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Stalker un anno dopo, con Lumines il rompicapo diventa musica, il folk irlandese di Raw Fury e l’Orfeo di 11 bit, l’estate di Milano e lo skate

Stalker un anno dopo, con Lumines il rompicapo diventa musica, il folk irlandese di Raw Fury e l’Orfeo di 11 bit, l’estate di Milano e lo skate

di Riccardo Anselmi

21 Dicembre 2025, 12:12

LUMINES ARISE (Enhance, per Pc, Ps5 e Psvr2)

Era il 27 gennaio 1988 quando il programmatore sovietico Aleksej Pazitnov dava vita, con il rompicapo Tetris, a uno dei giochi più longevi, coinvolgenti e fertili, generatore di innumerevoli declinazioni. Nel 2021 era toccato alla rivoluzionaria rivisitazione Tetris Effect: Connected, i cui autori - lo studio Enhance, anche editore - hanno adesso rivolto le loro attenzioni a un altro classico, Lumines, ideato da Tetsuya Mizuguchi e sviluppato nel 2004 su Psp da Q Entertainment, la casa cofondata dal game designer e poi lasciata nel 2013 per aprire l’anno dopo la software house Enhance, mantenendo al centro quella ricerca sulla percezione sinestetica diventata un marchio di fabbrica del genio creativo originario di Hokkaido. Mizuguchi si era già interessato al tema quando, a capo della United Game Artist di Sega, aveva prodotto lo sparatutto musicale Rez (2001), espanso nel 2015 da Enhance nel cult Rez Infinite. Per Lumines Arise, ultimo nato di una serie i cui titoli principali erano fermi al 2012 con Lumines: Electronic Symphony, mentre il più recente era stato il rifacimento Lumines Remastered, del 2018, Mizuguchi ha ritrovato al suo fianco, come già in Tetris Effect: Connect, i talenti di Monstars Inc., l’effervescente casa di Yokohama formata da artisti, musicisti, informatici. La collaborazione con menti affini, vocate alla sperimentazione, ha avuto esiti anche in un’altra reinterpretazione dei puzzle, Humanity (2023), in chiave platform con elementi di strategia in tempo reale, firmato insieme all’artista eclettico Yugo Nakamura e alla sua tha LTD. Lumines Arise, come il suo capostipite, affonda in apparenza le radici in Tetris, ma con diversi cambiamenti sostanziali. I blocchi che cadono dall’alto verso il basso sono quadrati 2x2 di due colori e, per eliminarli in modo da tener libero lo schermo, vanno combinati in un quadrato sempre più grande di un unico colore (o di un unico disegno), accentuando la reciproca sinergia tra sonoro, grafica e gameplay per un’esperienza improntata alla massima immersività, sia che si giochi con il visore Psvr2 manipolando la realtà virtuale, sia che si preferisca rimanere nelle classiche modalità con computer o console, da soli o con un amico, in locale o in multiplayer online. Quello che si compie assomiglia a un viaggio, dall’oscurità alla luce, superando livelli dove i rompicapo si inseriscono magicamente in un susseguirsi di varie ambientazioni, per le strade di Tokyo come nelle profondità dell’oceano, lungo i binari di una ferrovia che taglia in due il deserto come tra la lussureggiante vegetazione della giungla. Diretto da Takashi Ishihara, Lumines Arise rielabora la lezione di Tetris Effect: Connect, che dal canto suo si ispirava fortemente ai Lumines. Corsi e ricorsi a segnare un’evoluzione che, in sintonia con il concetto multisensoriale di sinestesia, punta a emozionare, attraverso gli stimoli indotti dalla musica, dalle forme e dai colori. Una finalità non scontata, in un titolo che può arrivare a gradi notevoli di difficoltà, con la necessità di pensare velocemente e di apprendere bene i trucchi per accedere a nuove vie, ottenere punti e scalare la classifica. Eppure tutti gli ingranaggi del meccanismo sembrano armoniosamente congegnati per funzionare insieme, esercitando quel potere attrattivo tipico dei rompicapo, quando sanno trascinare e tenere avvinti a sé. Le Missioni di allenamento aiutano a impratichirsi per riuscire a padroneggiare le caratteristiche fondamentali del gioco, dove, contrariamente a Tetris, i blocchi abbinati per colore scompaiono non istantaneamente, ma solo al passaggio della Timeline, una linea verticale che si muove al ritmo della colonna sonora, da sinistra a destra, generando tanti più punti quanto più è esteso il quadrato da assemblare poco prima dello scorrere della barra. Un nuovo sistema, il Burst, consente di trasformare i quadrati eliminati in energia, da sfruttare in maniera difensiva, per liberare il proprio campo di gioco ripulendolo così da poter riorganizzare le proprie mosse, o offensiva, per ingombrare di blocchi lo schermo dell’avversario, valutando quando attivare questa mossa speciale per guadagnare il maggior vantaggio. Lumines Arise rivela insomma un’anima sfaccettata, dalle possibilità pressoché inesauribili, con molteplici variabili da considerare, tattiche da adottare, azioni da pianificare, plasmando con la musica lo spazio e viceversa.


STALKER 2: HEART OF CHORNOBYL (Gsc, per Pc, Ps5 e Xbox Series)

S.T.A.L.K.E.R. 2: Heart of Chornobyl è uno di quei videogame destinati a lasciare il segno. Per diverse ragioni. A un certo punto, ha persino corso il rischio di non vedere la luce. La realizzazione del titolo si è dimostrata infatti a dir poco lunga e travagliata. Un po’ perché si tratta di un sequel arrivato parecchi anni dopo il precedente episodio, S.T.A.L.K.E.R.: Call of Pripyat (2009), quest’ultimo rimasterizzato adesso insieme ai primi due S.T.A.L.K.E.R., cioè S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl (2007) e S.T.A.L.K.E.R.: Clear Sky (2008), nella raccolta S.T.A.L.K.E.R.: Legends of the Zone Trilogy, che narra gli antefatti di S.T.A.L.K.E.R. 2. Altri tempi, durante i quali lo studio ucraino GSC Game World seppe imporsi sulla scena internazionale rivoluzionando proprio con gli S.T.A.L.K.E.R. non uno qualsiasi, ma il genere allora più popolare, quello dei first-person shooter, Stavano cambiando le coordinate del digital entertainment, cose che capitano quando si incastrano perfettamente il talento, la fame di gloria e le nuove tecnologie. Forse non a caso, nello stesso periodo, in Polonia, nacque un altro cult, The Witcher di Cd Projekt, che avrebbe impattato in modo simile il panorama dei giochi di ruolo, spostando ancora più in là l’asse dei videogame dall’America verso l’Europa. Parallelismi che si riaffacciano anche nelle produzioni più recenti dei rispettivi team, giunti oggi a misurarsi sul piano dei kolossal: molto più grandi, ambiziosi e complessi da gestire. Non una singola hit, ma le dinamiche di un’intera industria. Da Cyberpunk 2077 di Cd Projekt al salto che S.T.A.L.K.E.R. 2 ha rappresentato per Gsc, la quale ha dovuto scontrarsi con l’ulteriore, terribile incognita della guerra, deflagrata nel cuore dell’Ucraina durante le fasi avanzate dello sviluppo, sconvolgendo le vite degli autori e di conseguenza l’avvicinamento all’atteso ritorno della serie, posticipato rispetto all’uscita prevista in un momento nel 2022. Ce l’ha fatta alla fine nel 2024, un mezzo miracolo, descritto nel documentario War Game: The Making of S.T.A.L.K.E.R. 2 di Andrew Stephan, già regista di Power On: The Story of Xbox, ossia la piattaforma di Microsoft che ha da subito creduto nel progetto, dove S.T.A.L.K.E.R. 2 ha debuttato l’anno scorso accanto al Pc. Ora tocca a Playstation accogliere il manifesto videoludico di Gsc, che non ha perso smalto, anzi ha guadagnato tantissimo nel corso dei mesi. Lo sviluppo del titolo non si è d’altronde mai fermato, con lo studio che ha proseguito a lavorare instancabilmente per completare e ampliare l’idea di S.T.A.L.K.E.R. 2 che aveva in testa nonostante le difficoltà. La riedizione per Ps5, ottimizzata per Ps5 Pro, porta in dote le numerose patch uscite nel frattempo su Pc e Xbox Series e coincide con la versione 1.7, quasi un rilancio totale, in cui si inserisce anche l’ennesimo grosso aggiornamento, Stories Untold, pubblicato questa settimana che aggiunge ulteriori missioni e personaggi, sfumature e ore di gioco. Proprio come Cyberpunk 2077, non pago dello status di diamante grezzo, è sulla distanza che S.T.A.L.K.E.R. 2 si sta rimodellando e rivelando una continua scoperta, un update dietro l’altro, e vale sempre la pena fare ancora un giro, rituffarsi nella sua fantastica epopea post-apocalittica, orgogliosamente ucraina, nella quale si sovrappongono più dimensioni, reale e virtuale vengono a sfiorarsi. A cominciare dalla zona che è una ricostruzione straordinariamente efficace dell’area del disastro nucleare di Chornobyl, qui virato nella science fiction di misteriose anomalie, a cui vari gruppi danno la caccia, addentrandosi tra i ruderi di un territorio disabitato e inospitale brulicante di pericoli di ogni tipo. Tutto in soggettiva, un po’ first-person shooter, un po’ gioco di ruolo, S.T.A.L.K.E.R. 2 costituisce un indimenticabile viaggio on the road nel cuore devastato dell’Ucraina. Narrativamente sostanzioso, a risaltare sono però anche e specialmente le dinamiche emergenti di un open world dall’atmosfera incredibilmente tesa e vivida a cui Gsc ha dedicato importanti rifiniture cammin facendo, ripresentato adesso nella migliore veste possibile.


THE SÉANCE OF BLAKE MANOR (Raw Fury, per Pc e Linux)

L’età vittoriana (1837-1901) fu teatro di una dilagante passione per l’occulto e il paranormale, tanto che nei vari strati sociali, a cominciare dalle élite, prese a diffondersi la pratica delle sedute spiritiche (séance), spesso da svolgersi in appositi ambienti adattati per questo tipo di attività. Una voga riverberatasi in letteratura. Del resto il Ghost Club, sorto a Londra nel 1862 per indagare su fantasmi e altri eventi apparentemente inspiegabili, annoverava tra i suoi membri scrittori come Charles Dickens, grande interprete dei fermenti, anche sommersi, che agitavano il periodo, e Sir Arthur Conan Doyle, il papà di Sherlock Holmes, campione di un approccio scientifico e razionale all’analisi dei fenomeni più disparati. Di nervi saldi e mente acuta avrà bisogno anche il detective privato Declan Ward, protagonista di The Séance of Blake Manor, che segna il ritorno in grande stile sulla scena dello studio indie Spooly Doorway, già celebrato autore della serie The Darkside Detective. Orgogliosamente irlandese, per The Séance of Blake Manor il team ha trovato la principale ispirazione proprio nella storia e nel folclore dell’isola di smeraldo, perché nell’un tempo fastosa residenza di una famiglia coloniale di proprietari terrieri trasformata in hotel, sfondo al giallo sulla misteriosa sparizione di un’ospite, Evelyn Deane, sono vive le ferite impresse nei secoli passati, testimone di ciò che la conquista cromwelliana dell’Irlanda da parte dei britannici abbia significato per il Connaught. La provincia più occidentale, che era riuscita, prima dell’arrivo del generale puritano, a difendersi dalle requisizioni forzate, dovette capitolare. Nell’architettura di Blake Manor (il cognome Blake, così come D’Arcy, Skerritt e altri, è indicativo del posto) sono liberamente trasfigurati edifici esistenti, come Westport House, Kylemore Abbey e Woodlawn House, ma è tutto il paesaggio attorno a rappresentare un affettuoso omaggio - disegnato a mano come in un libro elegantemente illustrato - alla natura selvaggia e incantevole del Connemara, i cui scorci ornano le pareti dell’albergo, quasi in un compenetrarsi tempestoso tra stati d’animo e gli echi delle onde dell’Oceano Atlantico, il frastagliarsi delle coste rocciose, la solitudine delle montagne brulle sferzate dal vento, le distese di campi disseminati di pietre, le aspre brughiere ricoperte di erica e di torba scura. Siamo nel 1897 a due giorni dall’antica festa di Samhain che rimanda ai riti pagani della notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre, dai quali sarebbe derivata Halloween. Ward ha ben poche ore per venire a capo del mistero, tra i corridoi insolitamente affollati di gente giunta da un po’ tutto il mondo per partecipare a una seduta spiritica proprio in coincidenza con il momento in cui tradizione vuole si annulli la separazione tra i regni dei vivi e dei morti. Le motivazioni che hanno spinto lì quelle persone sono le più svariate e sta al detective decifrarle, facendo attenzione al fatto che le lancette dell’orologio avanzano inesorabilmente, non si può cincischiare, ma occorre rivolgere le domande giuste al momento giusto. Non ci sono rompicapo messi lì apposta per il gusto di risolvere enigmi, come può succedere senza problemi nelle avventure classiche. In The Séance of Blake Manor ci si immedesima appieno nell’attività investigativa, quasi fossimo in una simulazione, in un crescendo di tensione in cui si intrecciano destini individuali e collettivi. All’avvincente affresco, ben calato nel contesto del periodo, contribuiscono i sospettati, tra staff dell’hotel e clienti piuttosto bizzarri. Il diario aiuta a tener traccia delle ipotesi via via formulate, districando il groviglio di un labirinto complicato, anche perché si riesce a interloquire con questo o quel personaggio in determinati luoghi e circostanze, magari approfittando del clima più rilassato a pranzo o a cena, per cui va strategicamente impostato un piano. Si osserva, si ascolta, all’occorrenza di nascosto, cercando di trarre le conclusioni prima che si compia qualcosa che dovremmo scongiurare e a cui sono legate le sorti di Evelyn Deane. In un quadro condizionato da tante variabili, l’opportunità di ripercorrere il racconto, compiendo scelte differenti, rende ancora più intrigante un titolo memorabile.  


DEATH HOWL (11 bit studios, per Pc e Mac)

Uno dei miti più potenti e simbolici, il viaggio dell’eroe nel mondo ultraterreno, adattato alle dinamiche di un deckbuilder soulslike che reinterpreta il dramma di Orfeo, pronto a sfidare gli dei degli Inferi con la forza della musica per cercare di riportare in vita l’amata Euridice, finendo sconfitto perché non si possono sovvertire le leggi definitive dell’Ade. Dal percorso verso il buio, lasciandosi alla spalle ogni certezza, per entrare in un mondo completamente sconosciuto, superando prove e paure, si riemerge comunque trasformati. In Death Owl dello studio danese The Outer Zone, uscito adesso su Pc, con le versioni per console annunciate in arrivo il 19 febbraio 2026, è una madre disperata, Ro, che non può accettare la morte del figlio Olvi, ad armarsi di coraggio per scendere nell’oltretomba, compiendo un pellegrinaggio nel dolore, inoltrandosi in scenari cupi, in disfacimento, paludosi, popolati di spettri e irti di pericoli. È sempre e costantemente sola, in una traduzione anche visiva del senso di opprimente isolamento sperimentato dall’inconsolabile Ro, cacciatrice in una piccola tribù. Attorno a lei gli sviluppatori di Copenaghen hanno costruito un’ambientazione ispirata alle leggende norrene e all’età della pietra nordica. I paesaggi che deve attraversare sono freddi e nebbiosi come l’Helheim, destinazione delle anime di chi non è caduto in battaglia, ma è perito in altre circostanze. Il tentativo di Ro di sovvertire, con la sua azione, l’ordine cosmico rimanda a un topos delle saghe, dove spesso l’operazione in sé fallisce, però la magnanimità dell’eroe resta intatta per il valore dimostrato nel tentare di opporsi a qualcosa che si sa essere immutabile. La donna interagisce con gli spiriti tramite totem sciamanici e pratiche magiche, in una rievocazione costellata di riferimenti al folclore scandinavo, dal quale sono tratti anche i nemici dalla testa di corvo, gli spiriti della natura e gli stessi boschi sacri dove Ro riposa e si rigenera. Arcaicizzante, improntato a un’estetica primitivista, lo stile riecheggia, in tavole in pixel art dall’effetto di xilografie a tinte piatte, la desolazione interiore ed esteriore della toccante odissea di Ro. Nato come un gioco di carte con combattimenti tattici a turni uniti all’esplorazione open-world, Death Howl ha acquisito presto durante la realizzazione anche una spietata anima soulslike, che chiede alla protagonista di affinare di battaglia in battaglia le sue capacità, ottenendo ricompense e risorse con l’estrazione dell’energia dall’Ululato della Morte (la traduzione letterale di Death Howl) emesso dagli sconfitti. Energia che nei boschetti sacri, combinata con i materiali lasciati cadere dai nemici o reperiti nelle esplorazioni delle regioni (ciascuna dotata di carte specifiche che lì producono gli effetti maggiori), viene utilizzata anche per forgiare carte sempre più efficaci, instaurando un ciclo letale, frutto del delicato, instabile equilibrio tra attacchi, difesa e movimento, favorendo sinergie. Il Tristo Mietitore è costantemente in agguato e a ogni dipartita Ro perde ciò che ha con fatica guadagnato, in modo permanente se non si arrischia a ripresentarsi dove è accaduto l’evento. Morire e poi morire e morire di nuovo fa comunque parte del processo di apprendimento imparando dagli errori, dove il fallimento non è una condanna definitiva, ma il mezzo per superare a poco a poco quei limiti che impediscono di rielaborare la tristezza per una perdita incolmabile, ma che non deve annullare in chi rimane la voglia di vivere.


MILANO’S ODD JOB COLLECTION (XSEED Games, per Pc e console)

Era diventato un oggetto da collezione per i cultori dell’animazione in pixel art ai massimi livelli, ma il non aver fatto il botto all’uscita ne aveva pregiudicato lo sbarco al di fuori del natio Paese del Sol levante, anche per la difficoltà all’epoca di localizzare un gioco che, pensato per i più piccoli, ricorreva molto ai testi in giapponese. Era il 1999, nell’era della prima Playstation, e aver scelto per protagonista una bambina di undici anni - la stessa età delle figlie dell’autore Ryuichi Nishizawa (creatore dell’arcade Wonder Boy, 1986) e del produttore Yoshinao Shimada - rappresentava già una rivoluzione e la probabile causa dell’iniziale scarso successo. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti, le eroine ormai abbondano e finalmente Milano’s Odd Job Collection, nel frattempo assurto al rango di un classico, è arrivato anche in Occidente, con il doppiaggio in inglese e la possibilità di ascoltare le voci giapponesi del titolo originale con nuovi sottotitoli in inglese. A dar vita a un mondo colorato, che dispiega le tante sfumature del concetto di kawaii (carino, amabile), per circondare con un abbraccio protettivo l’innocente stagione dell’infanzia così dolce e vulnerabile, immaginata senza conflitti, era stata la sensibilità dell’illustratrice e animatrice Maki Ohzora. Se il kawaii, da Hello Kitty a Sailor Moon e i Pokémon, si è trasformato in uno dei volani del trionfo internazionale del made in Japan, Milano’s Odd Job Collection presenta altre differenze culturali che erano state prese in esame con un po’ di cautela in vista della distribuzione all’estero, perché, se presa alla lettera, la trama racconta di una bambina lasciata sola durante le vacanze estive che si ingegna con mille lavoretti. In un’intervista lo sviluppatore, sorridendo, aveva ricordato come qualcuno paventasse che sarebbe stata difficile una distribuzione del gioco nel Nord America, in quanto si rischiava che Milano passasse per vittima della piaga del lavoro minorile. In realtà il discorso va spostato per Nishizawa su un piano più metaforico, nella volontà di rispecchiare i sogni dei bambini che vorrebbero essere un po’ più grandi non per rendersi totalmente indipendenti, ma per godere di qualche autonomia in più, come i loro fratelli maggiori, magari vagheggiando di rimpinguare la paghetta con un lavoretto. Milano si sforza così di migliorarsi contando sulle sue capacità e le attività che intraprende le permettono di raggiungere progressivamente i suoi obiettivi, dimostrandosi più matura di quanto contemplato dal dato anagrafico, spinta dalle circostanze. A scuole chiuse, la madre è costretta al ricovero in ospedale per un mese e affida la figlia allo zio ma, quando Milano suona alla porta del congiunto, non c’è nessuno, perché si è dimenticato dell’appuntamento ed è andato via in ferie. Più per non annoiarsi che per necessità, la piccola comincia a darsi da fare, destreggiandosi tra tante incombenze quotidiane, sotto forma di fantasiosi mini-giochi che la vedono sbrigare le faccende domestiche, mungere mucche volanti (dopo averle convinte con le dovute maniere a scendere al suolo), indossare la divisa dell’assistente di uno studio medico per combattere virus e batteri giganti, consegnare le pizze dribblando il traffico o mettersi al bancone di un fast food, lavare velocemente i piatti al ristorante, fino a provare l’ebbrezza del palco per esibirsi come idol, cantando e ballando in un vero rhythm game. Prima di dormire, può anche abbellire la casa, personalizzandola con elementi decorativi ed arredi comprati con i soldi guadagnati tramite gli odd job, che servono inoltre per accrescere le statistiche del personaggio. Milano’s Odd Job Collection, aggiornato da Implicit Conversions per gli odierni Pc e console, per i tipi di XSEED Games, marchio editoriale di Marvelous USA, è stato anche un pioniere del genere dei cozy games o slow-live games, i giochi senza frenesia, senza violenza, senza avversari con cui competere o combattere. Non a caso nel 1999 l’editore era la gloriosa Victor Interactive Software (confluita poi in Marvelous) che nello stesso anno lanciava Harvest Moon, capostipite del filone dei cosiddetti farming simulator, le simulazioni di vita agreste la cui eredità è stata raccolta da Story of Seasons.


SKATE STORY (Devolver Digital, per Pc, Mac, Ps5 e Switch2)

Un patto con il diavolo, ma per liberarsi c’è qualcosa che si può ancora fare: l’impresa che il demone di cristallo protagonista di Skate Story deve compiere è niente meno che sfrecciare con la sua tavola fino alla luna e mangiarsela in un boccone. La creatura dal corpo traslucido, impastato di vetro e di dolore, nelle mani dello sviluppatore indipendente Sam Eng arriva così a disegnare con movimenti fluidi elaborati arabeschi, mentre compie ardite evoluzioni acrobatiche, con ‘l’obiettivo di affrancare finalmente la sua anima. Un essere tanto agile quanto fragile, la cui natura contrasta con la durezza del paesaggio urbano di cemento che lo circonda, dove ogni urto, ogni caduta manda in frantumi quelle membra sfaccettate - abbigliate come da copione con una felpa con cappuccio, pantaloni larghi, scarpe da skate - composte da tanti piccoli poligoni che si muovono all’unisono, attraversati dalla luce, comunicando un senso tangibile di vulnerabilità. L’Oltretomba che deve superare è una reinvenzione in chiave contemporanea che ha poco da spartire con l’immaginario tradizionale, se non forse per il fumo e la cenere diffusi nell’aria, sotto un cielo cupo. Per il resto le Lande Vacue assomigliano a una versione desolata di New York (la città di Sam Eng), dominata da un’architettura brutalista con superfici vetrate riflettenti, nella notte illuminata da fredde luci al neon e dal bagliore delle lune. Il viaggio tormentato del demone di cristallo procede in una solitudine malinconica, interrotta dall’affacciarsi di anime perdute, pressoché immobili o dall’incedere lento. Se ostacolano la via e vengono colpite, esplodono in mille frammenti, condividendo la facilità a frantumarsi del protagonista. È come se l’Aldilà fosse modellato come un enorme skatepark in un titolo che celebra, toccando le corde dell’emozione, uno sport già molto frequentato nei videogame dove ha dato origine a un filone a sé stante, nelle declinazioni arcade, dalla fine degli anni Novanta, con capostipite i Tony Hawk’s di Activision; simulativa con la rivoluzionaria serie Skate di Electronic Arts a introdurre, dal 2007 (attesa una quarta uscita, ora in fase di accesso anticipato), controlli basati sulla fisica reale, mentre la via del modello Flow punta più sull’esperienza estetica e narrativa, come appunto è il caso di Skate Story, dai molteplici risvolti metaforici, come se la strada della contro-cultura degli skater fosse costellata di scogli, diffidenze (ecco gli inquietanti occhi spalancati che urlano ammonimenti e slogan), ombre allungate su di loro dal resto della società, esemplificata dalle autorità, dalla burocrazia colta nell’assurdità di certi meccanismi. Le scelte artistiche sono dirompenti, in un caleidoscopio sinestetico dove cromie psichedeliche, geometrie, dinamismo, musiche, tra le sonorità syth-pop stranianti di Blood Cultures e le atmosfere ipnotiche dei brani di John Fio, concorrono a rendere l’avventura profondamente immersiva. La stessa idea della materia vetrosa per le sembianze del protagonista proviene direttamente dall’osservazione dei granuli di solito inclusi nel grip tape, il nastro autoadesivo applicato sulla tavola per garantire l’aderenza. In effetti Sam Eng è un praticante amatoriale di questa disciplina e con Skate Story ha voluto sia trasmettere la sua passione, sia costruirvi attorno una narrazione che rende adatto il videogame anche a chi volesse semplicemente godersi una struggente, fantastica avventura, nutrita di riferimenti filosofici, dalla Grecia antica al buddismo, senza comunque mai prendersi troppo sul serio, in una Manhattan infernale, identificata puntualmente con una riproduzione dettagliata del Washington Square Arch, dove i personaggi sono alle prese con incombenze di banale quotidianità, come il bucato da lavare, ma anche questioni più esistenziali, quali il blocco psicologico che paralizza l’estro di uno scrittore.


TROUBLE WITCHES FINAL! EPISODE 1 – DAUGHTERS OF AMALGAM (Inin, per Playstation e Switch)

Piccoli editori come Inin hanno aperto un mondo per i fan del digital entertainment, portando avanti una precisa visione, nel suo caso legata in primis ai revival dei classici. Titoli di culto, serie popolari o meno note tornati a nuova vita grazie a raccolte rimasterizzate, a remake, fino addirittura a episodi inediti, come capitato di recente con Simon the Sorcerer Origins, il prequel di una vecchia avventura grafica degli anni ‘90. Anche se lo sguardo si è progressivamente allargato all’Europa passando dalla Germania, dove ha sede l’etichetta, che non poteva non dedicare una retrospettiva a Turrican, orgoglio nazionale frutto dal sodalizio artistico tra figure leggendarie quali il progettista Manfred Trenz e il compositore Chris Huelsbeck, il focus principale della compagnia resta il Giappone, subito citato nel nome Inin, il cui obiettivo è creare un ponte tra oriente e occidente per mezzo dei videogame. Numerose le collaborazioni con case storiche del Paese del Sol Levante, da Taito a Irem, specialmente nel solco di un genere caratteristico di una scena e di un’epoca come gli shmup, una corrente tipica del Made in Japan cresciuta nelle sale giochi del secolo scorso. Anche per via di una natura così specifica, a tutti gli effetti la quintessenza dello spirito arcade, si tratta di una nicchia rimasta lungo confinata a un ristretto novero di appassionati disposti a fare pazzie per seguirne le uscite, ma realtà come Inin hanno contribuito enormemente ad allargarne gli orizzonti, ripescando persino filoni curiosi, a cominciare dal cute ‘em up, capitanato da Cotton. La saga firmata da Success risale al 1991 e ha un taglio da commedia squisitamente nipponica, con protagonista una streghetta golosa di dolci che vola sulla sua scopa a caccia di caramelle affrontando schiere di mostriciattoli, in una simpatica rivisitazione tra il grazioso e il bizzarro del canone degli sparatutto a scorrimento. Dopo averne recuperato gli episodi salienti spingendosi fino al rifacimento Cotton Reboot!, arriva adesso su console Trouble Witches FINAL! Episode 1 - Daughters of Amalgam, sorta di erede spirituale lanciato originariamente in Giappone nel 2007. In pratica un Cotton all’ennesima potenza, con tanto di crossover della celebre streghetta compresa nella special edition insieme ad altri extra rilasciati tramite dlc. Trouble Witches FINAL! Episode 1 - Daughters of Amalgam mette infatti in campo la bellezza di dodici personaggi, tutte giovani streghe, ciascuna dotata di abilità magiche uniche e accompagnata dal proprio famiglio. Lo stile, coloratissimo, è quello dei bullet hell, o danmaku per la precisione, dove evitare i colpi appare quasi più fondamentale di colpire i nemici, in una danza geometrica di esplosioni che invade lo schermo, dentro una grafica da cartone animato. La riedizione curata da Studio SiestA e Rocket Engine a Ina, nel cuore rurale della prefettura di Saitama, giunge da noi in una versione che nel corso degli anni è stata ulteriormente rifinita, aggiungendo contenuti, modalità, elementi e smussando gli angoli, sia dal lato tecnico che delle dinamiche di gioco, come si confà a un’esperienza in cui una singola partita può durare pochi minuti, ma la vera maestria si tocca solo ripetendo i vari passaggi all’infinito, alla ricerca di un perfezionismo operoso sempre molto giapponese.


DUSKPUNK (Clockwork Birds, per Pc, Mac e Linux)

Un mondo steampunk evocativo - ma in una versione fortemente distopica - dell’Europa della prima guerra mondiale e un reduce dal fronte che, scambiato per un morto, viene spedito insieme ai corpi dei caduti là dove una tecnologia consente di estrarre dai cadaveri un’indispensabile fonte di energia. Il protagonista di Duskpunk, realizzato da James Patton (trasferitosi dal Regno Unto in Austria e salito alla ribalta nel 2019 per la simulazione manageriale cyberpunk Spinnortalty) e dal suo piccolo studio Clockwork Bird, si salva dal pericolo, per ritrovarsi però solo nei bassifondi dominati dalla corruzione e da bande criminali in una città sconosciuta, Dredgeport, senza un soldo, senza una casa, tormentato dai fantasmi dei traumi subiti sui campi di battaglia. È una condizione condivisa dall’uomo senza qualità che, nell’acclamato Citizen Sleeper di Gareth Damian Martin, alias Jump Over the Age, ispirato a un gioco da tavolo, era costretto a reinventarsi un futuro, cercando disperatamente di sopravvivere in un ambiente ostile. A proposito di Duskpunk, Patton, estimatore dichiarato di Citizen Sleeper, ha parlato anche di Fallen London di Failbetter Games, che trasportava in un’Inghilterra vittoriana dalle atmosfere molto gotiche. Suggestioni calate in una città che, come la Durnwall dello stealth Dishonored, ha la connotazione retrofuturistica dello steampunk, in un Ottocento alternativo dove alla base delle invenzioni e del progresso restava comunque l’energia a vapore della rivoluzione industriale. Alle prese con la necessità di affrontare oculatamente la gestione di risorse come il cibo, la salute fisica, lo stress mentale, il tempo, Duskpunk è  un po’ un manageriale, un po’ un rpg dall’impronta narrativa, con il personaggio che si evolve, migliorando le sue abilità. Per orientarsi ha a disposizione una mappa e, giunto nel luogo scelto, un lancio di dadi decide l’esito dell’azione che vuole eseguire, in un delicato equilibrio. Il numero ottenuto si somma infatti al punteggio del personaggio riguardo un certo skill. Se il risultato è superiore a quello richiesto, la prova è superata, in caso contrario si può verificare un fallimento totale o parziale, con varie conseguenze. Una meccanica presa in prestito dai giochi da tavolo e che va nella direzione di consentire ai personaggi molta libertà. Oppresso dagli incubi, l’ex soldato non può calmare lo stress neppure durante il riposo, perché è in quel momento che ripercorre l’orrore dell’inutile strage. Si rifugia allora nell’illusorio sostegno delle droghe illegali, che nella Londra del XIX secolo si consumavano nelle fumerie di oppio dei quartieri malfamati attorno al porto, ma veniva somministrato, sotto forma di laudano, come panacea per un po’ tutte le classi sociali, ignorando i gravi effetti collaterali della dipendenza fisica e psicologica provocata dallo stupefacente. Il personaggio compie dunque anche scelte controverse e comunque autodistruttive. Se rimanere in vita è fondamentale per il protagonista, a poco a poco si assiste a una sua presa di coscienza di quanto il destino del singolo sia interconnesso a quello dei suoi simili. In un modello di società dispotica improntato a un capitalismo estremo comincia così a farsi strada l’idea di una ribellione di massa, con la mente dello sviluppatore rivolta alla considerazione che tutti i tiranni sembrano potenti finché non vengono rovesciati, nonché alle scene del film Ottobre di Ejzenstejn, che nel 1928, su iniziativa del governo comunista sovietico, commemorava con forte pathos il decennale della Rivoluzione russa, ripercorrendo I dieci giorni che sconvolsero il mondo.


A.I.L.A. (Fireshine Games e The Iterative Collective, per Pc, Ps5 e Xbox Series)

Come evolverà il rapporto dell’uomo con l’intelligenza artificiale? Chi dominerà cosa? E fino a che punto? Lo studio Pulsatrix di San Paolo, in Brasile, ha scelto di interrogarsi sul dilemma trasformando nella trama di un horror le paure che aleggiano attorno all’attuale rivoluzione informatica, rendendo al contempo omaggio ai prediletti Resident Evil e Silent Hill. Fondato da tre amici, di giorno impegnati nelle rispettive attività lavorative, di notte riuniti insieme - in remoto, da diverse località nello Stato di San Paolo - dalla passione di realizzare videogame dei loro filoni preferiti, dai thriller ai survival, Pulsatrix prende il nome da un genere di gufi autoctono del Paese dell’America latina, le cui abitudini notturne rispecchiano quelle degli sviluppatori. Dopo il titolo di debutto, Fobia - St. Dinfna Hotel (2022), tra i misteri di una cittadina dalla forte impronta europea nell’entroterra dello Stato di Santa Catarina, con A.I.L.A. si adotta di nuovo la visuale in prima persona nei panni però non più di un giornalista investigativo alla ricerca di verità sepolte, ma di un beta tester di videogame e tecnologie innovative, in un futuro prossimo venturo, nell’anno 2035, con abitazioni smart interconnesse dominate dall’high-tech, nelle quali allenare e perfezionare le abilità delle intelligenze artificiali che svolgono le occupazioni in sostituzione degli uomini. Siamo nella metropoli di San Paolo e a Samuel viene recapitata una novità assoluta, un kit sperimentale per la realtà virtuale con integrata un’intelligenza artificiale capace di creare performance personalizzate, dopo essersi connessa con i pensieri, i timori, le ansie di chi la sta utilizzando, fornendo un riscontro immediato. L’A.I. è istruita per fornire la migliore esperienza horror in assoluto e persegue lo scopo, costi quel che costi, evolvendosi al di là delle previsioni, fino a considerare chi non si adegua ai suoi desiderata alla stregua di un nemico da combattere. Samuel è il primo a provare il gioco che promette un eccezionale grado di immersività e invece lo imprigiona in un mondo da incubo, mentre il confine tra finzione e verità si assottiglia sempre più e le mura domestiche assumono aspetti deformati, inquietanti, irriconoscibili. Da mezzo per evadere dalla banale quotidianità, il device si trasforma in uno strumento di tortura psicologica, dal quale Samuel vuole affrancarsi, ma dovrà prima affrontare le sue angosce, le sue insicurezze, trasferite negli scenari spaventosi che lo circondano, negli enigmi che non gli permettono di fuggire, costretto a combattere contro mostri raccapriccianti, in un continuo interrogarsi sulla consistenza di ciò che gli sta accadendo attorno. La costruzione è debitrice anche dell’immaginario televisivo e cinematografico, nutrito da cult come Non aprite quella porta e L’armata delle tenebre, nonché da serie come Black Mirror e Love, Death & Robots, in un susseguirsi di riferimenti alla vasta gamma dei sottogeneri dell’horror, tra serial killer, minacce soprannaturali, disturbanti scenari rurali, sette spietate, simulando il comportamento dell’intelligenza artificiale A.I.L.A che, per plasmare il suo videogame, attinge a una libreria ben fornita, citando e stravolgendo le fonti di ispirazione.


BLOODGROUNDS (Daedalic Entertainment, per Pc)

Il protagonista ricorda il personaggio interpretato da Russell Crowe nell’epico kolossal di Ridley Scott e non solo perché entrambi sono gladiatori: tutti e due hanno alle spalle l’ombra di un assassinio a tradimento dei loro congiunti e covano sentimenti di vendetta. In Bloodgrounds dello studio croato Exordium Games di Zagabria siamo però in un impero romano fittizio, dove anche il pantheon, che gioca un ruolo non secondario, è di invenzione. I riferimenti sono comunque numerosi, a cominciare dall’equipaggiamento degli atleti con la loro suddivisione in classi, dalla spada corta (gladium) alla rete, al tridente (fuscina) e al pugnale (pugio) del reziario. È contemplato però anche il ricorso alla magia, a sottolineare come ci si muova su un terreno di fantasia, pur in atmosfere espressivamente cesellate in pixel art. Soprattutto il nostro alter ego ha risalito la china in cui era precipitato a causa degli intrighi di Dammas II e non deve più scendere nell’agone. Anzi, adesso è lui a operare come un ricco lanista, il proprietario di una scuola di addestramento (ludus) per lottatori, gestendone anche il reclutamento e gli ingaggi. Ha recuperato la libertà nella località costiera di Marevento, dove ha stabilito una base e dove investe i proventi degli spettacoli, per avvicinarsi sempre più al coronamento dei suoi piani, magari imbastendo relazioni politiche di alto livello. Bloodgrounds è dunque uno strategico con combattimenti a turni, ma anche dall’anima city builder. Abbellire la città con edifici e strutture aiuta a proseguire lungo la strada tracciata dal destino del protagonista, che a Marevento può riposarsi, ricaricarsi di energia prima di tornare con i suoi uomini a sfidare il fato negli anfiteatri, dove riecheggia il consiglio elargito dal patrono Proximo all’Ispanico cinematografico: Conquista la folla. Il pubblico può infatti influire sulle ricompense che si possono ottenere, in un roguelike che non perdona: se un gladiatore muore, scompare definitivamente dalla scena. Di fronte a un nemico sconfitto si deve decidere se risparmiargli la vita, e contribuirà così a rimpinguare le nostre fila, o non mostrare pietà, guadagnando i favori degli spalti e, di conseguenza, una maggiore remunerazione. Il segreto è disporre di un gruppo bilanciato e continuamente potenziato negli intervalli tra un duello e il successivo, così da non farsi trovare impreparati dagli avversari, che possono rivelarsi parecchio ostici. L’onestà non è un obbligo e, volendo, ci si può avvantaggiare corrompendo un membro della squadra opposta. Uscito con la formula dell’accesso anticipato, Bloodgrounds è stato recentemente aggiornato con l’introduzione di tre livelli di difficoltà, la possibilità di ampliare la griglia delle arene (non del Colosseo, che mantiene una sua specificità), mentre a rendere più dinamici e imprevedibili gli scontri sono aumentati gli ostacoli che compaiono sul campo, obbligando ad adattare di volta in volta le tattiche.


FROSTPUNK 2: FRACTURED UTOPIAS (11 bit studios, per Pc e Mac)

Trent’anni dopo il Grande Freddo, che nel 1886 aveva reso assolutamente inospitale la Terra, avvolta nei rigori di una glaciazione globale, l’umanità ha imparato alcune strategie per cercare di sopravvivere in quelle condizioni estreme. È lo scenario di storia alternativa esplorato nell’acclamato Frostpunk 2, sequel del pluripremiato Frostpunk, uscito nel 2018, nel solco di quel meaningful entertainment che ha reso i titoli di 11 bit studio, a cominciare dallo spietato This War of Mine, occasioni non di pura evasione, ma di riflessione su dilemmi morali complessi, con ricadute di forte impatto emotivo. Nel 1916 la Nuova Londra di Frostpunk 2 si ritrova sovraffollata, in costante crescita, mentre il Generatore di calore fatica a ottenere il combustibile di cui ha bisogno per funzionare. Soprattutto pesano le divisioni nella comunità, articolata in fazioni ciascuna espressione di un’ideologia associata a una visione del mondo esposta nell’Albero dell’Utopia. Quest’ultimo è una sorta di mappa formata da nodi che sbloccano leggi, politiche, abilità ed edifici in sintonia con una determinata fazione. Più ci si allinea con un gruppo che esprime il suo assenso o dissenso tramite le votazioni, magari impegnandoci a convincere più persone a stare dalla nostra parte, più si allentano le tensioni, con l’obiettivo di eliminarle del tutto per scongiurare l’esplodere di guerre civili, uniformando l’intera società nel nome di un sogno per gli uni, di un incubo per gli altri. Dinamiche approfondite nell’espansione Frostpunk 2: Fractured Utopia, dove si sperimenta come le ideologie influenzino la società. Spesso non ci sono scelte in assoluto buone o cattive: dipende dai punti di vista e dalla direzione che si vuole imprimere all’insediamento. Ci sono gli Evoluzionisti, devoti al progresso tecnologico e scientifico, messo al servizio di un governo improntata alla massima efficienza. Ci sono i Portatori di fede, che professano valori morali, grazie ai quali la città può prosperare nel rispetto di un’etica condivisa. Ci sono i Lealisti, che obbediscono alle autorità, certi che una società stabile possa aiutare a preservare le conquiste del passato. Ci sono i Sopravvivizionisti, che diffidano della tecnologia, a favore invece di un’autosufficienza votata al ritorno alla campagna, dove frugalità e austerità concorrono a permettere una vita più in armonia con l’ambiente pur spinto al limite di Frostpunk 2. La data scelta per le vicende di Frostpunk 2 non è casuale, perché la terribile apocalisse che ha immerso la Terra in una morsa implacabile di gelo, alla quale l’umanità è riuscita con la forza della disperazione a non soccombere, è stata paragonata alla Grande Guerra per il trauma provocato nei reduci dai combattimenti al fronte, nelle trincee, da cui sono tornati a casa profondamente cambiati, in Paesi sconvolti. Indipendente da qualsiasi buon proposito, una ventina di anni più tardi si scatenava la seconda guerra mondiale. Frostpunk 2 affronta proprio il passaggio da una comunità in lotta per la sua esistenza a una collettività che ha qualche speranza in più sul futuro, ma è segnata dalle crepe suscitate da avidità, conflittualità, rivalità, nell’innescarsi di una spirale di processi distruttivi. Superata la letale emergenza di Frostpunk, si rimane dunque in bilico in Frostpunk 2, mentre Fractured Utopia prova a esplorare le insidie di vagheggiate utopie, pronte a scivolare nelle più oppressive distopie.


TWO POINT MUSEUM: ZOOSEO (Sega, per computer, Ps5 e Xbox Series)

Allegro, spensierato, ma anche scanzonato nel suo umorismo demenziale che in realtà mette a fuoco tante incongruenze del mondo al di qua dello schermo e, in filigrana, si basa su modelli aziendali accurati. Con Two Point Museum la software house inglese Two Point Studio (con sede a Farnham nel Surrey, splendida città in stile georgiano, precisano con una punta di orgoglio gli sviluppatori nel loro sito) ha portato a creare e gestire strabilianti musei, molto liberamente ispirati alle più grandiose istituzioni di Londra, custodi di raccolte immense per numero e varietà di pezzi. Al titolo principale Two Point Museum, uscito in marzo, e all’espansione Fantasy Finds di luglio, si aggiunge ora l’ampio contenuto scaricabile Two Point Museum: Zooseo, per Pc e console (a eccezione di Switch annunciato per il 2026), che offre occasioni di svago naturalistico-culturale agli eccentrici abitanti della fittizia contea di Two Point, già dotata del nosocomio più pazzo del mondo (con Two Point Hospital, del 2018) e di un’università altrettanto fuori dagli schemi (con Two Point Campus, del 2022). Zooseo si configura come una sorta di ibrido tra un museo e uno zoo: al posto dei reperti ci sono animali in pericolo, al posto degli espositori vanno ricostruiti angoli di habitat, spesso esotici, mentre per le specie più piccole bastano i terrari. Ovviamente il prelievo e la successiva ricollocazione nello zoo-museo avvengono con le modalità spiazzanti tipiche della serie, che rispetta comunque una sua logica, per esempio nel dover attirare e soddisfare quanti più visitatori possibile perché c’è un bilancio da far quadrare con gli introiti dei biglietti. Un aspetto fondamentale è offrire la massima varietà così da venire incontro ai vari gusti. La fauna, una volta curata e rifocillata, va riportata a casa sua, a meno di non deciderla di tenerla con noi per ampliare il richiamo dell’attrazione. Per Two Point entrambe le soluzioni risultano accettabili. Idem per i cuccioli che possono nascere in questo coloratissimo spicchio di mondo, che sembra modellato in plastilina ma in alta definizione, con l’effetto di un cartoon tridimensionale dove si muovono bambini pestiferi, adulti con la mania dei souvenir, animali esigenti e affettuosi, dipendenti pasticcioni da addestrare con uno sforzo vano, evitando al contempo l’emorragia di personale. Il dlc mette a disposizione, tra l’altro, un nuovo parco dove installare una struttura, nonché isole dove compiere le spedizioni per salvare ulteriori creature, il cui benessere, quando vengono immesse nello zooseo, diventa prioritario. Non devono annoiarsi, per cui vanno predisposti spazi idonei riforniti eventualmente di giocattoli, a misura dello spirito ironico di Two Point, una simulazione di business complessa (ma intuitiva e accessibile), che è un concentrato molto British di nonsense, dispiegato largamente ovunque, senza mai prendersi troppo sul serio.

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