L'atleta paralimpico a Parma
Andrea Lanfri, 36 anni, corre veloce e scala montagne. È arrivato sulla vetta dell'Everest, il 13 maggio scorso. Qual è la notizia? Che Andrea ha perso sette anni fa entrambe le gambe e sette dita delle mani per una meningite fulminante con sepsi meningococcica. È il primo uomo con questo tipo di disabilità ad essere riuscito nell'impresa, ed ha già avviato le pratiche per entrare nel Guinness dei primati.
Parla della sua esperienza nel negozio di alpinismo «Montura», al Botteghino, prima di raggiungere il campus dove venerdì sera è stato proiettato il film della spedizione, già andato in onda sulla Rai. Con lui la guida alpina Luca Montanari, che dal 2007 ha raggiunto oltre venti vette tra i 6 mila e gli 8 mila metri, e che l'ha accompagnato nella scalata: la prima sull'Everest anche per lui.
Per capire come sia stato possibile qualcosa che nessuno prima aveva non solo tentato, ma forse neppure immaginato, bisogna fare un passo indietro. A quando, a soli dieci anni, Andrea era già impegnato in trekking di più giorni sulle Apuane (è originario di Lucca), e a quando, qualche anno dopo, era diventato alpinista provetto. Ma anche a quando, sette anni fa, il fisioterapista gli ha presentato le sue nuove gambe: «"Ora sta a te portarle in giro", mi ha detto. Le ho accettate subito come una parte di me, non come qualcosa di estraneo, pensando a come potevo sfruttarle al meglio».
Il meglio è arrivato presto: nel 2016 record italiano e bronzo nella staffetta 4×100 paralimpica, l'anno dopo argento ai Campionati del mondo di atletica leggera paralimpica, sempre nella staffetta.
Ma restava nel cuore la passione per la montagna. Nel 2019 l'incontro con Montanari, che collaborava da tempo con la Nazionale italiana arrampicata disabili. Il progetto prende forma. «Sapevo che era difficilissimo, avevo già tentato arrampicate, e fallito. La chiave è stata una pianificazione certosina, oltre ovviamente all'allenamento fisico», dice Andrea.
Mostra le foto sulla vetta, lui che sventola al cielo una gamba di titanio (quella di riserva, che si portava nello zaino): «Questa è la “vetrina”, sei giorni per andare e tornare dal campo base. Ma la vera fatica è stata quello che non si vede, preparare il viaggio: trovare gli sponsor e gli sherpa che ci hanno accompagnato, organizzare il soggiorno di due mesi, ottenere i permessi dalle varie autorità. All'ultimo abbiamo rischiato di non partire perché mancavano bombole di ossigeno prodotte in Russia, e la guerra in Ucraina era appena scoppiata. E poi c'era l'incognita del meteo», ricorda.
Anche per le protesi è stato necessario fare vari test. La soluzione, inaspettata: «Nessuna protesi speciale, ma un prodotto fabbricato in Islanda per donne che vogliono portare i tacchi, con una caviglia meccanica molto comoda nelle discese» dice Andrea.
E ora? «Continua il mio progetto Mysevensummits, scalare le sette cime più alte dei continenti. Oltre all'Everest, ho già fatto Kilimangiaro e Monte Bianco. La prossima è Aconcagua in Argentina, a gennaio».
Nel frattempo tanti incontri per parlare di disabilità, sport, inclusione. «Non conta tanto quello che abbiamo fatto, ma come lo abbiamo fatto - dice Luca - La felicità condivisa è felicità al quadrato e l'esperienza con Andrea mi ha dato cose che con altre persone non avrei avuto».
«Vorrei essere un testimonial di energia e coraggio per chi vive una condizione simile alla mia - aggiunge Andrea - Accettatevi, andate oltre, non abbiate paura. Si fallisce, si cade, ma poi si riparte, fissando un obiettivo per volta». Vale per le scalate, ma anche - in generale - per la vita.
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