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Missione compiuta

Consegnati a Zahony i 120 quintali di aiuti per l'Ucraina

Consegnati a Zahony i 120 quintali di aiuti per l'Ucraina

di DAL NOSTRO INVIATO Roberto Longoni

20 Marzo 2022, 03:01

ZAHONY (frontiera Ungheria-Ucraina) Vasil da Uzhgorod, ìl kalashnikov l’ha ceduto al nipote. Ora ne inventa uno a mani nude, per sparare al cielo, prima di sentenziare: «Russki, kaputt». Troppo vecchio per la guerra, oggi il 62enne ha il suo fronte sull’autotreno della solidarietà appena arrivato da Parma, camion finalmente fermo sul piazzale polveroso a tre chilometri dalla frontiera, dopo 1300 di viaggio. Lì, su quel lungo rimorchio inviato dalla città delle barricate ha viaggiato una barricata di pallet e cartoni. Beni di prima necessità, materia prima di resistenza umana. Sarà pure il più anziano dei suoi, Vasil, ma è stato il primo a salire sul rimorchio, pronto a lavorare di muscoli.

Con l'Italia ha un rapporto particolare da quando, nel 2006 a Berlino, era cameriere nell'albergo degli azzurri vincitori del Mondiale. Cita Buffon e Cannavaro, prima di riprendere il lavoro. «Eccomi qui, a contribuire come posso». Lui alza le mani, ceduto l'ennesimo pacco alla catena di braccia italiane e ucraine tra il tir di Alberto Benazzi e i mezzi dell’associazione di Čop il cui nome tradotto suonerebbe «Una goccia di dolcezza». Una goccia più tante fa un mare.

Un cartone con altri 579, una barricata di speranza. Da smontare appena fuori Zahony e ricostruire dove piovono le bombe e avanzano i carri armati o comunque risuonano allarmi. O anche a poca distanza da qui, in questo estremo lembo di terra magiara, dove ogni giorno sbarcano profughi a migliaia.

Cinque minuti di strada, attraversato il ponte sul fiume Tissa, confine naturale tra Ungheria e Ucraina, e il carico di aiuti avrà varcato il confine tra l’Europa dimentica della propria fortuna e quella ricacciata nell’orrore della storia. Di tanto in tanto, quasi per dare un ritmo alla truppa, il combattivo pensionato grida «Putin, Putin, là, là, là», per poi fare il gesto di chi tira il collo a un pollo e spezza un fucile invisibile sulle ginocchia. Per un attimo la guerra sembra vinta. O comunque davvero lontana.

Alla meta
Le operazioni di scarico, che dureranno due ore, sono cominciate alle 14. La spedizione è stata organizzata in dieci giorni. Uno e mezzo è servito per arrivare fino quassù, dopo la partenza alle 4,30 di venerdì, con Luigi Iannaccone, presidente del Seirs, a bordo di un pulmino con il fratello Paolo, Franco Zanichelli e Natalia Kobyliatska (a loro volta volontari della Croce gialla), Ines Seletti, presidente di Fidas, e il fotografo Sandro Capatti, oltre all’inviato della Gazzetta. Davanti a loro, il tir messo a disposizione (con risorse e impegno in prima persona) da Benazzi di San Polo di Torrile.

I 120 quintali d'aiuti trasportati contengono un po’ di tutto: dalla pasta alle fette biscottate, dai prodotti per l’igiene personale al latte, alle barelle e a tutto ciò che serve per il pronto soccorso, specie in un paese in guerra. Gli ucraini venuti da oltre il Tissa aspettavano già dal giorno prima. Le prime telefonate a Natalia, italo-ucraina di Parma, sono arrivate a metà mattinata, nonostante l'appuntamento fosse per il primo pomeriggio. «Siamo qui. Vi aspettiamo».

Attraverso la puszta
Dopo averlo fatto a Parma, si brucia sul tempo l'alba anche nel paese fantasma sul lago Balaton dove si è dormito. Trovato un motel, si è scoperto che alle 19 era già troppo tardi per cenare. Il picnic improvvisato con il salame portato da un generoso (e previdente) da casa ha coperto il vuoto nello stomaco. Poi, più del digiuno, poté la stanchezza. Tutti a letto, con una nuova partenza precoce nel freddo a meno due.

Non si può con il pensiero non andare a chi in quel momento si trova per strada, in qualche modo, impegnato nella sua ritirata dalla Russia. Al gelo e nella paura, spesso nel dolore, dopo aver lasciato i propri cari a casa a impugnare un mitra o sepolti in un frettoloso addio.

Davanti al tir e al pulmino targati Seirs, altri 400 chilometri e passa fino alla meta, nella pianura ungherese sempre più schiacciata sotto il cielo. Più una savana che una steppa, per come appare dimenticata dalla pioggia. Ai lati dell'autostrada, terra polverosa e sempre più scura, torri di raffreddamento di centrali nucleari, alberi carichi di globi di vischio, villaggi di case basse e a volte diroccate, campanili dai tetti aguzzi come punti esclamativi.

Budapest si presenta con un cartello marrone, ma sfila via invisibile. E intanto l'Ua della segnaletica annuncia che si va verso la frontiera, alla velocità imposta dal tir. Sfrecciano sulla corsia di sorpasso cinque furgoni e un camioncino di aiuti inviati da Graz. Dal roboante convoglio nessuno risponde al cameratesco colpetto di clacson di Paolo Iannaccone al volante del pulmino nostrano. Troppa fretta. O forse paura del confronto con il grande camion che apre la strada alla spedizione parmigiana. Altri furgoni, targati Italia, invece salutano per primi sorpassando. «Ecco...» sorride Iannaccone.

Oltre il cancello
Poi, all'arrivo a Zahony, dove l'Ungheria si fa profondo Est, a dare l'idea del confine da superare c'è anche il cancello chiuso davanti al luogo dell'appuntamento. Il titolare si è assentato per due minuti, dice attraverso le sbarre Uliana, 40 anni, responsabile della delegazione inviata da Čop. Con lei, la figlia Julianna, 19 anni, e un gruppo di uomini di varie età. Tranne Vasil, sono tutti tra i 18 e 60: non indossano la divisa solo perché riformati: per questo hanno potuto varcare la frontiera. Ora aiutano Uliana e la spedizione parmigiana a passare il carico dai tir ai furgoni.

Mentre Julianna trasporta i discorsi dal russo di Natalia (che a sua volta traduce dall'italiano) all'ungherese del sindaco di Zahony, venuto a ringraziare. Il suo piccolo paese di frontiera, di 4.300 anime, ora è raddoppiato per i profughi. I più proseguono per Budapest, ma duecento nuovi si fermano ogni giorno. «Abbiamo aperto cuore e case a questa povera gente - dice Lazlo Helmeori -. Grazie per essere con noi». Da troppo tempo si concede solo due ore di sonno per notte. Ma, per quanto sia stravolto, sorride. A lui e a Uliana vengono consegnati i disegni con i quali gli alunni parmigiani hanno voluto accompagnare i pacchi.

Anche lei sorride. E piange. Abita tre chilometri oltre il fiume e ora ospita i dodici parenti che hanno potuto lasciare Kiev e Sumy. «Le bombe - spiega la figlia - finora sono cadute lontano da qui. Ma due volte è risuonato l'allarme: di giorno e di notte». Finito di scaricare, Uliana vuole dire ancora grazie. Lo fa donando una torta tipica della sua terra e una bottiglia di palinka, una grappa di mele che si annuncia speciale («Bevetela anche per noi: a casa, ora l'alcol è vietato» fa lei).

Ci si scambia bandiere, sorrisi, auguri. Vasil, a sua volta con la casa piena di parenti sfollati, accenna «O sole mio», per poi elencare con un «ok» Celentano, Al Bano e Romina e Toto Cutugno seguito chissà quando in concerto a Mosca. «Paolo Rossi ok» esclama ancora l'ex cameriere. Non sapeva della morte di Pablito. Che errore dargli la notizia. Vasil si mette la mano sul cuore e si rattrista prima ancora di varcare di nuovo la frontiera.

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