Parma di una volta
Non era un… pittbull ma, molto semplicemente, un «pit véc'». Non era un gallinaceo, ma un omino stizzoso e poco simpatico. Lo avevano soprannominato «Pit Véc’» proprio perché assomigliava ad un vecchio tacchino: testa pelata e lucida, con un ciuffetto di radi capelli, lunghissime sopracciglia e baffi che invadevano metà del volto. Una caricatura vivente. Di mestiere faceva il venditore ambulante di stoviglie e di scodelle («al scudlär») che trasportava su uno carretto che trainava a mano. «Pit Véc’» fu preso di mira da tale «Tognétt Polenta» detto anche «Antonio dei Polentani». Chi era costui? «Tognètt» faceva il «cibàch» (calzolaio) e frequentava, come molti suoi colleghi, l’osteria «Tami» che era ubicata in Rocchetta (ora Piazzale Corridoni). In questa osteria, la maggior parte degli avventori erano calzolai. I «cibàch» facevano parte di una corporazione molto numerosa e granitica nella nostra città. Sino al 1295 avevano un loro statuto in quanto, i calzolai, costituivano una delle quattro arti più importanti di Parma forti dei loro illustri predecessori come il ciabattino indovino Mastro Benvenuto, soprannominato «Asdente» (uomo dalla dentatura mostruosa, in parmigiano «al sdintè»), addirittura citato da Dante nel XX canto dell’Inferno. Il mitico calzolaio parmigiano, che teneva bottega nel 1282 in Cò di Ponte, oltre il proprio mestiere che assolveva nel migliore dei modi, aveva la capacità ed il dono di decifrare le profezie bibliche. «Un uomo puro, semplice e timorato di Dio - così lo descrive il cronista Frà Salimbene de Adam - era illetterato ma si avea intendimento acuto e illuminato assai tanto da capire le scritture di quelli che hanno fatto predizioni del futuro».
Dante, invece, lo castigò cacciandolo nell’Inferno e ne relegò l’anima nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio infernale costringendolo, insieme agli altri indovini, a girare eternamente con la testa voltata dalla parte della schiena in modo che le lacrime finissero - umiliazione delle umiliazioni- sulle natiche. Coevo di Asdente, Cortopasso, il calzolaio nano il quale, all’indomani della clamorosa vittoria dei parmigiani su Federico II° con l’annientamento della cittadella di Vittoria, si impadronì della corona dell’imperatore sconfitto. La nomea di anarchici e rivoluzionari, i calzolai parmigiani, se la portarono appresso per molto tempo, tant’è che a loro fu affibbiata anche una famosa canzone popolare «La congiura di calsolär magnagat» che narra le imprese di una quindicina di persecutori di gatti. E fra questi «aguzzini», che catturavano le «lepri da tegole» durante la notte, alcuni famosi ciabattini quali: «Bacàn», «Ciambruschi», «Gramìggna», «Bali äd can», «Cucù», «Strafugnón» ed il nostro «Tognètt Polenta». Essi, infatti, con il favore delle tenebre, si infilavano su per le antiche e anguste scale delle casupole «de dla da l’acua» sino a giungere nei «granär».
Una volta presa posizione dietro gli abbaini, attendevano la preda che transitasse sui tetti, magari attirata da un’esca: un pezzo di grasso o una lisca di pesce. Dopo di che, due mani robuste sbucavano dall’angusto abbaino afferrando la bestiola la quale non aveva neppure il tempo di miagolare. Giustiziato sul posto e scaraventato dentro un sacco di juta, il gatto, veniva poi pelato e seppellito nella neve per alcuni giorni affinché le sue carni diventassero tenere per essere cucinate a dovere dopo una prolungata concia in vino robusto e verdure profumate, in compagnia di una bella polenta e, siccome tutti i salmi finiscono in gloria, anche le pantagrueliche cene dei «cibàch», alla fioca luce «dla lumma a òli» delle varie osterie, terminavano tra i fumi dell’alcol e quello dei sigari mentre potenti e roche voci, abbrutite dal tabacco, intonavano il ritornello che narrava la «Congiura di magnagat» : « giuriam tutti per la fede/ del cognàc e dla barbera/ äd magnär tutti bei gat/ sorianén bianc e morètt/ e i bei smilzètt/ sott al zachètt».
Nel 1256 fu posta una lapide nell’Ospedale Vecchio su cui era incisa una convenzione tra la corporazione dei Calzolai e l’Ospedale in base alla quale ogni calzolaio aveva diritto ad essere ricoverato in caso di malattia, ad essere soccorso in caso di bisogno e, da morto, aveva diritto ad una messa in suffragio anche se la maggior parte dei «cibàch» parmigiani appaiono come personaggi rissosi, accaniti bestemmiatori, mangiapreti, furiosi masticatori di tabacco e, per dar completo il quadro, impenitenti cacciatori e divoratori di «lévri da copp» (lepri da tetto), ossia i gatti. Tant’è che nelle osterie parmigiane, in modo particolare, sia da «Gardella» (in borgo dei Minelli) che da «Tami», i piatti più cucinati erano spezzatini e fritti di gatto con contorno di polenta e cavoli.
«Tognètt Polenta» era un carattere ameno, artefice nell’inventare spassose burle architettate molto bene tant’è che i suoi scherzi furono sempre rimasti impuniti. Solo una volta il buon «Tognètt» fu scoperto a causa di uno scherzo che fece ai danni di «Pit Véc’». Quest’ultimo, un bel giorno, transitando per Piazzale della Rocchetta spingendo il carretto pieno della sua fragile mercanzia (piatti , bicchieri e scodelle), gli venne, da mano ignota, scagliato contro un vecchio, ferrato e pesante scarpone da montanaro che cadde centrando in pieno le stoviglie e provocando un vero disastro. Ma la cosa ancor più grave fu che, dopo il rumore provocato dall’atterraggio dello scarpone sulle stoviglie, echeggiò una sonora e ignota risata unita ad una irriverente pernacchia. «Pit Véc’» non si scompose e, rapido come un fulmine, si recò nel vicino comando di Pubblica Sicurezza ubicato in Borgo Bosazza chiamando in suo aiuto l’appuntato Cavatorta. «Il panciuto e roseo Cavatorta- come riporta Aldo Emanuelli nelle sue «Osterie Parmigiane» , era un agente dal fiuto fino e non per nulla fu allievo dello sbirro Gaetano Fassi, brigadiere di Pubblica Sicurezza assai popolare a Parma ove era semplicemente dalla malavita designato con il nome «Gajtàn». Il roseo Cavatorta, appena ebbe ascoltato l’ansimante «Pit véc’», capì chi poteva essere stato l’autore dello scherzo. Accompagnò in Rocchetta «Pit véc’» e, alzato il viso, gettò in aria il fischio notissimo di richiamo fra i calzolai. Fischio che, il popolo, traduce nella parola «mojéra».
A tale richiamo, ecco subito apparire sulla porta dell’osteria «Tognètt Polenta». Bastò questo, a Cavatorta, per conoscere il lanciatore della vecchia e pesante scarpa e, senz’altro, gli impose di rifare dei danni la vittima dello scherzo». Che seguitò ad essere il bersaglio preferito di altre burle perché, il povero «Pit véc’», oltre «ésor brutt cme la paùra, l’era simpàtich cme il s’ciafi al’orba».
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