Tortellate
Una notte magica, arcana, antica ma, soprattutto, tutta parmigiana. La notte del 23 giugno, quella «dla rozäda äd San Zvan», è la notte magica per eccellenza. Si fondono insieme, infatti, antichissime tradizioni popolari e profondi significati esoterici e religiosi per il fatto che, l’ affascinante e popolare notte, è legata al solstizio d’estate corrispondente a quello d’inverno che si ricorda a Natale. In concomitanza con il solstizio d’estate, quando il sole raggiunge la sua massima declinazione positiva per poi riprendere il cammino invernale, ha inizio l’estate, quindi, San Giovanni, è la festa solare per eccellenza, la vittoria schiacciante della luce sulle tenebre, del bene sul male.
A Parma e nel parmense le tradizioni «d’la rozäda äd San Zvan» non si contano: dalle più note come quelle gastronomiche che vogliono in tavola i tradizionali tortelli d’erbetta, a quelle meno note le cui origini si perdono nella notte del tempo. Ma se i tortelli, a Parma e nel suo contado, sono rigorosamente confezionati con un «magico» ripieno di ricotta, erbette, una sapiente spruzzata di noce moscata, il tutto abbracciato da una sfoglia gialla e sostanziosa tirata a mano, frutto di un impasto di acqua e farina e freschissime uova di gallina di pollaio e non di batteria, in montagna, i tortelli, prevedono un ripieno diverso composto, sempre di ricotta, alla quale le «rezdore» montanare aggiungono punte di ortiche novelle e patata per renderlo morbido e vellutato.
Un’altra differenza tra i tortelli «cittadini» e quelli «montanari» è la «còvva» di pasta: i primi la prevedono, i secondi no.
Burro e formaggio (preferibilmente di collina) esaltano questi capolavori gastronomici dell’estate parmigiana che vanno rigorosamente gustati coi piedi sotto la tavola all’aperto, preferibilmente, tempo permettendolo, sotto un fronzuto bersò alla confidenziale luce di sconnesse lampadine sulle quali vanno a sbattere le farfalle della notte. Ed a proposito dei «tordè», Baldassarre Molossi, indimenticato direttore della «Gazzetta di Parma», nonché storico accademico dell'«Accademia italiana della Cucina», disistimava profondamente gli osti che servivano i tortelli d'erbetta in inverno. Grande verità anche se, ormai, siamo abituati a trovare in inverno dall'ortolano: fragole, ciliege, meloni e persino angurie. Una mostruosità. Comunque, è in estate che i tortelli sprigionano alla grande tutto il fascino dei gusti, dei sapori e dei profumi che li compongono. Burro, ricotta e «parmigiano» estivi esaltano il fascino del latte delle mucche che mangiano le erbe di stagione mentre le erbette hanno tutto l'aroma dell'orto estivo. In caso di maltempo la tradizione vuole festeggiato San Giovanni sotto il porticato, oppure nell’andito della casa di campagna, come si faceva un tempo, a patto che si lasci la porta aperta per favorire i benefici influssi rugiadosi. Per quanto concerne le tradizioni della notte magica del 23 giugno non c’è che l’imbarazzo della scelta.
La notte di San Giovanni è definita anche «notte delle streghe» che la tradizione vuole vedere danzare sotto un noce. E’ la notte dei falò che i nostri vecchi accendevano per perpetuare un rito magico interpretato da alcuni studiosi come magia purificatrice atta a scacciare i demoni e le forze occulte della natura. E’ la notte nella quale le «donne dei segni», ossia le «medgón’ni» raccolgono le loro erbe miracolose. Infatti, la terra si imbeve di strani influssi e le erbe medicinali, madide di rugiada, acquistano maggiore efficacia. Il prezzemolo bollito e messo in fusione, secondo la tradizione, preservava dall’invidia, dalla stregoneria e dal malocchio. Le ragazze, per trovare l’amore, dovevano, sempre e rigorosamente nella notte solstiziale, strofinare sulla mentuccia dei campi la parte più intima del corpo. I contadini, dal canto loro, erano fermamente convinti che inumidendosi il viso con le foglie di tarassaco, imbevute di rugiada, avrebbero combattuto i malanni.
Anche le «rezdore» custodivano i loro segreti, infatti usavano esporre, quella notte, le coperte del letto e gli abiti dei congiunti che avevano più cari onde preservare il vestiario dalle tarme e le persone dalle sciagure. La rugiada ed il clima purificatore della notte «äd San Zvan» servivano a rendere più bianca la tela che veniva stesa sull’erba. Sempre il 23 giugno si cavavano l’aglio e lo scalogno che venivano stesi nell’orto perché la rugiada potesse irrorarli e quindi preservarli dal marciume, come pure le noci per fare il balsamico «nocino» venivano spiccate nel cuore di questa magica notte padana unitamente ai gustosissimi «perén äd San Zvan», perine gustosissime che, se non raccolte nella notte solstiziale, «fanno il bego», chiamato in gergo popolare «giovanén» , in quanto aggredisce il frutto proprio in questa notte.
Si raccoglievano pure il ranuncolo doppio («pè d’oca») per impacchi contro le vesciche, la chelidonia maggiore («erba sardogna») il cui lattice giallognolo era efficace per estirpare verruche e fare cadere denti doloranti, il camedrio («erba ed cursola») dalle proprietà diuretiche depurative, il semprevivo dei tetti («guerda cà» ) per curare herpes, orecchioni e combattere il malocchio. Le nostre nonne raccoglieva anche, sempre battezzate dalla rugiada, le galle («gurgali») per curare dissenterie ed emorroidi, l’assenzio («medegh») utilizzato come cardiotonico e somministrato anche ai conigli «imbalonè» (con il ventre gonfio). Altre simpatiche usanze imponevano ai mariti, in Val d’Enza, di donare alla «rezdora,» la notte di San Giovanni, un mazzetto di fiori di zucca imperlati di rugiada in segno di fortuna, abbondanza e, alle giovani coppie, augurio di numerosa prole. Altre tradizioni vogliono che nella notte solstiziale (nella bassa ) siano raccolte alcune foglie di rafano («cren») quindi conservate sott’olio. Con l’unguento che si andava a formare, si potevano fare massaggi durante l’inverno per lenire i dolori artritici. La gente dei campi festeggiava San Giovanni, non solo per un fatto propiziatorio, quanto per un’esigenza purificatrice. La terra, infatti, dopo il raccolto aveva la necessità di essere purificata dalla rugiada per essere pronta a ricevere la nuova semina. Il contadino, nella sua straordinaria saggezza, sempre nel corso della magica notte di giugno, usava interpretare il volo delle lucciole.
A seconda della baluginante danza degli insetti, tentava di indovinare l’andamento e, quindi, le fortune o le sfortune dell’anno agricolo affidandosi alla cabala della natura. Se le lucciole volavano rasentando i fossi si sarebbe trattato di un’estate torrida e siccitosa, in caso contrario, se volavano lambendo i rami delle siepi e delle piante e cioè si portavano verso l’alto, l’estate sarebbe stata fresca e piovosa. A loro volta, allo scoccare della mezzanotte, i rabdomanti tagliavano dai noccioli e dai salici i rami biforcuti per la loro bacchetta divinatoria. Secondo un’antichissima tradizione montanara, si dice che chi rompeva un uovo nell’acqua bollente, sempre nella notte del 23 giugno, otteneva la sagoma di una barca a vela, mentre c’era chi nascondeva uno specchietto sotto il cuscino per vedere le sembianze del diavolo che, nella notte solstiziale, mostrava il suo vero volto.
Collane d’aglio venivano esposte davanti alla porta di casa, mentre un’altra tradizione della bassa padana voleva che il «rezdor», munito di aglio, si aggirasse nella notte di San Giovanni per la casa e scacciasse i folletti e gli spiriti maligni che si sarebbero annidati negli angoli più reconditi delle stanze, della cantina, del solaio, della stalla e del pollaio dove la benedizione pasquale del prete non era arrivata. Fortunatissimi erano considerati colui o colei che, nella notte solstiziale estiva, avessero visto o incontrato un gufo (portatore di saggezza e di fortuna).
Ad una sorte diversa e totalmente contraria potevano incappare coloro che avevano la sventura di avere un incontro ravvicinato con uno o più pipistrelli all’interno della casa. Immediatamente, col capo coperto da un cappello, si doveva fare uscire la bestiaccia spargendo sale sul pavimento sorvolato dal vampiro, quindi le massaie avevano il compito di legare agli «scuri» mazzetti di aglio allo scopo di tenere lontano l’indesiderato ospite. Guai in vista per l’innamorata o l’innamorato che, nella notte solstiziale, avessero mentito relativamente ai loro sentimenti perché, come recitava un antico adagio, «San Giovanni fa saltar fuori gli inganni». Tradizioni senza senso e senza età, usanze che si sono tramandate nel tempo ma che, alla fin fine, celano delle loro verità evanescenti ed eteree come la schiuma del lambrusco con il quale si brindava fino a che si azzurrava il cielo di questa magica notte parmigiana.
Lorenzo Sartorio
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