allarme in settembre, correttamente interpretato come tale dal tenente colonnello Stanislav Petrov scongiurando così l’innescarsi di una rappresaglia atomica, sarebbe aumentata ulteriormente in novembre, durante l’esercitazione della Nato, chiamata in codice Able Archer 83. Tensioni che si respirano in Skopje ’83, dove si è ormai verificata un’apocalisse e ai superstiti tocca cercare di sopravvivere. Sparatutto in prima persona con elementi roguelike, permeato dal senso d’urgenza di un survival che concede appena sette giorni di tempo per tentare di invertire la rotta prima che le autorità con una bomba atomica pongano fine a tutto per evitare il propagarsi del morbo all’esterno, il videogame si svolge appunto a Skopje. Qui ha sede la stessa software house indie Dark-1 che ha sviluppato Skopje ’83 ricreando liberamente la capitale della Macedonia del Nord nella sua architettura modernista e brutalista, testimonianza del grande sforzo costruttivo internazionale messo in atto sulle macerie del terremoto del 1963. Il sisma fu devastante, provocò fin nelle generazioni successive un trauma collettivo, che nel videogame si materializza negli abomini mutanti dilaganti nella città segnata dagli iconici edifici progettati da Kenzo Tange e coperta da una strana cupola. Il protagonista deve indebolirla, localizzando e disattivando le torri sparse nei dintorni. Oltre a difendersi tramite un arsenale che diventa man mano sempre più potente e vario, il Pioniere, con l’appoggio di una voce a guidarlo via radio, si sposta a bordo del Dom, un autobus modificato dalla funzione di rifugio sicuro, dove ritemprarsi, forgiare armi e utensili, nonché stoccare ciò che si riesce a recuperare di utile nelle spedizioni per le vie della capitale. Quando si muore, si rinasce mantenendo quanto acquisito, ma nel frattempo la città è cambiata, come fosse un organismo vivente in perenne evoluzione, vasto e ostile, da affrontare eventualmente in co-op, alleandosi con un massimo di altri tre giocatori, per suddividersi i compiti, condividere risorse e sferrare attacchi coordinati, a vantaggio sia della più frenetica azione, sia della pianificazione strategica in un titolo ad alta tensione, dalla decisa impronta visiva, che in tanti dettagli racconta questa Skopje alternativa prima dell’evento che l’ha sconvolta: scampoli di quotidianità forse perduti per sempre. Il multiplayer consente di approfondire aspetti presenti soltanto in questa modalità, ottimizzata pure sul fronte dei combattimenti, in un crescendo di sfide.

TOTAL WAR: WARHAMMER III – TIDES OF TORMENT (Sega, per Pc, Mac e Linux)
È un periodo di grandi ricorrenze in cui da varie parti si festeggiano quarti di secolo, perché l’ingresso nel terzo millennio ha rappresentato uno spartiacque anche per il digital entertainment, che in quegli anni sperimentava un balzo in avanti significativo, tanto sul piano dell’evoluzione del mercato, quanto a livello tecnologico. Nacque allora pure Total War, una serie che ha rivoluzionato la scena dei giochi tattico-strategici attraverso la sua accurata simulazione in 3D delle battaglie campali del passato, dall’antica Roma a Napoleone. Per il venticinquennale è giunto un annuncio molto atteso dai fan: il ritorno al medioevo. Creative Assembly è infatti al lavoro su Total War: Medieval III. Ma non si tratta dell’unico progetto in cantiere. Qualcosa di grosso verrà svelato l’11 dicembre dal palco di The Game Awards, mentre proseguono in parallelo gli impegni sul fronte di Total War: Warhammer, l’imponente saga fantasy che, una decina d’anni fa, ha iniziato ad affiancare gli episodi storici. Oggi i tre capitoli - Total War: Warhammer (2016), Total War: Warhammer II (2017) e Total War: Warhammer III (2022) - insieme ai rispettivi contenuti scaricabili, che aggiungono fazioni e comandanti ispirati al celebre gioco da tavolo con le miniature, forniscono lo sfondo comune per una gigantesca campagna dinamica. Chiamata Imperi immortali, nell’estate del 2026 riceverà un importante aggiornamento, End of Times, che modificherà la mappa in toni apocalittici, in concomitanza con l’ingresso nel cast di Nagash, tra i personaggi più iconici, potenti e malvagi di Warhammer Fantasy, il dio dell’oscurità e signore supremo dei non morti. L’introduzione di nuovi Lord leggendari accompagnati dalle relative fazioni è una delle costanti dei Total War: Warhammer, che hanno un po’ ripreso l’idea dei set di miniature applicandola alla formula moderna dei dlc, con Total War: Warhammer III in grado di spingersi a una traduzione anche visiva ancora più nei minimi dettagli dell’universo di Warhammer. È appena stato pubblicato il pacchetto Tides of Torment: comprende tre campioni e i loro schieramenti che offrono ulteriori prospettive, ludiche e narrative, sul conflitto su larga scala al centro del videogame. Al momento il preferito dal pubblico sembra essere Sayl il Senzafede, stregone a capo dei Dolgan, una tribù Norsca. Basa le sue dinamiche su arcani rituali e sull’arte dell’inganno, seminando menzogne che influenzano anche gli aspetti diplomatici delle partite di Total War: Warhammer III. A rimpinguare le forze del caos arriva poi Dechala la Negata, un mostro con sei braccia e il corpo di serpente arruolato tra le fila di Slaanesh, a sua volta legata a unità e a meccaniche caratteristiche, come la decadenza, da sfruttare a proprio vantaggio durante missioni che prendono avvio nel Catai, l’antica Cina di Warhammer. Per l’ordine debutta invece Aislinn il Signore del Mare, spietato principe degli Alti elfi e comandante della Pattuglia marittima con cui guida gli assalti costieri.

WARHAMMER 40,000: DARKTIDE – HIVE SCUM (Fatshark, per Pc, Ps5 e Xbox Series)
Anche Fatshark si trova nel pieno dei festeggiamenti per un importante anniversario: il decennale dei Tide, ormai un’intera serie, inaugurata nel 2015 con il fantasy Warhammer: End Times – Vermintide, che ha aperto la strada a un moderno filone co-op, tra hack and slash e rpg. Quel successo travolgente, oltre a percorrere il cammino dell’immancabile sequel ufficiale, Warhammer: Vermintide 2 del 2018 con il quale condivide oggi mappe reimmaginate come la classica Return to the Reik aggiunta di recente, ha offerto l’opportunità allo studio svedese Fatshark, che non solo sviluppa in proprio ma pubblica da sé i suoi progetti, di evolvere ulteriormente il discorso spingendosi fin nella fantascienza di Warhammer 40,000. Il terzo Tide, cioè Warhammer 40,000: Darktide, uscito nel 2022, rappresenta non tanto l’erede in linea diretta, quanto piuttosto un figlio spirituale dei Vermintide, che restano popolarissimi online e gli si affiancano ancora senza problemi. Al di là della formula di gioco, che vanta a prima vista molti tratti in comune insieme però a parecchie specificità man mano che se ne approfondiscono le sfaccettature, considerando che sono videogame in cui si trascorrono tranquillamente centinaia di ore, la grossa differenza la fa l’immaginario, un elemento che distingue subito i titoli e che a Fatshark riesce di tradurre in ogni occasione benissimo. Anche l’occhio vuole la sua parte e aiuta a immergersi al meglio in un mondo vivido come quello di Warhammer, perché le missioni dei Tide non sono semplici battaglie, ma racconti interattivi in multiplayer che, sostenuti da una regia virtuale che inserisce di volta in volta variabili nelle spedizioni affrontabili in quattro, realizzano un efficace modello dinamico di narrazione al quale contribuiscono il respiro degli scenari, il ritmo dell’azione e i dialoghi contestualizzati tra i personaggi. Così pure il nuovo dlc di Darktide, che dopo l’Arbites porta al debutto un’altra classe nel cast, l’Hive Scum, la Feccia dell’alveare, presenta due anime: una più legata allo stile di gioco e una al suo ruolo nella lore della community. Da un lato quindi un personaggio high-risk, high-reward che ruota attorno al gameplay frenetico delle doppie armi, due pugnali o due pistole, premiando l’aggressività e le skill, dall’altro l’antieroe punk perfetto per fare un ingresso trionfale nella Suicide Squad protagonista delle sortite del videogame.

HELLO SUNSHINE (Megabit Publishing, per Pc)
Si guarda intanto già al 2026, nell’incedere incessante di un robot gigantesco con il quale si crea una relazione vitale per la sopravvivenza della protagonista di Hello Sunshine. in arrivo prossimamente su Pc. Gli autori, i norvegesi Red Thread Games, studio indie di titoli dalla forte impronta narrativa come Dreamfall Chapters, Draugen e Dustborn, si sono allontanati dalla loro Oslo per immergersi nelle distese aride e sconfinate di un deserto modellato sui paesaggi di dune dell’Arabia Saudita, del Sud Africa, della Namibia. Hello Sunshine è un survival post-apocalittico, vena esplorata, in un contesto molto diverso, ossia una versione alternativa degli Stati Uniti, nell’avventura d’azione Dustborn, mentre il mystery Draugen calava tra la natura imponente dei fiordi, dunque agli antipodi, dal punto di vista climatico e delle risorse disponibili, rispetto al nuovo videogame. Il team è intanto al lavoro anche su titoli che riportano alle latitudini più settentrionali: il gdr avventuroso - e racconto di formazione - Prosjekt M e ancora un survival, Svalbard, dove, a farsi forza l’un l’altro, tra i rigori di una sferzante era glaciale, sono un’adolescente e il suo gatto. Anche Hello Sunshine sviluppa il tema di come superare circostanze estremamente ostili, grazie alla solidarietà che viene fornita disinteressatamente. La protagonista si avvantaggia dell’ombra proiettata dalla colossale mole del robot, vicino al quale cerca pure riparo dal freddo notturno, in un ambiente soggetto a eccezionali escursioni termiche. Di giorno il sole picchia in modo micidiale e un indicatore mostra come salga rapidamente la temperatura corporea della giovane, che deve dunque al più presto trovare un rifugio. In quella che metaforicamente può essere visto come un rapporto tra genitori e figli, non ci si può però limitare a seguire i passi del robot. Occorre infatti reperire risorse, in primis per dissetarsi, e oggetti utili per ricavarne armi, da aggiungere all’arco con frecce esplosive con cui colpire i tanti nemici che cercano di avventarsi sulla ragazza. Perché il mondo si sia tramutato in una landa così inospitale è un enigma da comporre decifrando graffiti e altre tracce disseminate qua e là, chiacchierando con altri personaggi magari incontrati nei pressi delle stazioni di rifornimento dove il robot si ricarica di energia e la giovane approfitta della pausa per accamparsi, cucinare, costruire rudimentali attrezzi, assemblare piccoli robot e riposarsi, facendo attenzione ad eventuali malintenzionati in agguato. Se inizialmente la creatura meccanica quasi ignora la casuale compagna di viaggio, presto la conoscenza si approfondisce e capiscono di avere bisogno reciprocamente. La ragazza compie riparazioni e sostituisce pezzi del robot, senza il quale d’altra parte non avrebbe scampo. Anche stavolta la casa norvegese riesce a coinvolgere sin da subito con la qualità visiva del videogame, cui aggiunge l’atmosfera carica di interrogativi su cosa sia accaduto e sulle responsabilità della mega corporation Sunshine Solutions Global, di cui il nostro alter ego è l’ultima dipendente superstite, dopo un distruttivo evento catastrofico. Si può giocare da soli o in co-op con un collega, per ottenere ulteriori punti di vista sulla storia.
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