Reportage
Tre giorni è durata la guerra di Sergeii. Tre giorni, e lui, avvocato in tempo di pace, da soldato stava per incassare la condanna finale e senza appello. Sarebbe morto, se non avesse scansato la granata lanciata da un Rpg o se la raffica di kalashnikov non l’avesse centrato qualche millimetro in là o se le sue ferite non fossero state tamponate in tempo.
Le prime cure, le ha ricevute mentre ancora infuriava la battaglia attorno. E dall’ospedale di Kharkiv, circondato dai russi, è stato evacuato tra un assalto e l’altro. Anche il furgone con cui è stato portato a un letto più sicuro è stato crivellato, con lui a altri tre feriti all’interno. Sempre steso sul retro di un furgone (ma almeno non ridotto a bersaglio mobile) due mesi e passa dopo ha raggiunto Čop, al confine con l’Ungheria, poi varcato con la moglie Alona grazie all’infaticabile Ulliana Kapral. Qui, a Zàhony, che viene preso in consegna dai volontari del Seirs di Parma. Finalmente un’ambulanza la cui croce non serva ai gentiluomini della guerra a prendere la mira.
Un proiettile lo ha colpito al braccio destro, frantumandogli l’omero, un altro gli ha spezzato una costola sotto l’ascella, trapassando un polmone. Entrambi, poi, si sono fermati a un soffio dalla colonna vertebrale: dalle coordinate dell’ultima lastra si spera non si siano più spostati. Sergeii Chernoval, dal 27 febbraio vive con questa zavorra in corpo. Era un avvocato (e tornerà a esserlo, alla fine di questa guerra, sporca come le altre, anche se chiamata operazione militare speciale), prima del 24 febbraio, quando ha imbracciato a sua volta il kalashnikov, in direzione ostinata e contraria a quella degli invasori. Si combatteva nelle vie della sua città, quando è stato ferito.
Sergeii, nato a Donetsk 39 anni e a Kharkiv dal 2000, si fatica a immaginarlo in mimetica e con l’Ak47. Anche solo a tracolla. Nemmeno lui ci avrebbe mai pensato prima: così come non ha avuto dubbi ad arruolarsi dopo («Ci siamo sentiti offesi da quanto ordinato da Putin: ci siamo arruolati subito a migliaia: nessuno può dire agli altri che cosa devono fare»). Quel dopo corrisponde alle 5 del 24 febbraio, quando tutto cambiò. Fu la moglie, che ora mostra il filmato della notte lacerata dalle esplosioni, a tirarlo giù dal letto. «In auto – racconta - corsi a prendere la figlia di Alona e il marito a 15 chilometri da casa nostra. La strada che all’andata avevo impiegato un quarto d’ora a percorrere ci costò due ore e mezza al ritorno: tutti in coda, tra grattacieli colpiti dai missili. Sparivano o restavano in piedi come scheletri in fiamme».
Non basta togliersi giacca e cravatta (o il pigiama) per indossare la divisa della Difesa territoriale. «Devi allontanare gli affetti più cari» spiega. Così fece. Portò la famiglia nella provincia di Poltava, dai parenti. E il giorno stesso tornò a Kharkiv. In cambio della registrazione del passaporto ebbe un kalashnikov. Sapeva già come usarlo: fino al 2015 era capitano di polizia, responsabile di 180 uomini. Un ruolo che sarebbe tornato utile. «Già il 24 – ricorda – ti affacciavi e vedevi i carri armati russi passare. Solo che non sapevano bene dove andare. Erano sprovvisti di gps e avevano in dotazione cartine degli anni ‘70. Kharkiv è cambiata». Una bazzecola per chi era convinto di essere accolto da fiori e tricolori russi. Solo che non sarebbe stato così. Nemmeno la preparazione, con le infiltrazioni capillari mandate avanti nel corso degli ultimi tre anni da parte di uomini che prendevano case in affitto, è stata sufficiente. Nemmeno arruolare i russofili individuati attraverso Facebook, per mandarli nelle case indicate con il gps a lasciare torce accese per guidare i bombardamenti, ha dato il vantaggio sperato. Gli ucraini si sono presto organizzati, per segnalare ogni movimento strano. E due sospetti li arrestò Sergeii, nella sua breve guerra. Erano in divisa di poliziotti e offrivano cibo ai nostri soldati. Grazie alle conoscenze tra gli ex colleghi, l’avvocato scoprì che erano impostori con divise rubate. «Avevano ricevuto 1500 euro, per tradire» racconta. Lo ammisero di loro spontanea volontà. «Era nel loro interesse: se fossero arrivati i russi, anche loro sarebbero stati giustiziati».
La gente comune è stata sorpresa dall’attacco, ma i servizi segreti ucraini no. «Il 21 febbraio carri armati e aerei erano stati messi al sicuro. E così le colonne mandate da Putin sono state prese alle spalle, mentre di fronte si organizzava la resistenza». Di fronte e ai lati, con i civili impegnati a lanciare bottiglie molotov o a sparare con i mitra distribuiti in municipio. Già, l’edificio ottocentesco che si vedeva di fronte alle finestre del grande studio legale di Chernoval. Il passato è d’obbligo, da quando la sede comunale è stata centrata da un cruise russo. L’esplosione fu tale da devastare anche l’ufficio di Sergeii. Era il primo marzo, e lui era già ferito. «Andò così – racconta -. Con il Pajero di un mio collega a sua volta nella Difesa territoriale avevamo caricato altri tre volontari dalla circonvallazione. Si rientrava, quando un soldato ucraino ci fece segno che era troppo pericoloso procedere. Svoltammo, e dopo poco un altro militare ci bloccò: c’erano infiltrati ovunque. Pochi secondi dopo udii un colpo dalla mia destra». Sergeii vide arrivare un Rpg. Gridò, sterzò a sinistra lui prima ancora che potesse farlo l’amico. Salvò lui e gli altri. «La granata sfrecciò a un metro e mezzo dal nostro Pajero. Quindi, partirono le raffiche di mitra». A sparare erano alcuni russi vestiti di nero. Unico a essere colpito, Chernoval fu anche l’unico a restare a bordo del fuoristrada con una ruota esplosa. Ferito, ma non in modo mortale. «A salvarmi è stato l’arcangelo Michele» dice, mostrando il grande tatuaggio coperto a sua volta dalla benda. Gli altri riuscirono a mettersi al riparo. Ma intanto, richiamati dai colpi, intervennero anche gli ucraini. Presto, i russi smisero di sparare. Ma troppi ce n’erano ancora nelle vie vicine, perché l’ambulanza potesse accorrere: stando agli ucraini, l’Armata rossa improvvisa tiri a segno sui mezzi di soccorso. Il primo ad arrivare fu un medico a piedi. «Mi sa che il tuo braccio te lo scordi» gli disse. «Gli risposi di fermare almeno il sangue. Il dolore era tale che non sentivo nemmeno la paura». Anche se una paura c’era: di addormentarsi e non svegliarsi più.
Appena il tempo di essere operato, accanto ad altri due feriti, e Sergeii fu portato nei sotterranei dell’ospedale. «Era in corso l’ennesimo assalto: se i russi l’avessero trovato, l’avrebbero ucciso o torturato. Il chirurgo non sapeva cosa fosse meglio…». E così, in un momento di calma appante, lui e altri tre finirono sul pianale di un furgone, per un ospedale meno esposto. Da lì, il volontario, stabilizzato, fu dimesso 12 giorni dopo. Non perché non fosse grave, ma perché troppi altri ce n’erano messi peggio. «Troppo presto per parlare del tuo braccio» gli disse il medico, mettendogli il fissatore.
Sergeii non dimenticò quanto lasciava dietro di sé. Affittò quattro autotreni (e si può immaginare quanto gli sia costato il noleggio di camion e autisti in tempo di guerra) per caricare 113 feriti in condizione di poter essere trasportati. Così, grazie a lui, vennero allontanati dalla regione di Kharkiv, una delle più a rischio: allora e appena meno oggi, dopo che i russi sono stati respinti di una 30ina di chilometri. Accudito dalla moglie e visitato dai medici a casa, Chernoval ora spera nell’intervento a Parma. Vuole liberarsi di quei due sgraditi ricordi russi dalla schiena. E gli preme ritrovare il braccio destro. Non più corto, come gli è stato detto in Ucraina. «Tornerò a combattere, se dovrò, anche se vorrei tornare per ricostruire» dice. E a chi mette in dubbio l’utilità dell’invio di armi a Kiev risponde che la sua gente combatterebbe anche con i coltelli. «Certo che voglio la pace, ma più della guerra temo la schiavitù» dice. La guerra però pare impossibile da vincere. «Servirebbe un complotto al Cremlino» mormora, e intanto racconta speranzoso che «molti soldati russi mettono la sabbia nel serbatoio dei carri armati, per fermarsi. Altri si sparano ai piedi. Cinquemila hanno sottoscritto una richiesta di fermarsi, dopo 17 sanguinosi e inutili assalti a Chernabalka: ora sono finiti chissà dove».
Sergeii parla di tante altre Bucha, di violenze sulle quali i suoi ex colleghi stanno già indagando. «Abbiamo già tremila prigionieri in attesa di processo per crimini di guerra». Sorride, a sentir parlare di neonazisti nel suo esercito. «Falsità. Può esserci al limite qualche ultrà del Kharkiv Metalist». Di Zelensky, poi, al quale avrebbe dato il voto se quel giorno non avesse lavorato, solo per contrastare Poroshenko, ora si dice fiero. «Se non ci fosse lui, l’Ucraina non esisterebbe più, e noi staremmo resistendo con coltelli e fucili da caccia». Fissa il soffitto dell’ambulanza, suo panorama per le ore di viaggio fino al Pronto soccorso del Maggiore. «Da dove viene questo sibilo? Ricorda quello dei missili». Si va veloci verso Parma, anche se non proprio come missili per fortuna.
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