L'angoscia dei bambini
Dopo la pandemia, la guerra. Se è stato difficile spiegare ai più piccoli le ragioni dei lockdown e i rischi del virus, ora la sfida, per genitori ed educatori, è altrettanto ardua: dare un senso alle immagini di combattimenti e morte e non creare ulteriore angoscia. Ma come parlare ai bambini della guerra? Come essere sinceri ma rassicuranti?
«Non ci sono ricette infallibili - premette Antonella Squarcia, direttrice della Neuropsichiatria infantile dell'Ausl di Parma - Si consiglia di proteggere i bambini che frequentano nidi e scuole dell'infanzia da immagini troppo cruente, cosa non sempre possibile. Dai 5-6 anni comunicare è indispensabile e costruttivo, pur senza forzare la mano. Essere disponibili ad ascoltare le domande, a fare attenzione a come vengono poste e capire cosa ci stanno dicendo».
Quali sono gli effetti della guerra sui bambini?
«Gli effetti a lungo termine sono in relazione alla capacità degli adulti (non solo insegnanti e genitori, ma le figure di riferimento che ogni bambino si sceglie, dall'allenatore di calcio, al nonno, allo zio) di difendere i bambini dai loro stati emotivi e di proteggere la loro salute psichica. Se non troveranno risposte alle loro domande (e allo loro richiesta di condivisione emotiva), smetteranno di farle. Quando non c'è più il canale della verbalizzazione, quando la protezione non passa dalla relazione con chi si ha al fianco, arrivano tristezza profonda, angoscia, insonnia, perdita (o aumento smisurato) di appetito, sfiducia o paura dell'altro. L'abbiamo sperimentato anche con il Covid».
Come spiegare una guerra?
«Fino agli 8-9 anni è importante fare esempi concreti, riportare qualcosa comprensibile per i bambini. Ad esempio spiegare il conflitto inquadrandolo in un momento nel quale non si è disposti ad ascoltare l'altro, “come quando hai litigato con tua sorella”. Ricordare che è un momento che si può superare e far capire che c'è anche un modo non distruttivo di gestire i conflitti. Questo è un messaggio importante, evolutivo».
Genitori ed educatori sono pronti a questo?
«Anche noi siamo stanchi, impauriti ed angosciati. Il rischio è non voler affrontare l'argomento o volerlo affrontare a tutti i costi. È importante che i genitori parlino fra di loro e che parlino con gli insegnanti, per capire se a scuola il tema è stato toccato. È però anche importante che ciascuno resti sull'unicità del proprio bambino, sapendo cosa fa bene per lui o lei».
Come agire?
«Oltre allo spazio del pensiero, dare speranza, passare al fare. Ci sono iniziative che danno ai bambini la possibilità di sentirsi parte di qualcosa di condiviso: portare oggetti alla Caritas, aderire a iniziative dell'Unicef o di altri organismi che aiutino a proteggere i più piccoli. Far capire che c'è una parte cattiva ma c'è anche quella buona che va valorizzata, all'esterno come dentro di noi».
Qual è il rischio in queste situazioni?
«Forzare la mano, voler affrontare l'argomento, magari chiedere che i bambini sposino il nostro punto di vista. Insomma indottrinarli. È giusto chiedere “hai sentito cosa sta succedendo?”, ma non insistere. Le domande nascono se c'è un clima adatto. Se non nascono, dobbiamo chiedere il perché a noi stessi. Forse i bambini stanno prendendo le distanze da cose che non riescono a gestire, e anche questo va rispettato».
Monica Tiezzi
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