a Salsomaggiore
Salsomaggiore Se c’è una cosa che fa irritare Julio Velasco, quella è rappresentata dai luoghi comuni. «Come quando si afferma che nello sport professionistico si pensa esclusivamente al raggiungimento del miglior risultato possibile. Perché, non è forse così anche fra i bambini che giocano a nascondino?» ribalta la prospettiva l’ex commissario tecnico della Nazionale azzurra di pallavolo, tra gli ospiti più attesi della giornata inaugurale della Sessione di studi dell’Accademia Olimpica Nazionale Italiana, a Salsomaggiore. «Mettiamo da parte lo sport agonistico e pensiamo a qualsiasi altra forma di gioco elaborato: una corsa, una partita a dama o a scacchi. Bene, la vittoria resta sempre l’obiettivo principale ed è normalissimo. La differenza è che lo sport può e deve insegnare a vincere e a perdere: quello fa parte del suo ruolo educativo. E lo sport insegna prima di tutto a controllarsi: se così non fosse, chissà cosa si vedrebbe ogni settimana sui campi di calcio, ai massimi livelli, visto gli interessi che ci sono in ballo».
Sport professionistico e sport per tutti: la sensazione è che si tenda spesso a sovrapporre questi due piani. Che ne pensa?
«Lo sport professionistico ha preso il sopravvento, specie nella cultura italiana. Si ritiene che lo sport di base sia una sorta di tappa per arrivare, i migliori, a competere ad alti livelli. In realtà sono due aspetti che necessitano di istanze, metodologie e obiettivi differenti».
Cosa è cambiato rispetto al passato?
«Non si fa altro che ripetere, e questo è un altro luogo comune, che una volta le cose andavano meglio. Anche in questo caso, non possiamo affidarci a ragionamenti preconfezionati: in ambito sportivo, secondo me un tempo era molto peggio».
Perché?
«Provi a pensare al numero di persone che si dedicavano all’attività sportiva, nettamente inferiore rispetto a quello attuale sia per quanto concerne gli adulti che i giovanissimi. Era così fino a pochi decenni fa. Le bambine andavano al parco con la gonna: oggi, per fortuna, le vedi in tuta e che fanno le stesse cose dei maschi. Gli impianti sportivi sono sempre pieni. Eppure, tutto ciò non viene percepito».
Il ruolo educativo, cui accennava poc'anzi, è un aspetto di cui si ha consapevolezza negli ambienti sportivi?
«Credo che il valore educativo sia ben presente e diffuso nelle società sportive, dove pure troviamo di tutto. Ma di esempi negativi ce ne sono pure fra i genitori: come il papà che si piazza a bordocampo e dice al proprio figlio cosa deve fare, arrabbiandosi al primo errore. La forza comunicativa dello sport professionistico, quello costantemente sotto i riflettori dei media, è ormai così radicata che tutti, famiglie e dirigenti, inconsciamente sono orientati a copiare quel modello, ritenendo sia l’unico».
Parliamo di pallavolo: Il nuovo corso della Nazionale italiana maschile, all’insegna dei giovani, la convince?
«Partiamo subito col dire che i giocatori che hanno vinto l'Europeo sono i migliori. Questo coincide anche con il fatto che siano giovani, ma le loro qualità sono indiscutibili. All’inizio di un ciclo olimpico bisogna puntare sulle forze fresche: funziona così ovunque».
Si aspettava, già nell'immediato, un exploit da parte loro?
«No, come penso nessun altro. Ma questo è un fattore secondario: l'aspettativa legata al risultato, lascia il tempo che trova. Prenda le Olimpiadi: chi avrebbe mai immaginato il trionfo di Jacobs? Non era certo lui il favorito. E potrei elencargli tantissimi esempi analoghi. Personalmente, ho pensato che questa Nazionale potesse essere competitiva».
Anche in campo femminile, l’Italia della pallavolo esprime un potenziale notevolissimo.
«Il movimento femminile è addirittura superiore a quello maschile, per numero di tesserate e qualità atletiche. Le figlie di tantissimi ex giocatori di serie A di pallacanestro, quindi ben strutturate fisicamente, giocano a pallavolo. E a queste si aggiungono le ragazze che provengono da famiglie di origini africane, anche loro molto dotate sul piano atletico».
Le piacerebbe tornare a lavorare nella femminile?
«Sì, mi piacerebbe. Vedremo in futuro se ci sarà l'opportunità».
Non le manca un po’ la panchina?
«Con il mio attuale incarico in Federazione, ho la fortuna di vivere in mezzo a tanti giovani da far crescere: la panchina e l’adrenalina della partita non mi mancano eccessivamente. Almeno per adesso».
E Parma, cosa le evoca?
«Tanti ricordi. È una città che si lega alla mia storia, sportiva e personale. Qui ho tanti amici: come Aristo Isola, mio direttore sportivo a Modena, e Gian Paolo Montali, che ho rivisto proprio di recente. Ma non posso dimenticare tutti i miei giocatori che hanno fatto cose straordinarie, a Parma: Zorzi, Bracci, Giani, Galli».
A Velasco, insomma, la nostra terra è entrata nel cuore.
«Io vivo a Bologna e mi sento emiliano dentro. Magari, tra le città, litighiamo per chi fa i tortellini migliori, ma siamo tutti accomunati da una fortissima identità con questi luoghi. E per me che vengo da un altro paese, vale ancora di più».
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