L'intervista
L'Etna, il vulcano che domina Catania, al culmine della sua attività eruttiva: un concentrato di potenza ed energia, incandescente. È l'immagine allegorica di cui potremmo servirci per rappresentare la rinascita del calcio nel capoluogo etneo. Un club dalla grande tradizione sportiva: quello del «Clamoroso al Cibali», dei 40.000 tifosi accorsi all'Olimpico – era il 1983 - in occasione degli spareggi conclusi con la promozione in A, quello del «piccolo Barcellona» che, dalle sue ceneri, risorge ora più forte. «Melior de cinere surgo», non a caso, è la celebre iscrizione riportata su una Porta storica della città.
Dopo il fallimento del vecchio sodalizio, Catania ha voltato pagina: a guidare il rilancio è l'imprenditore australiano – di origini siciliane – Ross Pelligra. Il Catania Ssd, questa la nuova denominazione sociale, ripartirà dalla serie D. Proprio come accadde al Parma nel 2015. Ed a legare idealmente la favola crociata del «Come noi nessuno mai» alle speranze di un Catania tornato a sognare in grande, è Luca Carra: amministratore delegato del Parma nel periodo della scalata trionfale verso la A e oggi direttore generale del club rossazzurro. Ai piedi dell'Etna, lo considerano una sorta di «portafortuna». «In una piazza come quella di Catania, l'entusiasmo è comprensibile: trovo bello che sia così» premette Carra. «Ma quando mi fanno notare le tre promozioni consecutive, non posso fare a meno di osservare come a Parma non abbia raggiunto questo incredibile risultato da solo. Qui si era creata un'alchimia magica. Tutte le componenti furono determinanti: la serie A la conquistammo come città, prima ancora che come club o squadra. Non abbiamo mai vissuto un solo giorno isolati: in trasferta, anche fra i dilettanti, viaggiavamo con 4.000 sostenitori al seguito. Io non so se sarà possibile ripetere il miracolo, ma a Catania vorrei ritrovare quell'alchimia che a Parma propiziò l'impresa».
Una risalita, quella dei crociati, che a pensarci bene non era poi così scontata.
«Tutt'altro. Anche se quando siamo tornati nel palcoscenico più prestigioso, in tanti affermarono che questo triplo salto per il Parma fosse stato un passaggio naturale. E io stesso mi ero quasi convinto che fosse effettivamente così. In realtà, da quando sono a Catania, mi sono reso conto di ciò che abbiamo fatto. Di scontato non c'è nulla, nella vita come nel calcio. Anche se ti chiami Parma e hai una meravigliosa collezione di trofei in bacheca».
A Catania, i programmi della società sono ambiziosi.
«Il presidente Pelligra punta a riportare il club rossazzurro in serie A, ma chiaramente non ci ha chiesto di farlo in tre anni. Per raggiungere questo obiettivo, ha definito un poderoso piano di investimenti. Questo non ci dà la certezza del risultato, perché nel calcio non vince chi ha la disponibilità più elevata a livello di budget».
Confrontando le due esperienze, sebbene a Catania lei sia solo all'inizio, quali punti di contatto vede?
«Parliamo di due realtà profondamente diverse, dal punto di vista demografico innanzitutto. Catania ha un hinterland vastissimo: ci sono aree più povere, dove quindi le differenze a livello sociale appaiono più marcate. Però Parma e Catania hanno anche tanti aspetti simili, che convergono sul calcio alimentando le ambizioni. Posso riassumerli in una parola sola».
Quale?
«Sintonia. A Parma, nel 2015, Marco Ferrari riuscì ad aggregare non soltanto grandi imprenditori, ma anche quelli piccoli e medi, insieme a istituzioni e tifosi. Da questa unità d'intenti, ricevemmo una spinta eccezionale. A Catania mi sembra di rivivere le medesime sensazioni: c'è l'interesse degli sponsor, che si propongono, la disponibilità dell'amministrazione comunale, una città intera che s'identifica nel calcio e vive questa rinascita in trepida attesa, cercando continuamente notizie. Lavoriamo senza sosta, anche se non abbiamo ancora uffici. A Parma, se ricordate, le riunioni le facevamo al bar; a Catania, per il momento, siamo in un albergo».
Lei è passato dai “magnifici 7” ad una proprietà guidata da un singolo imprenditore: cosa cambia?
«Guardi, a Parma non c'è mai stato nessuno dei sette soci che volesse fare le cose da solo: per me era una voce unica. Fra di loro non c'è mai stato uno screzio riguardo le decisioni da assumere. Tale armonia ha consentito a noi professionisti, ciascuno secondo il proprio ruolo e le proprie competenze, di operare nelle migliori condizioni possibili».
Al di là dei risultati sportivi, quali meriti vanno riconosciuti all'esperienza di Nuovo Inizio?
«La trasparenza, l'amore per il Parma, la ferma volontà di agire esclusivamente nell'interesse del club. Vede, ogni tifoso ha diritto di esprimere la propria opinione, così come io non parlo della dirigenza attuale del Parma: ho imparato infatti sulla mia pelle quanto, osservando le cose da fuori, non si possa avere mai la percezione esatta delle dinamiche che si sviluppano all'interno di un determinato contesto. Ai sette soci va dato atto di essere stati onesti. Sempre. Hanno detto di non essere imprenditori di calcio e che avrebbero lasciato la società in mani sicure, a gruppi imprenditoriali che avessero le forze per mantenere il Parma ad alti livelli. Quando siamo andati via, i conti erano in ordine. E nessuno dei soci ha tratto vantaggio da questa operazione. A guadagnarci è stata tutta la città: squadra e tifoseria. Il tempo è galantuomo: la gente di Parma saprà dare il giusto valore a ciò che è stato fatto».
È un Catania che, in qualche modo, parla...parmigiano: l'ex crociato Grella vicepresidente, Erreà sponsor tecnico. Si sente già un po' a casa?
«Lavorare con persone che conosci, favorisce il processo di inserimento. Grella si sta rivelando un dirigente preparato, attento, equilibrato nelle dichiarazioni. Il marchio Erreà, invece, ho scoperto che è molto apprezzato a Catania: in quella azienda ho lavorato per dieci anni, come responsabile Marketing. Quando ho chiamato Angelo Gandolfi per dirgli che avevamo bisogno del loro supporto, l'accordo lo abbiamo trovato subito. Presto presenteremo le nuove maglie, ma puntiamo anche sulle strategie di commercializzazione del brand Catania: solo in Australia ci sono migliaia di emigrati catanesi e tanti altri vivono negli Stati Uniti e nel resto del mondo».
In Sicilia, lei, come ci è arrivato?
«Il primo contatto l'ho avuto con Dante Scibilia, advisor del Gruppo Pelligra per l'acquisizione del club rossazzurro. Lo conoscevo da quando lui era direttore generale a Venezia: abbiamo fatto lo stesso percorso, solo che il Parma è arrivato in serie A prima di loro. E questo non faccio altro che rammentarglielo... (ride, ndr)».
Del modello del suo Parma, cosa è possibile esportare a Catania?
«L'idea di una società che sia professionale e pronta agli eventuali salti di categoria. A Parma ricordo che partimmo subito con una struttura organizzativa già attrezzata per affrontare la B. A Catania, ci sono alcuni punti fermi: il segretario generale e il responsabile della comunicazione, ad esempio, conoscono alla perfezione la società e l'ambiente. Un altro aspetto fondamentale è parlare con chiarezza, senza fare proclami: è una questione di serietà e di rispetto nei confronti della gente».
Troverà un pubblico passionale: si aspetta un risultato simile a quello degli oltre 10.000 abbonati al Parma nell'anno della D?
«Penso sia un traguardo alla portata di Catania. Come a Parma nel 2015, anche in questo caso la proprietà non cerca un ricavo economico maggiore ma vuol riempire lo stadio».
Da una bandiera all'altra: nella rinascita del Parma in campo c'era Alessandro Lucarelli, in quella del Catania lo storico capitano Marco Biagianti nelle vesti di team manager. Ruoli diversi, ma stesso senso di appartenenza.
«Proprio così. Ai giocatori di quel Parma, Lucarelli seppe trasmettere la mentalità vincente e cosa significasse indossare quella maglia, giocare davanti a 17 mila persone. A Biagianti, chiediamo la stessa cosa. Marco mi piace: è positivo, sorride sempre, ha un attaccamento fuori dal comune per i colori rossazzurri».
Cosa serve oggi ad una società di calcio, a tutti i livelli, per fare bene?
«Programmazione e capacità di coinvolgimento: una società di calcio ha una proprietà e un consiglio di amministrazione, ma è prima di tutto espressione di un territorio. Non è la classica azienda privata, ma molto di più: racchiude in sé orgoglio, sentimento, identità».
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