Langhirano
La matita e la carta sono gli strumenti della sua arte, della sua indagine artistica, della ricerca del vuoto. Ogni giorno si chiude tra le mura del suo studio atelier, in una quotidianità metodica che la vede dipingere e annotare le sue osservazioni, i pensieri, gli errori compiuti alla ricerca costante del miglioramento. Un lavoro creativo che trae ispirazione dalle parole e dall’introspezione, che la porta a riflettere su stessa, sulle sue opere. E da queste annotazioni giornaliere è nata l’idea di «Diary», la prima monografia di Valentina Biasetti, artista classe 1979 che da un decennio vive tra le colline di Casatico, luogo che definisce «magico» e di cui si è innamorata.
«Diary» è un percorso a ritroso, che racconta degli ultimi 20 anni, dai primi quadri fino a quelli più recenti. Un modo per osservare il proprio lavoro con sguardo diverso, quasi distaccato, compiendo un passo indietro di fronte alla tela del proprio dipinto.
«Il mio lavoro non è sempre lo stesso, si modifica, si fanno errori. È stato come riavvolgere il nastro, rivivere il mio percorso con occhio sincero – racconta -. Io lavoro nella quotidianità, ci sono dei rituali e uno di questi è quello di annotare quello che mi succede, come sta andando il mio lavoro, frasi e citazioni di letteratura e poesia. E da questo è nata l’idea della monografia. Ci sono testi accompagnati alle date, ma senza riportare l’anno, per sottolineare la circolarità del tempo, del mio lavoro. E questo sguardo più lontano sul mio percorso mi ha permesso di rendermi conto che il filo tornava, che c’è una coerenza in quello che ho fatto».
Figure femminili che scompaiono, quasi si dissolvono sulla carta, tra chiaro scuri resi dai segni della matita, e accenni di colore, alla ricerca del vuoto. «Il tema fondamentale è quello e mi appartiene da sempre, lavoro sull’idea del vuoto, in un esercizio di sottrazione, attraverso soluzioni nel tempo diverse – sottolinea Biasetti -. L’occhio cambia, si modifica, impari cose nuove. La tecnica però è la stessa, utilizzo la matita, elemento fondamentale e strumento d’indagine per cercare i particolari, che mi ha portato ad usare supporti come la carta o lenzuoli per lavori più grandi; poi c’è il colore, l’acquerello, che è veritiero e non cela l’errore, oppure quello ad olio. Li uso a seconda di quello che voglio rappresentare e trasmettere. La definisco una «tecnica necessaria».
Altro punto fondamentale è la trasposizione autoreferenziale, la propria immagine. «Il punto di partenza è una fotografia che faccio io, da cui parte l’indagine, che traferisco sulla tela per poi togliere gli elementi, fino a raggiungere l’equilibrio tra pieno e vuoto».
E poi c’è il tema dell’errore, quello che aiuta a migliorare, a crescere. «Le opere a cui sono più affezionata sono quelle in cui ci sono gli errori che mi hanno permesso di andare avanti, quelli che scatenano l’adrenalina per il lavoro successivo».
Un’artista che pretende tanto da se stessa, la cui ricerca è spingere il paletto degli obiettivi un po’ di più in là.
Il bilancio però ad oggi è positivo: «Vivere di arte è stato un traguardo importante e significa tante rinunce. Sono una donna, ho una famiglia e spesso questo viene percepito come un impedimento. Lavorando su me stessa metto in piazza le mie sensazioni, ma per la visione che ho dell’arte penso sia necessario – conclude -. Dall’Io arrivi al coinvolgimento dell’altro. Qui si trova il vero valore dell’arte».
Maria Chiara Pezzani
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