Missione Ucraina del Seirs
Zahony (Ungheria-Ucraina) - Bambini che non sorridono, che non dormono per paura di sognare e quando chiudono gli occhi si svegliano con un urlo. Giocati dalla guerra. Impossibile vedere sanguinare le loro ferite, tanto sono profonde. E chissà se un giorno Vasilij riuscirà a ritrovare il sereno nell'azzurro dei suoi occhi da mesi fissi al suolo. Chissà che cos’ha visto, prima d'essere salvato da Mariupol tra le bombe e le raffiche di mitra, nei giorni dell’assedio. Con lui ci sono altri piccoli traumatizzati, nell’asilo di Čop trasformato in ambulatorio psicologico oltre che prescuola elementare. Sarà quello dell’infanzia ferita il primo fronte d’intervento in Ucraina del Seirs. Ieri, nella quinta spedizione in cinque mesi, i volontari hanno varcato per la prima volta la frontiera più dolorosa: quella che ne vale tante altre. A cominciare dalla linea rossa tra la pace e la guerra.
Ad attenderli a Čop, il sindaco Valery Samardak, già all’esterno del municipio. Lui li chiama sconosciuti che si sono dimostrati amici con i fatti, prima ancora che con le parole. Li abbraccia uno a uno, e non c’è bisogno di traduzione, per capire quanto sentiti siano i ringraziamenti. Presenta ai collaboratori i volontari venuti da lontano, si fa fotografare con loro nel proprio ufficio e davanti alla stazione, vanto della città. I rituali finiscono in fretta. La prima tappa è proprio l’asilo. Dove Samardak viene preso in contropiede. «Serve una struttura più grande» esclamano insieme Luigi Iannaccone, presidente del Seirs, e Cesare Beghi, cardiologo al Maggiore dal 1988 al 2011 e professore di Cardiochirurgia all’Università di Varese, in pensione dallo scorso anno. Veterano delle missioni umanitarie (il tempo di disfare le valigie, e ripartirà per il Kosovo), è alla seconda spedizione per l’Ucraina con la Croce gialla. Incalza il sindaco con i tempi serrati da chirurgo: «Serve una struttura più grande, per farne un punto di riferimento di un'area allargata». Richiesta che vale una promessa. «Decideremo insieme sulla base delle priorità - aggiunge Iannaccone -. Da parte nostra c’è la volontà di impegnarci innanzitutto su questo fronte, se siete d’accordo». Una delle valigie di Marco e Anna, a sua volta spedita dal Seis fa bella mostra di sé in un angolo: una maestra la indica complimentandosi. In questo momento pare che, oltre ai giochi da strada, anche il baule contenga il proposito di fare di più per i bimbi. «Cercheremo di implementare anche l’aspetto professionale, magari con la formazione di psicologi ad hoc» aggiunge Beghi.
Nell’asilo, la guerra si legge negli sguardi dei piccoli. Per strada, sui manifesti che incitano all’arruolamento, lungo i marciapiedi percorsi da ragazzi e ragazze in divisa, armati. Non c'è tensione e la vita, a parte questi aspetti, scorre quasi normale, con i ritmi rurali di una terra dove ancora si vedono carretti trainati da cavalli.
I missili caduti più vicini restano quelli lanciati su Ivano Frankivsk, strategica per la base dell'aviazione: cento chilometri a oriente. L'allarme aereo risuonato finora è quello generale, per tutta l'Ucraina: solo un amplificatore di ansie per un territorio mai preso di mira. Forse per questo, i resti di missili e contenitori di bombe a grappolo lanciati su Kiev sono stati esposti qui: a ricordare che potrebbero toccare a tutti. Si vive in un tempo sospeso, come se tutto da un momento all'altro dovesse cambiare.
La storia si è divertita a mescolare le carte, nella Transcarpazia ungherese fino al 1920 (e ancora d'etnia magiara per il 40 per cento degli abitanti), poi cecoslovacca e di nuovo ungherese, prima di diventare sovietica fino al grande crollo. Ed è normale che la storia passi ancora di qua più che altrove. Lo ha fatto nei primi giorni dell'emergenzam quando i profughi interni, provenienti soprattutto da Kharkiv e Donbass, erano diecimila, in continuo transito, raddoppiando di fatto la città: ora si è scesi a duemila. Non più di passaggio. «Solo 26 sono senza lavoro: anziani o malati: a tutti gli altri lo abbiamo trovato» sottolinea Samardak. Parla con l’orgoglio di chi fa la guerra rafforzando le trincee della pace. I volontari lo seguono in un pronto soccorso per militari. Quindi in quello che dovrebbe essere l'ospedale, una sorta di ambulatorio privo di apparecchiatura diagnostica: va a sua volta curato. Infine, nella scuola elementare. Si sta trasformando la cantina in bunker, come dimostrano i sacchetti di sabbia a protezione delle bascule. «Serviranno panche, suppellettili...» annota Iannaccone. Affrontata a tavola la prova dell'ospitalità ucraina, è tempo di tornare: il sindaco ha da correre altrove. La strada è breve, ma c'è di mezzo il confine. E alla dogana ungherese si perde oltre un'ora, molto più che all'andata. Del resto, in guerra è più facile entrare che uscirne.
Dal nostro inviato - Roberto Longoni
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